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Branchie Anno 2 Numero 1 ottobre 2011



Volontari al fronte

Daniele Capra





Sommario BRANCHIE #01

Introduzione di Silvia Basso e Giuliana Tammaro

"Volontari al Fronte", di Daniele Capra, giornalista e curatore indipendente.

8 realtà indipendenti si raccontano attraverso 8 domande.

Con la partecipazione di: A+A, Associazione E, Inutile, Laverna, Libreria Marco Polo, Nedac, Studio Fludd, Videotrope.
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La Libreria Marco Polo di Venezia

Immagine di un'iniziativa attivata da NEDAC - North East Department for Arts and Community

Il sistema del contemporaneo funziona grazie ad un esercito di volontari disposti a lavorare senza essere pagati. Artisti che producono opere a proprie spese, curatori che curano e scrivono solo perché si veda il loro nome. È un sistema malato e da cambiare. Ecco uno sfogo sopra le righe.

WE WANT YOU FOR ART ARMY.
I direttori o i responsabili potrebbero mettere questi manifesti fuori dalle nostre facoltà in cui si studiano le arti visive, le accademie d’arte italiane, le fondazioni o qualsiasi altro luogo in cui ci siano giovani aspiranti artisti e curatori.

Perché è inutile che si facciano discorsi alti o si parli di sogni a chi, con qualsiasi tipo di professionalità, dovrà occuparsi di arti visive, di contemporaneo: lavorare in questo settore nel nostro paese – la “p” è minuscola per scelta – vuol dire lavorare gratuitamente, militare in un esercito di volontari che faticano e combattono aspettando una terra promessa che, nella maggior parte dei casi, non arriverà mai.

I legionari romani combattevano per avere a disposizione degli appezzamenti di terreno; qui invece non c’è praticamente niente da distribuire o da dividersi, solo una palude con acque ferme e maleodoranti. Insomma le classiche lacrime e sangue.

Qualsiasi discorso sull’arte contemporanea parte infatti da: il sistema è basato sul volontariato, sul fatto che artisti e curatori siano disposti a lavorare rimettendoci. Il resto, perdonate la franchezza, sono solo chiacchiere da Bar Sport.

Tra tagli ai fondi dedicati alla cultura diventati ormai strutturali (al punto di minare l’idea stessa di fare cultura), politici incompetenti e menefreghisti, funzionari demotivati e spesso anch’essi incompetenti, galleristi ormai ridotti all’osso, la mia generazione ha sofferto più di tutte la mancanza di una prospettiva e di una concreta possibilità di fare della propria passione una professione.

Io (soprav)vivo facendo il curatore ed il giornalista, e – vi chiedo di credermi – mi capita di fare il trasportatore, l’allestitore, il facchino, l’uomo delle pulizie e pure il custode. Ovviamente non sono un eroe, la mia è una sorte comune a migliaia di persone del sistema del contemporaneo.

Molto di quello che accade, infatti, sia nelle mostre negli spazi pubblici, nel non-profit che nei circuiti espositivi alternativi è rigorosamente frutto del volontariato e di lavoro sodo non retribuito, di sacrifici e di sforzi indicibili sulle spalle di artisti, curatori & co.

Intendiamoci: non è la generosità del volontariato il problema, dato che non c’è niente di più bello che fare delle cose perché ci si crede e si è intellettualmente o emotivamente coinvolti. Il problema è che questa modalità è l’unica possibile nella nostra cara Italietta, che è “cara” non per il fatto di esserlo ma perché ci costa. L’alternativa, infatti, è quella di non fare proprio nulla: niente mostre, niente festival, niente cataloghi, niente arte. Niente cultura. Semplice, no?

Diciamolo che è uno scandalo, che siamo stufi di questa condizione che, con un eccesso di ottimismo, potremmo definire di merda. Fare arte e renderla visibile è una professione. Ma di cosa devono campare artisti e curatori? Di aria compressa? (La battuta è rubata all’amico Antonio Bardino). Per non parlare poi di tutte le volte in cui vedo un assessore, un sindaco, o un funzionario: subito dopo avermi stretto la mano so già che comincerà a spiegarmi come non ci siano soldi e che la mostra o l’evento di cui stiamo parlando non deve costare. Da mettere la mano alla pistola. Aiuto.

Inutile dire che fare arte vuol dire creare valore, ricchezza. Inutile dire poi che il tutto deve avere un costo e non può essere solo il prodotto di sforzi isolati di persone che pur di fare qualcosa si autoschiavizzano. Aiuto. Ditemi la verità che è solo un brutto sogno, che nella prossima mostra avrò i soldi per un trasporto o per la guardiania. Ditemi che il nostro potrà essere un Paese normale che non inghiotte chi, nel presente, si occupa di anticipare il futuro. Aiuto.

Non voglio scrivere trattati sull’economia della cultura. Voglio solo dire che prima o poi bisogna farla finita con un sistema così. Sogno o son desto?