L'altra meta' del cielo. Le opere dell'artista degli anni Novanta si presentano come una sorta di diffuso diario esistenziale, impostato attorno a visioni di viaggio, rappresentazioni di vita metropolitana, ritratti di amici ed occasionali compagni di strada.
a cura di Edoardo di Mauro
In un’epoca di ridefinizione dei generi la pittura mantiene la sua centralità riuscendo, nei casi migliori, a rinnovarsi da un punto di vista iconografico, quindi conservando quella caratteristica che le è propria, implicita al concetto di “technè”, di tirocinio artigianale visto in una dimensione di sublimazione religiosa dell’agire artistico, con modalità attente e riflessive, abbinando a questa antica vocazione la capacità di osservare con occhio partecipe e disincantato al tempo stesso l’esistente, decontestualizzandolo dalla sua effimera contingenza materiale per dargli forma nella dimensione del simbolo. Seguo con partecipazione le vicende della pittura sin dagli esordi del mio mestiere di critico ed organizzatore culturale, quindi dal 1984.
In sintonia con un’attività che è nata come vocazione, a contatto con i giovani autori di quegli anni, ho registrato le mutazioni della pittura dopo l’ondata della Transavanguardia, in un clima di contaminazione multidisciplinare e di enfasi espressiva, fortemente venata da suggestioni provenienti dall’estetica metropolitana, dalla moda, dalla musica e, soprattutto, dal fumetto. Negli anni Novanta ho seguito con la massima attenzione possibile l’evoluzione dell’eclettico scenario della post modernità, soprattutto italiana, dedicando due mostre in specifico alla condizione della pittura. La prima, svoltasi in due edizioni tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990 in Umbria, a Gubbio ed a Trevi, si intitolava “L’immagine e il concetto : la neofigurazione italiana”. In quella collettiva denunciavo come, a mio parere, dopo l’ubriacatura generazionale del post ’77 e l’intenso rapporto di confronto e scontro con il nuovo vissuto tecnologico e mediale, lo stile stesse virando verso un ambito di concettualismo espresso col tramite di immagini enigmatiche ed allusive, in altri casi venate da una forte dose di corroborante ironia, in sintonia con uno dei capisaldi del linguaggio artistico italiano.
I successivi anni ’90 segnano quella che, secondo me, è stata la stagione più caotica e superficiale del sistema artistico del nostro paese, incapace, per una complessa e del tutto eteronoma somma di motivi, di compiere coraggiose scelte di campo e, soprattutto, di porre in atto un’obiettiva lettura dell’esistente, ed anche la pittura ebbe notevolmente a soffrire di quella situazione. Nel 1998, quando lo scenario mi pareva idoneo ad una prima rilettura critica degli eventi a Torino, in un loft dei Docks Dora, ordinai la collettiva “Simbolica : nel futuro della pittura”. La mostra servii a confermare quanto avevo intuito con l’”Immagine e il concetto”, cioè che la pittura in Italia, nel corso degli anni ’90, non aveva ripercorso, come sostenuto da molti, il sentiero tracciato nel decennio precedente, ma aveva semmai accentuato delle caratteristiche concettuali, con uno stile fortemente simbolico e attento ai valori della forma, aperto in taluni casi a contaminazioni con l’immagine digitale e l’oggetto.
Nel corso degli anni Zero la mia riflessione è proseguita ed ha trovato suggello in una rassegna del 2005 alla Fusion Art Gallery intitolata “La contemporaneità evocata”. Essendo, sin dall’antichità remota, lo strumento mimetico per eccellenza, la pittura riesce a metabolizzare, con procedimento metamorfico, tutto quanto proviene dall’esterno, e sta riuscendo nell’impresa anche relativamente a strumenti come la fotografia, l’immagine digitale e, più in generale, tutto l’inesauribile armamentario di simulacri della contemporaneità. Quindi il termine “evocazione” è interpretabile in una duplice accezione. Da un lato il ritorno di un’attenzione curiosa e partecipe nei confronti degli stereotipi mediali, come avvenne negli anni’80, ma mantenendo molte caratteristiche di quell’atteggiamento di freddo ed algido distacco mentale tipico, almeno secondo la mia lettura, degli anni ’90.
