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Cross (1999 - 2000) Anno 1 Numero 2



La pellicola si srotola, prende forma un pensiero...

Tanja Elstgeest



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TACITA DEAN GELLERT, 1998. Fotogrammi da film 16 mm, 5 1/2 min.

TACITA DEAN DISAPPEARANCE AT SEA, 1996 (cinemascope). Fotogrammi da film 16 mm, 14 min. Courtesy De Pont Foundation, Ti

TACITA DEAN DISAPPEARANCE AT SEA, 1996 (cinemascope). Fotogrammi da Film 16 mm, 14 min. Courtesy De Pont Foundation, Ti

Donne appesantite si muovono nella stanza, con addosso nient¹altro che un grembiule bianco attorno ai fianchi. Come in un infinito rollio di onde, emergono dall¹acqua, e vi scivolano ancora dentro, talvolta parlando a bassa voce, talvolta facendosi un cenno di saluto. Nessuna di esse sembra lontanamente accorgersi della macchina da presa collocata nella parte posteriore della vasca, che riprende i loro movimenti e quelli dell¹acqua.
Di tanto in tanto la macchina si gira in una direzione diversa e lo spettatore ha l¹occasione di dare uno sguardo più dettagliato alla splendida, luminosa sala da bagno. Gellért (1998) è un film in 16 mm di Tacita Dean (Canterbury, 1965) e mostra indolenza senza essere noioso nel suo svolgimento. Il film è stato girato nelle terme femminili dell¹Hotel Gellért di Budapest, e fa parte dell¹installazione Der Jungbrunnen, il cui titolo è tratto da un quadro dipinto nel 1546 da Lucas Cranach. Per qualche minuto, lo spettatore è immerso in un mondo che non gli è sconosciuto, ma che assume un caratterere grottesco e assurdo man mano che la pellicola va avanti. Il ritmo lento, le solide immagini delle donne al bagno e le luci soffuse, stridono a confronto col titolo dell¹opera (Der Jungbrunnen si può tradurre La fontana della giovinezza), e soprattutto a confronto col mondo per come lo conosciamo, dove la velocità delle immagini e delle sensazioni che si rincorrono domina la nostra realtà quotidiana. Ci sembra di riconoscere il mondo nella sua dimensione onirica, che tuttavia evoca una sorta di alienazione, man mano che continuiamo a guardare.
Nonostante lo spettatore di Gellért sembri essere in una posizione da voyeur, l¹obiettivo della macchina da presa è troppo cosciente e le immagini troppo gradevoli per evocare l¹aggressività del voyeurismo. Più realisticamente il film ci dà il tempo di studiare le immagini con cura, e permette all¹effetto calmante del suono dell¹acqua di avvolgere con dolcezza la nostra mente.

Film e tempo sono in stretto legame fra loro. Qualsiasi film, non solo ha un inizio e una fine, racchiusi in una struttura temporale lineare che quasi obbliga lo spettatore a guardarlo fino all¹ultima scena (tipi particolari di svolgimento temporale, come nei film di Marijke van Warmerdam, sono un¹eccezione); ma la velocità a cui si muove la macchina da presa e che caratterizza il susseguirsi delle scene, è addirittura uno degli elementi più importanti per l¹esperienza visiva. E mentre nei videoclip (europei), nei programmi televisivi e nel cinema sembra emergere la tendenza a rapidi cambiamenti di sequenza, l¹arte contemporanea dà l¹impressione di percorrere la direzione opposta. Concentrando in uno stesso nucleo il tempo, l¹immagine e lo spazio, l¹opera assume una tale densità che ha sullo spettatore un effetto assorbente, dandogli la possibilità di astrarsi temporaneamente dal mondo esterno.

La straordinaria qualità della luce che il film ha in quanto mezzo (paragonato, per dire, al video), lo rende eccezionalmente adatto a questo tipo di densità. La base di partenza dell¹autore non è la storia, né la quantità di informazioni o la diversità dell¹immaginario, ma è piuttosto la qualità di ciascuna inquadratura, e l¹impressione che essa sortisce sullo spettatore. Quello che non viene detto o mostrato ­ il ³non-detto² ­ assume lo stesso rilievo di ciò che il film fa effettivamente vedere. Il suono, la luce, l¹immaginario e il tempo si coagulano, e il ritmo lento permette allo spettatore di aggiungere le proprie idee, a ciò che vede, ascolta e percepisce, trasformando così l¹opera in un¹esperienza personale.

Il semplice rettangolo dello schermo cinematografico contiene il flusso; non importa in quale ordine scorre. Ma non appena abbiamo fissato l¹ordine nella nostra mente, ecco che si dissolve in un limbo. Nodi, giungle, sentieri interrotti, passaggi segreti, città dimenticate, invadono la nostra percezione. I luoghi dei film non possono essere localizzati, né possiamo credervi... Ci aggiriamo tra torri svettanti e baratri senza fine. Siamo persi tra l¹abisso che è dentro di noi e gli orizzonti senza fine al di fuori di noi.
Jeremy Millar, ³Messieurs les inventeurs d¹epaves², Cahiers #7, Witte de With, Rotterdam1997.

