Mitografie. L'artista raffigura sulla tela il proprio mondo interiore, fatto di idee, frammenti di vita, sensazioni, ma cerca al contempo di riappropriarsi del mito, inteso quale scrigno di archetipi e di simboli.
A cura di Tommaso Evangelista
MITOGRAFIE. 1975-2010. L’arte di Dusi Gobbetti
La mitografia è la tradizione narrativa-letteraria delle favole antiche e deriva dal greco μυθογραφία (scrittura di narrazioni). Considerando la pittura un’altra forma di narrazione, diversa dalla scrittura, si è voluto accostare questo termine alle opere di Nicola Dusi Gobetti in quanto si è intesi il mito come un racconto che, nel momento in cui cerca di presentarci una storia, tenta sempre di ordinare il reale secondo categorie più complesse, se viste in relazione ad una società, o secondo istanze intime e personali, se relazionate al singolo individuo. Il mito racconta di solito una storia sacra, ovvero struttura l’immaginario di un popolo e concorre a formarne la cultura; se da un macrogruppo, quale può essere una popolazione, passiamo al singolo individuo si può notare come la conformazione delle “storie” tutto sommato non cambi tanto che ognuno può crearsi un proprio immaginario “mitico”. Gli artisti (pittori, scrittori, musicisti) hanno la capacità di raccontare e di dare forma all’immaginario collettivo usando i mezzi delle arti ma hanno anche la possibilità di dare forma alle proprie emozioni e alla propria fantasia, rivestendo poi quei concetti di idee universali o semplicemente lasciando le forme quali engrammi. Non sarebbe esagerato considerare l’arte contemporanea come un ripiegamento dell’artista sulla propria “mitologia” con l’intenzione (ma solo in un secondo momento) di renderla generale; Schelling, per esempio, è stato il primo a vedere nel mito l’espressione dello spirito, mentre Cassirer vi ha visto un modo di conferire significato alla realtà, essendo il mito una produzione spirituale e una forma simbolica.
Dusi raffigura il proprio mondo interiore, fatto di idee, frammenti di vita, impressioni, sensazioni, ma cerca al contempo di riappropriarsi del mito, inteso quale scrigno di archetipi e di simboli. Anzi, attraverso il rapporto col mito cerca di esprimere e raffigurare il proprio inconscio e il proprio mondo interiore/esteriore. Il recupero dei miti greci o di iconografie precolombiane o di figure misteriche e sapienziali non diventa un gioco fine a se stesso, ovvero il tentativo di giustificare la propria arte appellandosi a elementi nobili della nostra cultura, bensì il sentito tentativo di ritrovare nella mitologia collettiva una personale ontologia, come inteso nel XX secolo da Jung e come attuato da Picasso, l’unico artista del ‘900 capace di trasfigurare la realtà in mito e di usare i miti per veicolare emozioni.
Riflettendo invece sulla forma si nota come Dusi lavori sulla struttura avendo alle spalle solide competenze tecniche ed anatomiche. Le sue destrutturazioni partono sempre dalla figura e non sono mai astratte rielaborazioni concettuali. La concretezza della linea e la consistenza del contorno danno all’opera una sicura sostenutezza formale confermata dalle ottime campiture cromatiche. Naturalmente il ‘900 emerge con divagazioni verso l’informale materico ma l’abbandono alla disgregazione non è mai un gioco fine a se stesso o un obbligo verso una modernità pittorica iconoclasta, bensì una sentita abdicazione alla sostanza. Argan, parlando di Fautrier, autentico genio dell’arte contemporanea spesse volte dimenticato, così scriveva circa la materia: “constata che la materia pittorica non è soltanto il mezzo con cui si esplicano le sensazioni, ma una sostanza sensibile o impressionabile che delle sensazioni assorbe e fa proprie l’estenzione e la durata. Tutto ciò che si vive diventa materia: dunque (come aveva detto Bergson) la materia è memoria, qualcosa di nostro che si estrania da noi ed esiste per conto proprio1”. L’idea si incarna realmente sulla tela, il mito acquisisce sensazioni tattili e un linguaggio moderno, la realtà si trasfigura in forme sintetiche ed esplosioni di colori pur mantenendo un’assoluta coerenza. Riguardo invece alle influenze i modelli sono diversi, come riferito dallo stesso pittore: “Del passato ho sempre adorato l’arte veneta e la preponderanza dei valori tonali su quelli timbrici; mi riferisco in particolare a Giorgione e Giovanni Bellini. Del ‘400 apprezzo anche la staticità delle forme, la linea di contorno e il colore irreale in funzione esclusivamente di se stesso e non della figura...Di moderni, invece, naturalmente amo Picasso, poiché la sua arte ha una risposta per ogni problema, e poi Mirò e Klee che stimo particolarmente. I suoi paesaggi sono paesaggi interni, dell’anima, oscuri e luminosi. E poi c’è l’informale americano di De Kooning e italiano di Vedova, considerato da sempre un maestro”2.
