Laura Serri riflette sulla fortuna plasmando un mondo edenico, come fatto di marzapane, di vegetazione lussureggiante e priva di spigoli. Nel ciclo di Ferrarini la fortuna viene invece interpretata come un imperativo all'azione, al movimento, all'esplorazione attiva. Stefano W. Pasquini propone l'installazione 'The End of the 90s and the Impressionists', Catastrofe e Fortuna.
“I giardini di Lilliput ”, La fortuna vagabonda di Laura Serri
a cura di Luiza Samanda Turrini
“Prede di carnivori e cacciatori, questi animali sono stati fra i primissimi soggetti rappresentati dall’uomo, sulle volte delle caverne nel periodo Magdaleniano. In quelle ere in cui l’uomo si spostava in continuazione, inseguendo i grandi branchi di mammiferi. Se gli animali riprodotti nell’arte sono quasi sempre figura degli esseri umani, Laura Serri descrive l’utopia di un’umanità pura, leggiadra, che si contrappone all’ethos della forza e dell’aggressione.”
Se fino ad ora Serri metteva a confronto il suo soggetto d’elezione (animale nomade e selvatico) con il supporto (carte da parati pastellate, emblema della casa e della stanzialità), ora la sua ricerca si apre alla terza dimensione. L’artista plasma un mondo edenico, come fatto di marzapane, di vegetazione lussureggiante e priva di spigoli. Un Paese delle Meraviglie in cui lo spettro di Bambi incontra quello di Willie Wonka. Grappoli di frutti, foglie che si moltiplicano in tracciati spiraliformi, fiori coronati da gemme. All’interno di questo mondo da fiaba, cesellato di particolari come una miniatura gotica, smussato e rutilante di colori come il reame dei Mini Pony, al posto dei piccoli unicorni panciuti gli unici abitanti sono i cervi. Cervi ultra-colorati, aureolati di fiori e perle, con mantelli intarsiati di motivi floreali. Ci sono maschi con palchi di corna poderosi, cuccioli in colori pastello da nursery, femmine che allattano piccoli, cerbiatti minuscoli mimetizzati nella vegetazione. Qua e là si scorge la mano di un’umanità benigna, che dispone in giro vasi di bacche blu e casette per uccelli.
Nel mondo reale i cervi, come tutti gli animali liberi, vivono in balia del caso. Le modalità della loro sopravvivenza illustrano perfettamente quel mix di imprevisto, prudenza ed intelligenza individuale che sta alla base della fortuna. Nel bosco nulla è mai identico a se stesso: la radura in cui all’andata ci si è fermati a brucare teneri germogli, al ritorno può nascondere gli agguati di un predatore. La riflessione sulla fortuna, per gli animali come per gli esseri umani, si connette a quella sulla libertà. La natura ha le sue leggi, quelle intraviste e rieditate da Darwin, e quelle della gerarchia dei branchi, che spesso spingono gli animali più deboli ad agire contro i propri interessi pur di non dispiacere agli individui alfa. L’anarchia vitalistica che spesso l’uomo attribuisce all’animale è un falso ideologico. Il paradiso terrestre di Laura Serri esclude i predatori, la fame degli inverni, la dominanza di un esemplare sull’altro. Però ad una condizione. Di rinchiudere il giardino delle delizie dentro una bolla di vetro.
Luiza Samanda Turrini
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“Andiamo a cercar fortuna!”, Nella buona e nella cattiva sorte di Simone Ferrarini
a cura di Luiza Samanda Turrini
Che fine hanno fatto le grandi narrazioni? Quelle mitologie che raccontano del Big Change, ovvero l’esito del viaggio dell’eroe?
