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Nodes Anno 1 Numero 0 2012



La percezione come insieme di memoria

Marco Marini

Intervista a Fabio Mauri





SOMMARIO nodes zero

Pag. 8
SUL CONCETTO DI CREATIVITÀ TRA METODO E ISPIRAZIONE
Dionigi Mattia Gagliardi e Giulia Torromino

Pag. 18
UN’INTRODUZIONE GENEALOGICAALL’IMMAGINE-EVENTO
Jacopo Natoli

pag. 26
SERGIO LOMBARDO ARTE E CRISI TRA TRADIZIONE STORICA E PROBLEMATICHE DELL’ATTUALITÀ
intervista di Dionigi Mattia Gagliardi

pag. 34
OPERE IN AFFITTO: UN’IPOTESI DI RICERCA SPERIMENTALE
Simone Guttoriello

pag. 42
CARLO BERNARDINI IL CERVELLO DEL PAESE ISTRUZIONI PER L’USO
intervista di Miriam Mirolla

pag. 48
LE VARIEGATE POSSIBILITÀ DEL SIGNIFICATO E IL D.N.L.P.
Giorgio Mauro

pag. 59
35 IMMAGINI
Danilo Innocenti

pag. 64
IL PERCORSO DELLE NEUROSCIENZE
Giulia Torromino

pag. 72
FABIO MAURI LA PERCEZIONE COME INSIEME DI MEMORIA
intervista di Marco Marini

pag. 80
OPERAZIONI ARTISTICHE CHE COINVOLGONO IL PUBBLICO ATTIVAMENTE
Dionigi Mattia Gagliardi

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Arte e Artigianato: alcune speculazioni a partire da Wikipedia
Simone Guttoriello
n. 2 2014

Michelangelo Pistoletto
Dionigi Mattia Gagliardi
n. 1 2013


Fabio Mauri, still videointerivsta di Marco Marini, 2008

12 maggio 2008
Il primo contatto con Fabio Mauri è stato prettamente visivo, lo vidi in una foto. Il suo sguardo aveva la capacità di penetrare e suscitare una suggestione molto forte.
Un anno prima della sua scomparsa si è presentata l’occasione, dovuta al mio percorso di studi, di poter incontrare questo artista e uomo straordinario. La sua profonda cultura e sensibilità, unita al mio interesse per la percezione come “insieme di memoria”, hanno contribuito alla sua totale apertura, trasformando la parola percezione nel fulcro trainante dell’intervista, che di seguito si presenta come una sorta di soliloquio, senza troppo sforzo da parte mia nel carpire l’essenza dell’uomo Fabio Mauri.


Fabio Mauri: Sulla percezione ho un'idea che mi sono fatto gradualmente nella vita, studiando ma sopratutto osservando. La nostra percezione, specie nelle implicazioni culturali più alte, non mi sembra affatto appartenere ad uno dei sensi “nitidi”. La percezione è una memoria, è il riconoscimento di una realtà esterna dovuta ad una serie di fattori percepiti in diecimila modi diversi, sperimentati dall'infanzia fino alla prima giovinezza e poi alla maturità. Momento in cui vengono collegati una serie di fattori o notizie certe o pseudo-certe. C'è un curioso aneddoto citato dal famoso linguista e antropologo Levi-Strauss: un gesuita andò in una comunità di neri, in un'isola, i quali avevano una loro mitologia del cosmo, e in quelle ore attendevano una eclissi di luna. Con l'occasione il gesuita gli chiese quale fosse il fenomeno da loro percepito, e gli venne spiegato che per far andare via quest'ombra avrebbero battuto ininterrottamente sul tamburo, finché la stessa ombra non fosse andata via. Così egli spiegò, facendo degli esempi con una candela, che non si trattava di un fatto magico, ma di un fatto scientifico, ovvero l'ombra della terra che oscura la luna. Mostrando a questi uomini ciò che realmente accade, essi se ne convinsero. Tuttavia, quando tornò l'eclissi di luna tornarono a battere sui tamburi, e il gesuita chiese: perchè battete? L'ombra andrà via lo stesso, anche se non lo fate! Ed essi risposero: Si. ma noi abbiamo fatto questo per cento anni ed ha sempre funzionato! Ecco, la percezione è un po' così.

Marco Marini: Per cui dipende molto dalla cultura di un individuo?