In contrasto con i film di Tacita Dean, che sono spesso inseriti in una installazione, quelli prodotti dal duo artistico olandese de Rijke/de Rooij (1970-1969), sono creati espressamente per essere proiettati su parete. Per guardare i loro film in condizioni ottimali, lo spazio espositivo viene trasformato in una stanza chiusa che diventa perfetta superficie da proiezione, con un preciso tempo espositivo. Lo spettatore è spinto a decidere di andare a vedere il film, piuttosto che a capitarci per caso durante la visita della mostra. Concentrarsi sullo schermo è indispensabile e gratificante, poiché per quanto le condizioni generali della visione siano rigide, lo spettatore è veramente libero di godersi il film.
I¹m Coming Home in Forty Days (1997) è un viaggio attraverso le enormi lastre di ghiaccio della Groenlandia. Diverse sfumature di bianco, blu e grigio attraversano lo spettatore a un ritmo estremamente lento.
L¹estensione sconfinata della natura e la splendida immensità del silenzio diventano tangibili, e sono al tempo stesso così irreali che le Œimmagini¹ hanno un effetto alienante. Il visitatore soccombe a una sorta di trance mentre sobbalza nella barca con gli autori e attraversa un paesaggio intoccabile. Il luogo, il tempo, il come e il perché del film passano in secondo piano, man mano che lo spettatore riesce a cedere al ritmo dell¹acqua fredda e ad apprezzare la luce che si riflette sul ghiaccio.

Nell¹ultimo film di de Rijke/de Rooij Of Three Men (1998) il luogo, il tempo e l¹azione sono ancora una volta estremamente concentrati. Lo spazio definito è una moschea. Nel mezzo dell¹alto soffitto è appeso un lampadario a più bracci, e in un angolo buio, sul retro, si distinguono due uomini seduti a gambe incrociate. Li ascoltiamo pregare a bassa voce. Il film ha una pacatezza sacrale ed evoca gli interni delle chiese nei dipinti del diciassettesimo e diciottesimo secolo. L¹unico elemento narrativo è dato da una terza persona che si unisce ai due uomini in preghiera verso la fine del film. I suoi passi risuonano cupi nell¹alto edificio e tracciano una linea immaginaria attraverso lo spazio.
La parte ³attiva² più affascinante del film è davvero il gioco di luci: i raggi del sole filtrano attraverso le vetrate istoriate, riflettono gli ornamenti intagliati nel vetro del lampadario e si dissolvono nella moschea.
Ogni minimo spostamento del sole rispetto alla terra ha un grandioso effetto nello scintillio del lampadario: il cosmo è un guscio di noce. La macchina da presa non si muove, ma la luce naturale che giunge dall¹esterno definisce il corso del tempo. L¹atmosfera della moschea cambia di minuto in minuto. Un paio di volte il sole sembra scomparire dietro uno dei pilastri posti tra le finestre, si fa buio, ma poi riappare, e tutto torna luminoso.
Guardo tutto questo con stupore. In meno di un quarto d¹ora osservo il percorso del sole, un fenomeno che posso vedere tutti i giorni, ma che ora cattura tutta la mia attenzione e ammirazione. In questo film la bellezza di un fenomeno naturale assume un carattere quasi illusorio e crea uno spazio artificiale in un mondo riconoscibile, senza voler dimostrare nulla in questo processo.
Anche nei film di Tacita Dean c¹è una curiosità simile nei confronti delmondo e della natura che ci circonda. I suoi lavori trattano spesso il tema del viaggio, dello spostarsi da un luogo all¹altro e dell¹esperienza implicita nel viaggiare. Dean sfuma il confine fra finzione e realtà. Crea un mondo nuovo, e ci mostra una storia poetica senza volerla veramente raccontare.
Per il suo film Disappearance at Sea 1 (1996), Dean si è ispirata a diversi miti legati al mare, per esempio al racconto di Tristano che si mise in viaggio per il mondo con lo scopo di guarire e finì, al di là del mare, al fianco di Isotta. E poi c¹è la strana storia di Donald Crowhurst che partecipò, nel 1968, alla Sunday Times Golden Globe Race e finì in fondo al mare con la nave e tutti i suoi averi perché inesperto e mal preparato.
Dean mostra il faro di Berwick e il mare che circonda la torre. Scrive: ³...puoi fissare lo sguardo su quel punto alla fine del molo che è il faro di Berwick e immaginare l¹esiguità di quello spazio chiuso in relazione alla vasta immensità dello spazio circostante: lo spazio rappresentato dal mare.
Il faro è l¹ultimo avamposto umano fra la terra e l¹oceano, costruito secondo dimensioni umane.² (Tacita Dean, Missing Narratives, 1997)
Mentre nel film di de Rijke/de Rooij il ritmo è definito dal percorso naturale del sole, il motore di questo film di Tacita Dean è la roteante luce artificiale del faro. Disappearance at Sea 1 inizia con un primo piano del segnale luminoso del faro di Berwick. Lentamente viene alla luce il meccanismo, e l¹immenso faro si accende. Pochi minuti dopo la cinepresa sposta l¹obiettivo. Il riflesso del raggio di luce nella finestra del faro e sull¹acqua del mare, insieme al cigolio del meccanismo di roteazione, definiscono l¹atmosfera generale del film. Onde di luce riempiono lo schermo. L¹enorme faro si riduce alle dimensioni di un puntolino di luce, a confronto con la sconfinata immensità del mare.
Dean vuole che questa immagine esprima la speranza e la disperazione dei naviganti. Questi sentimenti sono ingigantiti dal fatto che non solo la superficie di proiezione, ma anche il resto dello spazio entra a far parte dell¹opera. La luce che filtra dal proiettore crea sul soffitto le stesse linee curve della luce nel film. Lo spettatore è circondato, come un capitano sulla sua barca è circondato dal mare... solo con i suoi pensieri.