L’eroe lascia la terra della mancanza per muoversi verso un mondo sconosciuto, in cui dovrà superare soglie e prove, fino ad arrivare al sacrificio e alla resurrezione. Questo schema narrativo ha fatto nascere religioni, miti di fondazione, epopee, best-sellers, cult-movies, e fiction televisive. La più grande fascinazione soggiacente a questo paradigma mitopoietico è che rappresenta la possibilità di cambiare, sempre e comunque, anche da uno stato irreversibile come la morte. Nel nostro universo protetto e pacificato le grandi narrazioni si possono vedere solo sul piccolo schermo, su quello grande o sui suoi surrogati digitali. Ma sempre su uno schermo, ovvero qualcosa che, pur dando l’illusione di essere uno specchio, ci separa dalla cosa rappresentata. Il radicale di schermo è di origine longobarda, skirmjan, proteggere, schermare, e quindi separare da qualcosa che sta all’esterno. Non c’è possibilità di entrare nel grande epos contemporaneo, a meno di non passare dall’altra parte dello schermo. Miriadi di persone ci provano, calciando palloni, sgolandosi alla ricerca del fattore X, digiunando prima dei concorsi di bellezza, ricercando l’eccellenza in un determinato campo.
Nella vita reale, privata da riti di passaggio che forniscano all’uomo coordinate identitarie, in quella vita scandita dagli obblighi e dalla percorrenza di spazi ristretti e conosciuti, le uniche persone a cui è concesso di intraprendere il viaggio dell’eroe sono proprio gli ultimi. Gli immigrati, i clandestini, quelli che vengono dall’esterno, quelli che devono stare nascosti. Le non-persone, ben nascoste dietro a queste etichette di non-appartenenza, di non-identità. Ferrarini dedica loro un intero ciclo pittorico, associando i migranti all’idea della ricerca di un bene totalizzante e prezioso come la fortuna. Nel ciclo di Ferrarini la fortuna viene interpretata come un imperativo all’azione, al movimento, all’esplorazione attiva. Una sfida alla sorte e alle radici spesso scomode che ha fornito all’individuo. Una sfida all’abituale diffidenza nei confronti dello straniero, molte volte codificata in aperta ostilità e manipolata dalle forze politiche.
Con le sue pennellate veloci e sintetiche, l’artista descrive sia le masse in movimento, sia i singoli. Le loro espressioni di scoramento, tristezza, paura, disagio, speranza, attesa. Andare a cercar fortuna, abbandonare ciò che si conosce per intraprendere viaggi pieni di pericoli alla volta di un futuro ignoto implica un’enorme dose di coraggio. E il coraggio è la principale virtù degli eroi. Al di là dei santi di plastica dell’edonismo e del denaro, i veri eroi dei nostri tempi sono i migranti.
Luiza Samanda Turrini
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Stefano W. Pasquini “The End of the 90s and the Impressionists”, Catastrofe e Fortuna
a cura di Fabio Cavallucci e Luiza Samanda Turrini
A i voli troppo alti e repentini
sogliono i precipizi esser vicini
Torquato Tasso
Il dandy è una creatura ibrida. La testa di ponte fra una modernità stremata e il trionfo della superficie del postmoderno. Alle persone, il dandy preferisce le cose. Le rendigote in stile anglomania , i cappelli a cilindro di Harrington, i vestiti di Rick Owens, i vasi Arita, i mobili Alchymia. E, ovviamente, le opere d’arte, che sono sempre degli oggetti. Le cose, a differenza delle persone, sono prevedibili, obbedienti, perfette in maniera continuativa. Basta saperle scegliere. Nella sua mania estetica, il dandy vuole tutto sotto controllo. Il dandy è agli antipodi della passione. Dopotutto la parola moda deriva dal latino modus, che significa regola. La noia del dandy lo porta a flirtare con le emozioni estreme, che fanno taanto dionisiaco, ma il suo amore per la perfezione lo fa fuggire dalla profondità scomposta. Un tempo si diceva che i dandy fossero antiborghesi, ma ora tutto si è confuso e colluso.
All’epoca di Lord Brummell - in cui nasce - il dandy doveva avere tre parrucchieri, uno per la nuca, uno per le basette, e un altro per il resto dei capelli. La sua cravatta gli veniva stirata addosso con un minuscolo ferro da stiro che eliminava le più piccole grinze. Poi sono venuti i dandy di seconda e terza generazione, quelli che non pensavano solo a vestirsi e a srotolare i listelli della coda di pavone, ma anche magari a produrre qualche opera d’arte. Baudelaire è il primo della nuova specie. Tom Wolfe forse l’ultimo. I bestemmiatori dicono che ora c’è rimasto Lapo Elkann.