FM: Non molto, del tutto. Nel senso che la percezione è una cultura. Lo vediamo nei bambini, i quali si acculturano incessantemente. Io penso che la nostra cultura, la nostra percezione sia una memoria. Questo significa che abbiamo una grammatica, un bagaglio di elementi che è già introiettato e che ci fa riconoscere gli oggetti. Nel mio lavoro, questo è rappresentato dalle proiezioni di una macchina cinematografica sugli oggetti, sulle persone, su una casa, sull'acqua, su una nuvola di fumo, ecc. Quando guardiamo una cosa, in parte modifichiamo il nostro sguardo, che è come un raggio cinematografico. Faccio sempre questo esempio: spesso diciamo “guarda che tramonto, sembra un Monet!” oppure “guarda questo prato e quegli uccellacci neri che gracchiano, sembra un Van Gogh!”. La percezione dell'arte molte volte è come quella infantile, è una prima percezione. L'invenzione cresce su una cultura interiore, un'attenzione interiore. In genere gli artisti sono molto percettivi, probabilmente non lo sono in un senso universale, ma lo sono in una direzione specifica, propria. Credo che la percezione sia una memorizzazione, a cui si aggiungono sempre nuove deformazioni, nuove ibridazioni. E' un fenomeno tipico dell'arte.
Ciò che ora, parlando, appare immediato, in realtà è un concetto che ho maturato nel tempo in quanto credevo che la memoria fosse ciò che ci dicono che sia: una suddivisione tra memoria, percezione, istinto, inconscio e così via. Secondo me, per l’esperienza che ho potuto fare dell’uomo, le cose non stanno esattamente così, anzi, sono fortemente intrecciate, e nell’arte questo si chiarisce quasi più nitidamente. Potrei addirittura arrivare a dire che il talento può esistere sempre. Lo si vede nei bambini fino a sei, sette anni, che sembra abbiano un talento naturale. Essi sono come delle spugne e non si sa da dove venga il loro talento. Tuttavia, ad un certo punto lo perdono. Alcuni, più bravi, continuano a fare i pittori, altri perdono questo talento perché hanno il “problema” della realtà, di rappresentare la realtà. Allora, iniziano a copiare i fumetti, a ricalcarli. Prima sono dei liberi artisti, poi dipingono secondo il “tempo”.
Con questo apprendimento e questa proiezione nell’arte, si crea proprio una cultura linguistica. Si può quasi affermare che senza cultura non c’è arte, c’è solo un puro talento naturale. Anche un indigeno ha una sua cultura, ha dei referenti, ha un apparato percettivo, riproduttivo ed espressivo complesso quanto quello di Leonardo Da Vinci. Si tratta sempre di una elaborazione di dati memorizzati, rielaborati, riproiettati da fuori a dentro. Se la nostra memoria diventasse un oggetto, sarebbe molto complesso e in cui faticosamente, come cerca di fare la psicoanalisi, si potrebbe ricostruire parte di ciò che non ci è noto di noi, cioè l’inconscio che non è consapevole e che è la nostra storia: come ci siamo formati, come siamo cresciuti, cosa abbiamo tentato di scartare, cosa invece abbiamo voluto acquisire e conservare.
In una mostra che ho fatto da poco all’Auditorium Parco della Musica di Roma, su per le scale era presente una mia installazione con delle frasi e una stampa con la faccia di un uomo con gli occhiali (Osip Brik), è un personaggio del Cubofuturismo e dell’Espressionismo Russo. L’occhiale di sinistra è tutto coperto da caratteri cirillici. E' uno scherzo che Vladimir Majakovskij ha fatto a quel personaggio. Perché in questa mostra ho citato una figura così famosa della Storia dell’Arte? Perché è la mia cultura. Dunque, la percezione è un insieme di memoria sperimentata. E' una proiezione. Noi in parte vediamo, distinguiamo osserviamo accrescendo la nostra percezione, e memorizziamo, riconosciamo perché abbiamo conosciuto. Noi conosciamo un’infinità di cose, è “l’universo d’uso”, come è il titolo della mostra all’Auditorium, perché noi questo mondo lo usiamo.
Nelle mie proiezioni su cose o persone c’è proprio una modificazione del senso. Non è la stessa cosa proiettare l’Aleksander Nevskij di Sergei Eisenstein su un telone bianco, il più neutro possibile, oppure proiettarlo su 50 litri di latte; perché lì, su quel latte, quella specie di alta retorica limpida e favolistica si amplifica il tema della rivolta dei russi contro i guerrieri Teutoni (che rappresentavano storicamente i nazisti). Questo morbido latte, in cui si vedono cavalcare militari russi con la grande barba e pieni di entusiasmo patriottico, aggiunge qualcosa alla pura proiezione del film e in qualche modo lo spiega.
Conosciamo il nostro universo attraverso relazioni culturali e in questo senso il cinema fa parte della nostra percezione del reale perché accresce la nostra esperienza.

MM: Secondo lei il cinema è un “emblema”?

