Grazie del pensiero. L'aspetto del gioco e' rilevante nel suo lavoro e il taglio visionario della narrazione e' per lo piu' un pretesto. In mostra opere pittoriche, collage e installazioni.
a cura di Paola Rovedo
Guardando il lavoro di Gino Bosa sembra a volte di sentire una vocina vagamente horror che dice: “Vieni voglio farti vedere qualcosa!”, oppure le sue scritte sembrano precedute da un: “Sai che ti dico?!?...” frasi che sembrano dette fuori dai denti e ibernate in un ghigno al tempo stesso.
L’ho intervistato qualche tempo fa davanti ad una bottiglia di “Terre di Lavoro”, un interessantissimo Aglianico, e in quell’occasione mi annunciò che avrebbe detto solo qualche banalità sul caos, l’ordine, la ricerca etc e così fece.
Riprendo quindi le fila da una asserzione che ricordo da un precedente incontro: ”Un artista deve vedere quello che vuole vedere per fare quello che c’è da fare.” Subito ho pensato: ”Ecco una delle sue solite boutade, tipo: ‘un artista può essere quello che vuole basta che non sia un artista anni 90’... e in effetti lo era!!” Probabilmente in questa simultaneità del vedere/far vedere c’è quello che “c’è da fare” per Gino Bosa, attraverso una regia attenta ad evitare tutte le trappole della creatività e a cercare di capire che cos’è un’ispirazione e a come muoversi dentro di essa, con la consapevolezza che un artista “contemporaneo” (oddio la parola che mangia il futuro!) si può alleare al linguaggio visivo e sperare di accendere un cerino in qualche suo anfratto più buio, ma certamente non lo inventa e nemmeno lo usa.
L’aspetto del gioco (il gioco: la cosa più seria del mondo) è rilevante nel suo lavoro e il taglio visionario della narrazione è per lo più un pretesto; le regole attengono a dei flebili dettami formali che possono rivelarsi muri su cui si infrange ogni velleità di superamento. Si guadagnano punti quando si riesce ad imporre una variazione senza mai essere l’esecutore di ciò che si è pensato e facendo qualcosa a cui mai si sarebbe pensato. Non si vince mai, se ne può avere solo la confortante sensazione.
Chiunque crei qualcosa si ritrova il privilegio di avere un destino tra le mani; come può non riflettere sul fatto che la sua volontà personale sia adeguata o meno all’avventura in cui si è cacciato? Ricordo in proposito quanto disse ad una cena a casa sua: “Se non sai togliere te stesso dalla tua ricerca rischi formalmente la pesantezza, e linguisticamente di accendere una pila contro il sole: sai quanta fiducia in sè stessi ci vuole per non credere nemmeno in sè stessi? E l’ossimoro è solo apparente. Sto parlando in realtà del luogo da cui si vedono gli orizzonti.”
Tacciare di volgarità ogni agire secondo un piano prestabilito da una parte, la goffa presunzione di sublimi visioni nei desolati territori della rinuncia dall’altra: le farneticazioni del caso sono comunque funzionali ad una massacrante rimessa in discussione, non continua, come può sembrare, ma contrappuntata dal “limite”, posto come punto d’onore a segmentare l‘infinita (?) rimediabilità dell’opera.
La trascendenza un po’ obliqua delle sue sculture/installazioni è tutta delineata da istrionismi evocativi congelati in un aurea di “superficialità” attendista e sorniona nella quale, lui sostiene, risiede tutta la sua comunicazione. Una finzione, in sostanza, e aggiunge: “L’attore più bravo non entra nel personaggio ma finge semplicemente di essere il personaggio, facendoti così pesare il tuo bisogno di verità fino a volerlo scagliare in faccia a qualcuno... di certo non a me...” e aggiunge: “comunque, grazie del pensiero.”
Durante l'inaugurazione sarà aperto anche il giardino di Palazzo Savonarola in via Dante 97 (angolo con via S. Pietro) con installazioni dell'artista.
inaugurazione sabato 18 settembre dalle ore 18.30
Sabspace
via S. Pietro, 3 - Padova
Orari di apertura: dal martedì al venerdì dalle ore 16:30 alle 19:30
Ingresso libero