La contemporaneità appare nuovamente come narrazione iconografica prevalente, ma sfumata in un atteggiamento evocativo di suggestioni che furono un tempo intense e nel “qui ed ora” si ripropongono come sfocate dalla consapevolezza e dal disincanto. Molte di queste considerazioni si sposano bene con il progetto estetico di Sarah Bowyer, protagonista di questa personale e della mia introduzione, un’artista di cui apprezzo molto il lavoro che ho inteso rafforzare inquadrandolo in una cornice di storia recente, poiché ho sempre ritenuto il singolo autore irripetibile, quando dimostra una indiscutibile personalità e non si accontenta di facili scorciatoie, ma sempre inquadrabile nei flussi generazionali anche quando manifesta una apparente irriducibilità a ricondursi a questi. Conosco il lavoro di Sarah fin dal suo primo apparire, giovanissima, nella parte finale dei controversi anni ‘90 su cui prima mi sono dilungato quanto a coordinate stilistiche generali.
Se il lavoro di un artista è tanto più valido quanto frutto del suo vissuto personale e della parallela capacità di aprirsi al mondo ed all’altro da se, allora la produzione della Bowyer presenta delle carte davvero in regola. Sarah ha un’origine anglo-italiana e nella sua vita ha viaggiato molto, specie in Oriente e soprattutto in India. Questo tipo di condizione esistenziale, a modo mio ne so qualcosa, può generare problemi di radicamento ad un singolo territorio ma genera quasi sempre un senso di apertura mentale e cosmopolitismo irrequieto nei confronti di vincoli e convenzioni. L’evoluzione artistica della Bowyer, al di là di alcune coerenti modifiche iconografiche e del maggior rilievo concettuale dato adesso ad alcuni aspetti del lavoro, si manifesta senza dubbio come lineare e coerente ed evita il rischio di fissarsi nella reiterazione stereotipata di una formula di successo, azione molto stesso deleteria. Le opere degli anni Novanta si presentano prioritariamente come una sorta di diffuso diario esistenziale, impostato attorno a visioni di viaggio , rappresentazioni di vita metropolitana, ritratti di amici ed occasionali compagni di strada.
Quanto differenzia il lavoro della Bowyer da quello di molti suoi colleghi dell’epoca è la capacità di andare oltre il mero dato della contingenza e dello stereotipo neo pop. Se la maggior parte dei giovani pittori di quegli anni, pompati a tutto gas da un mercato e da una complice critica irresponsabili e pronti peraltro ad abbandonarli una volta esaurita la moda del momento, danno alla luce opere manieriste e del tutto derivative di un clima, quello degli anni ottanta e della contaminazione con musica e fumetto, che nel frattempo è mutato, la Bowyer si avventura su percorsi iconografici apparentemente simili a cui però imprime la forza di una visione che è evidentemente spirituale, che dà alla dimensione dell’on the road quella carica mistica che fu propria, ad esempio, della Beat Generation. Il risultato è una pittura che documenta il reale ma su questo non si appiattisce, fornisce una interpretazione che lo attraversa e va oltre. Questo clima sospeso ed intellettualmente intrigante di “contemporaneità evocata” subisce, nel decennio successivo, una necessaria radicalizzazione che non sconfessa minimamente, però, lo spirito dei già maturi esordi.
Infatti, già a partire dai primi anni zero, Sarah sposta il baricentro della narrazione ,da sempre sua peculiarità, verso una visione che da diretta diventa sempre più evocata. L’attenzione alla figura ed ai corpi umani si mantiene ma al tempo stesso s’ammanta di un maggior livello aniconico inteso come compenetrazione di piani, con una serie di visioni simultanee che si offrono stimolanti all’occhio dello spettatore introducendolo in una atemporalità dove passato, presente e futuro si sovrappongono con fare ellittico. La dimensione personale è sempre presente, ma si nutre di suggestioni provenienti dalla storia, dal mito, dalla geografia e dalla religione. Il riferimento al reale quindi si attenua incamminandosi verso un sentiero di colta seduzione visiva, un vero e proprio simbolismo contemporaneo che, dalla dimensione storica, si ricolloca agevolmente in quella del nostro ambiguo e fluttuante clima di avanzata post modernità.
In questa personale allestita nello spazio di Patrizia Fischer la Bowyer dà prova anche della sua attitudine alla performance , che è prova della sua visione autenticamente esistenziale dell’arte e della pittura. Saranno visibili lavori realizzati in tempo reale all’interno di eventi e vari oggetti di vissuto quotidiano di medie e grandi dimensioni, come vespe e roulottes decorate ad arte.
Edoardo Di Mauro, ottobre 2010
Inaugurazione Giovedi 21 Ottobre ore 19
Palazzo Leonardo
Strada Pianezza 289, Torino
ingresso su appuntamento