FM: Più che essere un emblema il cinema ha una “funzione obbligatoria”. Se volessi sapere cosa succede ai circassi oggi, dove sono finiti, cosa fanno, potrei cercare un film su di loro, girato nei loro territori, e potrei documentarmi. E' un ampliamento di esperienza, senza dover vivere in prima persona quell'esperienza.
In una conferenza recente ho detto che non c’è storia senza cinema, o meglio non c’è coscienza storica. Ogni film o documentario ben fatto, accresce questo nostro bagaglio percettivo del mondo, lo accresce moltissimo. In un certo senso ultimamente, per l’età che ho, per le vicende familiari che ho vissuto (che sono vicende funebri, di amatissimi fratelli che muoiono), io trovo il mondo non più riconoscibile e neanche generoso, trovo il mondo inverosimile. Ho fatto alcune mostre in cui parlavo dell’inverosimiglianza del mondo, dovuta alla morte. Noi siamo tutti tranquilli, non pensiamo alla morte, che è la rottura di ogni tracciato lungo, di ogni idea di felicità e di benessere.
Ieri sera sono andato a cena dai miei parenti a Porto Ercole, ero solo, era tanto che non ci andavo, ed in soli dieci minuti ero assolutamente nevrastenico. Le cose di cui parlavano erano assolutamente futili e le domande che mi facevano stupide: sulla mia arte, su quale è il mio impegno. Questo vuol dire che da parte loro c’era la volontà di memorizzare male, di non capire, di non affrontare un tema che poteva preoccuparli.
Dentro questa vita possiamo trovare delle nicchie di gioia, di pena, di dolore, di fatica, di successo, di insuccesso. L’importante è avere con essa un rapporto cognitivo, cioè di conoscenza.

MM: Come ha analizzato e tentato di risolvere le problematiche riguardanti l'inconscio nel suo lavoro?

FM: Facendo una analisi da un punto di vista metodologico, c’è molto di Freud nelle mie performance, come ad esempio la ribellione contro il padre. Per molto tempo ho pensato o mi sono comportato come se l’inconscio non esistesse, nel senso che non ho cercato la simbologia obbligatoria di ogni mio impulso, atto o modo interiore di fare certe cose.
Ora, se tu mi chiedessi cos’è l’arte, non avrei meglio da risponderti: “sai dirmi in due parole cos’è la vita”. La vita è complessa ma resta un enigma.

MM: Riguardo le sue opere e in particolare Ebrea, quale è stato il procedimento che l’ha portata alla creazione di questa installazione e alla scelta degli oggetti. Che significato avevano per lei?

FM: Beh, il significato è molto lampante. Mi sembrava qualcosa che non aveva avuto sufficiente lamento. Io ho vissuto la guerra, ho saputo dello sterminio degli ebrei alla fine, mi sono anche ammalato per questo, sapendo che certi amici non tornavano, che erano morti nei campi di concentramento. Tornato alla vita dopo gli anni di malattia, nessuno parlava più del fascismo, sembrava un fenomeno già giudicato, né dello sterminio provocato dai nazisti. Allora, ad un certo momento, vedendo che io e altri avevamo fatto la Pop Art anni prima degli americani, prima della Pop Art “ufficiale”, e vedendo che non c’era stata corrispondenza, mi chiedevo: “Come mai gli americani hanno un’immediata presa sul reale e noi europei no? È come se fossimo in una curva della storia sott’acqua”. Forse perché loro affrontano integralmente la loro realtà e noi non siamo abituati, noi la mascheriamo, la confrontiamo con l’arte classica, abbiamo in mente un’idea sbagliata di noi. Allora ho pensato e ripensato a cosa poteva essere l’equivalente della Coca-Cola. Pensando mi sono ricordato che io avevo avuto delle grandi pagine dure di biografia. Una era la guerra, che si tende a considerarla un incidente e invece è stato un destino, ha cambiato il quadro, ha cambiato lo scenario. L’altra, era appunto questo scenario cambiato e gli amici morti. Allora, ho innanzitutto rappresentato in Che cosa è il Fascismo, i tre giorni che avevo vissuto a Firenze con i miei amici Pier Paolo Pasolini, Fabio Luca Cavazza e vari altri, per l’arrivo di Hitler.
Poi, in Ebrea avevo bisogno di trovare una sorta di metafora stridente, ho vestito i panni del direttore di un campo di concentramento che per affetto verso i detenuti che poi mandava a “gasare”, faceva una specie di piccolo museo con i loro capelli e altro. In parte ho fatto una cosa che è stata fatta nei campi di concentramento: le cornicette con la pelle essiccata del morto, coi capelli della ragazza, coi denti, ecc. In parte ho coniugato questa idea facendo la rappresentazione di tutta una serie di oggetti di design come fossero fatti tutti di materia organica. C’è un cavallo interamente bardato con finimenti fatti in pelle ebrea, una poltrona come fosse in pelle ebrea e altri oggetti. Il mondo, invece, è talmente ingenuo che molte volte mi chiedono: “Ma lei dove ha trovato tanta pelle ebrea?”, e io dico: “C’è un negozietto in Austria a cui io scrivo e loro mi mandano ben confezionata la pelle ebrea, i capelli, i denti, tutto...”. È una domanda troppo ingenua. E' chiaro che è una metafora!