Tornando alle opere esposte la mostra è strutturata come un percorso, seppur incompleto e minimale, che parte dagli anni ’70 per giungere sino ai nostri giorni. All’inizio si trovano due tele con due figure misteriche, cariche di simboli oscuri e di storie nascoste: la “Maternità”, portatrice di miti primordiali, e il “Ceramista”3 che, da novello alchimista, si riveste di archetipi. La costruzione della forma è maggiormente geometrica e le figure, ispirate in parte alle decorazioni pre-colombiane, emergono da un impasto cromatico estremamente evocativo.
Si passa poi direttamente agli anni ’10 del XXI secolo, anni che segnano da una parte la ripresa di figure ermetiche desunte dall’inconscio e dall’altra un diverso approccio col mito, rivisitato in chiave moderna e calato nella realtà quotidiana. Le figure “sapienziali”, isolate nel loro mistero, cedono il posto a più complesse Machìe di personaggi a volta mitici a volte reali: ecco allora Icaro (caduto non per sprovvedutezza ma per la propria obesità; metafora dell’odierna società capitalista: “Icaro caduto”, “Dittico installazione”) o indefinite e leggendarie figure di mostri (“La Bestia dell’ombra”, “La Luna scura”), simboli dell’irrazionalità che ci circonda, o ancora persone reali e familiari (per l’artista) colte in momenti intimi che acquistano, però, valenze universali (“Orgogliosa del proprio giardino” e “Conversazione Notturna”, quasi una riflessione sui notturni dannunziani e sul lavoro “bendato”, ovvero interiore). Luoghi dell’inconscio (“Giardino ventoso” con, per sottotitolo, un verso evocativo dell’artista: “il vento portava con se profumi delle antiche memorie”) e inquietanti soggetti apparentemente arroganti nel loro potere, ma che si rivelano ai nostri occhi senza maschera e, per questo, ancor più patetici e mesti (la serie con “Re Litto”, moderno Ubu Re e incarnazione del grottesco). In queste ultime opere lo stile matura ancora; abbandonata la fase geometrica le forme si compenetrano e si deformano mentre il colore si sfrangia o acquista una matericità del tutto nuova; compaiono inoltre inserti in stoffa a voler alterare ancor più il piano pittorico, evocando incrostazioni millenarie e superfici emerse dal tempo. Come ebbe a dire Bruno Guerra, infatti, “l’artista, eterno alunno di Mnemosine, si tuffa nel mare silente dell’oblio per riportare alla luce frammenti, reliquie, sommerse vestigia…sono i frammenti che Dusi Gobbetti devotamente compone nei versicolori reliquiari di pittura intesa come religione del tempo e della memoria”.
Scrittura di colori, pittura di frammenti, ricomposizione di miti personali: Mitografie.
Tommaso Evangelista
Inaugurazione: domenica 19 settembre 2010, ore 19.00
Officina Solare Gallery
Via Marconi, 2 Termoli
Orario di apertura: 19.00 /21.00 tutti i giorni compreso festivi
Ingresso libero