David Bowie è dandy, ma solo la versione Thin White Duke, giammai in quella Ziggy Stardust. Marcello de La Dolce Vita è un dandy. Andy Warhol era un dandy perfetto. Il dandy ama il motto di spirito perché è eccitante ed effimero. Il dandy è necrofilo, perché la morte è la fine della noia. Die Young, Stay Pretty, and Leave a Good Looking Corpse. Per la sua volontà di sbalordire, un dandy morto con un cattivo karma potrebbe reincarnarsi in un televisore.
Il dandy è apocalittico, perché la fine del mondo è la fine delle delusioni. Ama la malattia, perché i sintomi lo distraggono dalla causa e sono un’altra scusa per guardarsi allo specchio. Per dire guardatemi. Il dandy si nutre degli sguardi, se non viene guardato abbastanza muore.
Ma per un vero dandy il non plus ultra dell’esistenza è il paradosso. E infatti la virtù cardinale del dandy dovrebbe essere l’invisibilità. È questo amore della contraddizione che, prima ancora della mania estetica, fa risultare il dandy omologo all’opera d’arte. Agli antipodi del dandy, il poliziotto. Il poliziotto veste una divisa, che non è mai elegante, ma che per lui è il massimo. Il poliziotto è simbolo di potere esecutivo, rigore, ordine. È la legge per eccellenza, altro che moda. Per uno sbirro cattivo e picchiatore mettere le mani su un effeminato dandy sarebbe proprio il top della vita.
Ma pensiamo un attimo allo scenario della caserma, da cui il poliziotto proviene: esibizioni di forza e muscoli, sottomissioni di nuove leve alle volontà dei nonni, nocciolo oscuro di promiscuità cameratesca. Appare evidente che il sostrato simbolico nascosto degli organi dell’esecutivo è proprio il rimosso omosessuale, imputato al dandy durante il pestaggio. Ora finalmente ci sono corpi di polizia dichiaratamente gay-friendly. Ai primi posti nella graduatoria dell’associazione per i diritti dei gay sui posto di lavoro migliori per omosessuali nel Regno Unito, subito dopo l’IBM viene Scotland Yard.
Insomma, molta acqua è passata sotto ai ponti dalla condanna di Oscar Wilde al carcere duro di Reading, a causa dei suoi orientamenti sessuali.
Nell’installazione di Stefano W. Pasquini, la colonna su cui si erge il pseudo vaso Ming riecheggia un aforisma di Wilde: “Trovo ogni giorno più difficile vivere sullo standard delle mie porcellane cinesi.”
Die dandy, scritto con un rossetto che imita sangue sgocciolato, un po’ alla Rocky Horror Picture Show. Chi è troppo camp deve morire. Chi è troppo raffinato pure. Morte alla cultura e alla diversità. La borghesia si è trastullata con il genio di Oscar Wilde, e poi lo ha mandato in campo di concentramento.
Ma la morte è uguale per tutti, e la stele mortuaria del dandy riecheggia la forma di quella dei caduti delle forze dell’ordine, che si trova nella piazza antistante ai Magazzini Criminali. Il disastro privato di Wilde si rispecchia in quello pubblico ed epocale delle Torri Gemelle. Ironicamente sulla caldera fumante svetta lo spettro del bau-bau sbagliato, Lenin invece di Bin Laden. All’interno del suo allestimento, Pasquini indaga il contraltare della fortuna, il disastro. Tecno-scienze, modelli economici, apoteosi dell’ego: l’autostrada dell’iper-sviluppo viene sempre costruita con la corsia d’emergenza : già nell’atto della sua concezione ci sono i futuri incidenti da sbarellare. Era chiaro che Oscar Wilde sarebbe stato distrutto, e che le Torri Gemelle sarebbero cadute. Ma non bisogna disperare. Stando a quanto dicono i greci, dopo la catastrofe viene la catarsi, ovvero la liberazione.
Luiza Samanda Turrini
Opening Venerdì 17 Settembre dalle ore 18
Magazzini Criminali
piazzale Gazzadi, 4 - Sassuolo (MO)
Sabato - domenica 16.00-19.00
Durante il Festivalfilosofia
17-18-19 settembre dalle 9 alle 23
Ingresso libero