MM: Quindi la scelta dell'oggetto, in sé, è casuale?

FM: È una fantasia compositiva su cose che potevano dare una lontana idea di un materiale organico. Per esempio c’è un altro pezzo che dà meno impressione: sono colori fatti in materiale ebraico, come se avessi squagliato delle sostanze organiche e avessi fatto il nero, il viola, il giallo, il blu, ecc. Questo all’inizio ha molto impressionato alcuni ebrei, i quali hanno detto che non si scherzava con queste cose. Ma io non scherzavo affatto. Tant’è vero che la mostra Ebrea è stata fatta in mezzo mondo e impressiona, ancora oggi, moltissimo.

MM: In passato ha detto che per fare arte le occorre “solamente il mondo”. Secondo lei questo “utilizzo” del mondo come tecnica oggi, nell’arte, è inflazionato?

FM: Nell’arte tende ad inflazionarsi tutto, ora più che mai. Ti dico una cosa abbastanza grave che penso. Nell’ottocento si mandavano le ragazze a studiare il piano, era un modo per stare insieme, inoltre si andava a scuola di pittura. Lungo i laghi austriaci ci sono ancora case con collezioni ottocentesche di quadri, si vedono degli autoritratti bellissimi o ritratti di familiari. Non sono quadri di Bonnard o di Renoir, però ci vanno abbastanza vicino, è gente che ha visto, che ha studiato, ha capito l'essenza di questi ritrattisti francesi. Allora, ho cercato di capire quale fosse la teoria filosofica dietro a tutto ciò: l’arte in un certo periodo, quando è agli inizi di un movimento, quando è molto avanguardista, è un linguaggio, un idioma che una cerchia ristretta di persone usa e capisce. Quando questa novità glottologica si ripete, diventa una lingua, per tutti. Altrimenti non si spiegherebbe la molteplicità di artisti presenti nel mondo, perché hanno assunto l’Arte Contemporanea come lingua.

MM: Oppure una grammatica...

FM: Una grammatica, si, che può dire tutte le cose. Ad esempio Umberto Boccioni dipingeva la madre, però era già una madre che si prestava ad essere vista in un altro modo. Se tu, oggi, dipingi la mamma alla maniera di Boccioni, ripeti, fai una ripetizione. L’arte non tollera molto la ripetizione perché è sempre, come linguaggio, un’approssimazione al decifrare e nominare le cose e a catturarle nella loro specificità. È biblica in questo senso perché Dio incaricò Adamo di nominare le cose del mondo. L’arte continua a nominare e cerca di essere sempre più precisa, come la letteratura. Ci sono componimenti letterari formidabili, parlo di lingue che hanno prodotto letterature meravigliose che ancora concettualmente si travasano nella modernità Però diventano “concetti” di lingua, non sono più idiomi linguistici che si avvicinano a questa realtà. Invece il linguaggio, d’avanguardia o no, cerca di definire sempre meglio che cos’è il rapporto tra uomo e mondo, che significa “esistere”, la relazione tra essere ed esistenza.


Fabio Mauri (Roma, 1 aprile 1926, 19 maggio 2009) è stato un artista, scrittore e drammaturgo italiano.
La crudeltà del secondo conflitto mondiale, del Nazi-fascismo e dell'Olocausto, lo colpiscono profondamente, infatti indagherà questi temi in moltissime delle sue opere.
Negli anni sessanta si avvicina al Gruppo 63 al quale parteciparono diversi intellettuali tra cui Umberto Eco, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo.
Nel 1968 fonda, insieme ad altri intellettuali dell'epoca, la rivista Quindici, sulla quale compaiono saggi dei sopra citati Balestrini (che fu anche Direttore Responsabile) e Sanguineti ma anche di Alfredo Giuliani (Direttore Responsabile fino al n.18), Carmelo Bene ed altri.
Dal 1979 avvia la sua attività didattica insegnando «Estetica della sperimentazione» all'Accademia di Belle Arti dell'Aquila.
Tra le sue opere più importanti: Ebrea (1971), Che cosa è il fascismo (1971), Manipolazione di cultura (1976).