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9/5/2010

The Berlin Wall

The Promenade Gallery, Vlore

Media Art - Exhibition Design and Scenography - Art Research and Video Art - Product Installation. Episod II.


comunicato stampa

a project by Artan Shabani - Simone Mazzeto

Artists: Zoltan Bela \Giovanni Colagrande\ Vanni Cuoghi \ Nebojša Despotovic\ Marco Fantini\ Thomas Gillespie \ Giuseppe Gonella \ Ervin Hatibi \ Dritan Hyska \ Ardian Isufi\ Vincenzo Marsiglia \ Valentina De’ Mathà \ Kader Muzaqi, Nadir Montagnana\ Alkan Nallbani \ Persisters \ Simone Pellegrini \ Heldi Pema \ Michael Rotondi \ Giuliano Sale \ Artan Shabani \Jiří Kolář \ Eltjon Valle \ Zini Veshi\ Roberto Coda Zabetta \ Parlind Perlashi

9 novembre del 1989 venne abbattuto il Muro di Berlino, un simbolo della divisione tra America e Russia, della Guerra Fredda. Rappresentò il crollo delle ideologie su cui si articolò la gestione politica ed economica del mondo dal dopoguerra in poi. Ma a distanza di vent’anni possiamo stilare un bilancio. Furono costruiti nuovi “muri” o quei muri non furono mai abbattuti? Ne crollarono altri? Ne costruimmo dei nuovi?

Una cosa è certa quel giorno, quando quel muro crollò e le immagini televisive fecero il giro del mondo, quasi tutti vissero un’emozione di particolare sorpresa, perché abbattere quella barriera sembrava all’improvviso una cosa semplicissima come distruggere un qualsiasi muro di mattoni. Fatta la prima breccia, rivelava la sua normalità, si svelava e sgretolava come un muro qualsiasi. Quel crollo fu un nuovo inizio per tutta quella generazione che visse la guerra fredda e vedeva il mondo rigidamente diviso, in cui tutto sembrava essere o bianco o nero. Da quel momento si ebbe la certezza che i muri, per quanto potessero apparire possenti, potevano essere abbattuti e si potevano scoprire nuovi orizzonti e spostare barriere e confini.

Questa nuova prospettiva che si delineò quali cambiamenti ha portato al nostro modo di vivere? Nuovi poteri ideologici ed economici, nuovi equilibri, nuovi valori, hanno cambiato le dinamiche di relazione tra le nazioni e il nostro modo di pensare al futuro. Oggi abbiamo nuove frontiere, nuovi sogni, nuove corazze. Ma sono ci sono ancora muri da abbattere reali e simbolici e quindi nuove frontiere e nuovi obiettivi. Quali?

La lunga linea grigia
di Claudio Rizzi

Il valore storico del tema si coniuga al percorso ventennale di riflessione e dibattito, di lettura attenta operata da intellettuali e artisti. Tra gli autori oggi presenti in scena, alcuni erano testimoni consapevoli degli eventi, altri, giovani spettatori collaterali.
Quando Gorbaciov giunse a Milano portavoce della notizia, venne salutato in tripudio come l’eroe di un nuovo mondo. Pochi mesi dopo, Alexander Zinoviev, fisico e Premio Nobel, massimo dissidente in quella stagione, sempre a Milano, in occasione di un intervento pubblico, accese la disputa e sollevò grande polemica. Non si trattava di opposizione sterile ma di un monito a prevedere, con l’abbattimento dei confini, e non solo di quelli berlinesi ma di altri, ideali, sociali e politici, un esodo immane e tale da porre a rischio la struttura degli equilibri internazionali.

Per concomitanza fortuita, non per curiosità di cronaca, benché fosse forte la consapevolezza di immediata traduzione in storia, ero in Germania in quei giorni e ricordo il silenzio dell’attesa, dello stupore e della parola meditata. I dubbi di intellettuali tedeschi dinnanzi alla riunificazione dei due Paesi in unica grande Germania, la memoria di un’altra epoca, lo spettro della presunzione che aveva infuocato l’Europa e il mondo. Gravava in quella sera un’atmosfera soffusa, silente, metafisica. L’attenzione internazionale era a Berlino, le città si svuotarono e si accesero i televisori di casa. Un grande rispetto salutò un grande giorno.

