Sguardi a Occidente. Gioberto Noro sono una coppia di artisti: Sergio Gioberto e Marilena Noro. Il loro lavoro non esprime un pensiero ma due, raddoppia, o forse divide, il racconto di uno stato d'animo, l'espressione di un immaginario. A cura di Lea Mattarella.
a cura di Lea Mattarella
Baudelaire: il me semble que je serai toujours bien là où je ne suis pas. In altre parole: mi pare che sarò sempre felice dove non sono. Ovvero semplificando: ovunque non mi trovo là è il luogo dove sono me stesso. O se vogliamo prendere il toro per le corna: ovunque fuori dal mondo. (Paul Auster, Trilogia di New York)
La domanda è d’obbligo: dove siamo? In quali luoghi ci trasportano gli scatti di Sergio Gioberto e Marilena Noro? E immediatamente dopo è impossibile non chiedersi quale sia la dimensione temporale di queste immagini che forse arrivano da lontano, emergono da un passato misterioso, scavano con potenza una memoria ancestrale, ma, nello stesso momento, ci trasportano in uno spazio ancora tutto da scoprire, in un’inedita, eppure stranamente familiare, archeologia del futuro.
Gioberto Noro sono una coppia di artisti. Il loro lavoro non esprime un pensiero ma due, raddoppia, o forse divide, il racconto di uno stato d’animo, l’espressione di un immaginario. È affascinante accorgersi di come, nello spazio magico e magnetico dell’opera, la coppia diventi unità, due entità si trasformino in una. Si tratta della “condivisione della responsabilità dell’immagine finita” come dicono loro. Ma anche di qualcosa di più. Che finisce per sostenere un incrocio di sguardi infallibile, perché contiene sia il coinvolgimento che l’astrazione dall’oggetto. C’è sempre uno dei due che può indicare una strada diversa, fermare, accelerare, interrompere, voltarsi indietro. E poi in due il dubbio del bivio è meno incerto, l’attesa è più facile. E la loro fotografia ha bisogno di un tempo dilatato, è esattamente l’opposto dell’istantanea perché va a caccia di un mondo sospeso.
Probabilmente non è un caso che tutto questo lavoro prenda vita dalla dualità: domestico-selvatico, razionale-irrazionale, ordine-caos, cultura-natura, ombre-luci, semplice-complesso, trasparenza-opacità sono i principi alternati in cui si muovono i loro scatti. Tutto si manifesta anche attraverso il proprio contrario. La dualità permette l’esistenza. Inoltre i loro scatti hanno sempre uno sviluppo per serie: i pneumatici scoppiati, le camere, i paesaggi con le architetture, gli animali, oltre i giardini… Per Gioberto Noro catturare il reale è un modo per progredire in profondità e non in estensione.
Mi è capitato spesso di osservare le persone che guardano le loro opere per la prima volta (ce n’è una appesa nel soggiorno della mia casa) ed è singolare come tutti notino un’articolazione degli spazi, un rapporto tra pieni e vuoti, una strutturazione delle forme che immediatamente suggerisce un pensiero pittorico. Se, come afferma Kenneth Clark, la Veduta di Delft è il quadro che più si avvicina a una fotografia a colori, Gioberto Noro sembrano incarnare la profezia di Carol Rama che in un’intervista a Paolo Vagheggi pubblicata su La Repubblica nel 2003 affermava: “La pittura non morirà mai. Ci sono però pittori che faranno i fotografi”.
Anche i colori, soprattutto nelle ultime opere, sono nello stesso tempo reali e innaturali. In Out of garden, per esempio, c’è un tono lunare che ti conduce in uno spazio in cui si può sentire all’unisono il respiro della pittura romantica e quello del film di fantascienza. Per questo non capisci dove sei. Nella serie Civilization cosa sta succedendo? C’è un confronto (uno scontro? un incontro?) tra la natura e l’architettura, tra il vigore senza regole della prima e i piani progettati della seconda. Ma, come sempre accade guardando le immagini di Gioberto Noro, la sensazione è quella di trovarsi su una soglia, in un crocicchio, un passaggio non sai per dove. Ti sembra di aprire una finestra e di saperla però ancora socchiusa. Sono rovine dimenticate quelle che occupano lo spazio verde? Oppure edifici in costruzione? È la natura che sovrasta l’architettura, che fa di tutto per uscire dalla cornice o è il cemento che la sta sovrastando? In Green zone sembra che sia possibile un’armonia, ma poi qualcosa ti suggerisce di aver subito l’incanto di quella che la Yourcenar chiamerebbe la “saggia follia dei sogni”.
Dietro gli alberi, le foglie, il groviglio di Near Civilization #2 e #5 qualcosa si nasconde. Sono le costruzioni degli uomini ormai sommerse o un esercito di piccole figure? Senti una natura abitata da dei, eroi, basilischi e draghi, satiri, fauni, centauri e nello stesso tempo non è distante l’allarme, la paura che in questa sospensione possa arrivare il geometra Rossi con il suo progetto che cancella tutto, che scopre, per distruggerla, la bellezza dimenticata. C’è un mondo apparentemente solido che sembra disfarsi e un altro che con veemenza sorge dalle rovine. E tutto questo è davvero intorno a noi? Eclissi, labirinti, luci. Ci sono momenti che ricordano certe inquadrature di Yasujiro Ozu, i suoi piani-vuoti (le ‘camere’ raccolgono le stesse tracce di assenza della sequenza finale de Il gusto del sake) e altri in cui non hai bene chiaro se la costruzione che hai di fronte è un tempio distrutto o un bunker sopravvissuto (Out of the garden). E se compare una figura la sua posizione è, come in un giardino zen, quella delle pietre sulla ghiaia rastrellata. Sei chissà dove, ovunque fuori dal mondo.
Eppure loro sono un po’ come Morandi, o anche come Vermeer: tutto questo universo misterioso si trova a pochi passi dalla loro casa, nei pressi di Torino. Scovano, costruiscono, raggiungono una dimensione altra in ciò che conoscono meglio. Ci sono artisti, oppure scrittori, che sono pronti ad accogliere, che esplorano quasi da fermi. O meglio si fanno esplorare. Penso a Fernando Pessoa, alle nuvole che scorrevano davanti alla finestra del suo studio. E mi sembra naturale creare un nesso con queste opere da cui invece il cielo sembra bandito e, le rare volte in cui compare, appare come annerito da un sole di carbone, quasi in lotta con la “buia notte dei tempi” che “ precorre anche la luce del futuro” per citare un altro giapponese, Murakami, in questi Sguardi a Occidente. Ed è bello non poter rispondere all’interrogativo che ci si fa all’inizio. È emozionante non sapere dove sei. Perché se compito, o forse destino, dell’arte è spesso quello di svelare il mistero del mondo, capita anche che questa possa proteggerlo. Come succede qui, tra questo odore di accaduto e il rapimento dell’attesa.
Inaugurazione 23 settembre 2010, ore 18.00
Galleria Alberto Peola
via della Rocca, 29 Torino
Orario: da lunedì a sabato dalle 15.30 alle 19.30 mattino su appuntamento
ingresso libero