A Darmstadt, in quel periodo, alla Kunsthalle, si erano svolte due mostre imponenti, “La Grande Utopia” e “La Fuga”. Testimonianze dei tempi, a carattere internazionale, nascevano dall’urgenza della contemporaneità e rifiutavano ogni retorica.
I muri, le barriere, metaforiche o reali, dalla rivoluzione del Romanticismo, hanno segnato il cammino della modernità e la denuncia dell’Arte. Ne sono testimoni i mangiatori di patate di Van Gogh e gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio di Angelo Morbelli, le figure di Leon Spilliaert o di Lorenzo Viani.

Gli artisti hanno dato voce all’umanità sommessa, all’uomo grigio, senza nome e senza lode che costruisce la storia, alle verità che non si dicono in ossequio a quella generica omertà che si chiama convenzione. I muri esistono, proliferano, si consolidano e si propagano. Anacronistici, incivili, cruenti, genocidi. Ma possiamo anche ammalarci di miopia, vedere solo in casa nostra e osservare le due fazioni che da quindici anni fomentano dialogo tra sordi nella contrapposizione assoluta, infelice e deleteria.

Oppure, prima di concludere la giornata, rammentare nostalgicamente l’unico muro ilare e allegro degli ultimi trent’anni, quello del comico Ferrini, banda Renzo Arbore in “Quelli della notte”, che, come antesignano di un federalismo “sui generis”, predicava il Muro di Ancona, proteso nel mare Adriatico, valicabile solo con debita flotta di pedalò d’altura.

“I muri hanno orecchie, le nostre orecchie hanno muri” di Roberto Di Caro (giornalista dell’Espresso)

“I muri hanno orecchie, le nostre orecchie hanno muri”, scrivevano sui muri di Parigi nel maggio '68. Vecchia storia la sindrome d'accerchiamento, “taci il nemico ti ascolta”, ma la frase a seguire marca uno strappo: scardinate le blindature di un io anemico perché incapace di ascolto, evadete dalla galera della coscienza infelice (Hegel andava per la maggiore), fuori c'è il mondo da conoscere e cambiare, all'epoca un'endiadi. Quando poi il mondo è cambiato davvero (o forse è solo uscito dai cardini) è di nuovo con la caduta di un muro, a Berlino sulle note lente del violoncello di Rostropovic. Dunque è acquisito: muro è ostacolo, chiusura, prigione, rifiuto, paura, discriminazione. Chi lo edifica è un carceriere, chi lo abbatte un liberatore.

No, qualcosa non quadra. Muri sono anche quelli delle case: chi vivrebbe all'addiaccio, o in un palazzo di vetro esposto alle intemperie dello sguardo altrui? Muri sono i confini che disegnano uno spazio: e uno spazio sconfinato non è fatto per viverci, al più è pura natura da contemplare estatici e riguardosi. Come l'intelletto, i muri separano, distinguono, sono strumenti di discernimento. Rendono intelligibili gli oggetti del conoscere e gli àmbiti del vivere. Proteggono dalla fascinazione dell'indistinto il nostro lavorìo di attribuzione di senso alle cose e agli accadimenti. Garantiscono il principio di individuazione contro l'amorfa piattezza di un'esistenza ugualizzata, serializzata, liscia, depurata dai cattivi pensieri come in ogni utopia negativa che si rispetti.

Il problema non sono i muri ma i varchi, i check-point, le porte. Chi ne tiene le chiavi. E se è capace di usarle, per aprire quando serve e chiudere quando è opportuno. A cominciare dalle porte del proprio io. Cos'è la conoscenza, cosa sono le stesse emozioni, se non un continuo abbattere e ricostruire i confini dell'io, lasciarsi permeare dal mondo esterno e l'istante appresso riprendere le distanze dal mondo per rielaborare e risistemare? Aprirsi e chiudersi, sistole e diastole, funziona così anche il cuore. Che spesso si erigano muri per paura non è una buona ragione per aver paura dei muri.

Image: Artan Shabani ''The Big Wall'' 2010 mixed media on papers
courtesy artist

Opening 10 May 2010 h 18.00

The Promenade Gallery
Bulevardi Skele Uji i Ftohte, AL 9401, Albania

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dal 11/9/2012 al 28/9/2012

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