Psichiatric Hospital Frankenstein. Una mostra fotografica gia' esposta a Mantova, che pone spunti di riflessione sulla capacita' della societa' di creare mostri, stereotipi, artifici per demonizzare l'imperfezione dell'essere umano.
Spazio Tadini apre la stagione 2010-2011 portando per la prima volta a Milano la mostra fotografica di Giordano Morganti “Psichiatric Hospital Frankenstein” che fu esposta a Palazzo Te a Mantova. Una mostra che fece molto discutere fino a rischiarne la chiusura, per il suo contenuto e per un titolo evocativo di mostruosità frutto più dell’Uomo che della Natura.
“Non era stampato che il primo volume e già iniziarono i boicottamenti – racconta Giordano Morganti – pochi giorni dopo l’inaugurazione ci si mise pure l’avvocato a intentare una causa al fine di far chiudere la mostra e di ritirare la pubblicazione del libro, asserendo che non avevo autorizzazione dei degenti: accusa che fui in grado di smentire all’istante. In tutto questo caos mi venne di grande aiuto Vittorio Sgarbi, da poco assessore a Milan, che trasformò, il tutto in uno scandalo. Fu grazie a lui che, a mostra appena chiusa, attraverso il tam tam su internet, il Comune di Mantova fu costretto a riaprire i battenti poiché vi erano fuori più di mille persone desiderose di visitarla”.
Si tratta di una mostra che pone spunti di riflessione sulla capacità della società di creare mostri, stereotipi, artifici per demonizzare l’imperfezione dell’essere umano. Un’occasione per osservare l’individuo attraverso la lente di un obiettivo fotografico che ci allontana dalla ricerca spasmodica della perfezione, del bello, dell’eterna giovinezza e della felicità e ci impone l’accettazione del limite, della follia, della malattia, la gestione del dolore con il conforto che può dare solo la bellezza della verità, della carne in sé, dell’osservare una Natura senza pensieri, espressione solo di cicli stagionali.
Giordano Morganti presenta un triplice percorso “corpo, mente e anima”. Un viaggio trasversale che va dai ritratti di malati psichiatrici, alla raffigurazione dettagliata di parti anatomiche per poi sfociare in uno scenario agreste dove gli alberi fanno da protagonisti tra terra e cielo. Una mostra di forte impatto emotivo raccontata, illustrata e commentata dai critici Daniele Astrologo, Flavio Caroli, Raffaele Bedarida, Ando Gilardi, Roberto Mutti, Walter Schonenberger in un libro di tre volumi della Silvana Editore.
Un’opportunità per l’associazione culturale Spazio Tadini per riflettere sulla relazione tra la società e l’individuo, in particolare su come viene costruito e stereotipato il singolo intrappolandolo in esistenze fittizie e funzionali all’esistenza e alla sopravvivenza del gruppo sociale.
“Dopo 3 anni in cui rifiutai, in più occasioni, di esporre PH Frankenstein, dopo Palazzo Te a Mantova , sia in ambiti privati che pubblici – afferma Morganti - è arrivata quella che ho ritenuto essere la giusta occasione. Spazio Tadini, superfluo a dire, è a mio modesto avviso lo spazio culturale privato per eccellenza. Un crogiuolo dove tempo –spazio si coniugano in un continuo divenire, qui, a Milano, in questo luogo il senso di esporre è Assoluto. Questa mostra doveva aver luogo più in là, verso Natale, poi le vicende non artistiche riguardanti l’associazione mi fecero ritenere i tempi maturi. Voglio anche dire che, purtroppo, tanti di coloro che hanno saputo della mia decisione di esporre PH Frankenstein a Spazio Tadini, in questo momento delicato, tentarono di dissuadermi e questo loro incedere mi convinse invece che la mostra era assolutamente da fare, qui e ora! Io non sono tenero, e in primis non lo sono con me, ho una visione del materiale umano assai poco nobile e PH Frankestein nasce proprio a denuncia di questa nostra società malata e ferita che troppo spesso vive solo di sovrastrutture devastanti trascurando il vero vivere. La maggior parte delle persone è affetta da una malattia gravissima: credono di essere nomali (sempre che a questo a vocabolo si possa dare un significato esaustivo) è lì che abita la follia peggiore, quella che diabolicamente annidata e sghignazzante attende di poter dare il meglio di sé, e questa follia risiede quasi sempre in quella persona dall’apparenza innocua ma dal pensiero debole”.
“Se osserviamo attentamente le fotografie di Giordano Morganti – scrive Sandro Parmiggiani , nel testo critico del libro edito dalla Silvana editore, pubblicato durante la mostra di Palazzo Te a Mantova scrive – vediamo che lui tuttavia non è mosso dal desiderio “sociologico” di documentare la nuova condizione dei liberati, ma piuttosto dell’esigenza di indagare, di scavare, con una sorta di amorosa crudeltà, che mai sembra avere tregue, dentro il volto della persona, eternamente vario, cangiante, diverso, ma sempre accumunato dai caratteri rpofondi di quell’umanità che ne sanciscono l’appartenenza a una comune famiglia…. Ciò che interessa è la condizione perenne dell’umano, che va al di là di ogni contingenza, di ogni appartenenza sociale, razziale o territoriale”.
Sulla questione normalità interpretata nella mostra“Psichiatric Hospital Frankenstein” Flavio Caroli afferma:
“La parola ''anomalia'' naturalmente non significa nulla. La nobiltà di questi percorsi (si riferisce a mente, corpo e anima n.d.r) è avventura e tragedia (o illuminazione, come dicono i buddhisti) e potenziale verità, come d'altronde è sempre la vita. Una verità che può in qualche misura essere capita solo dall'arte; quella, nella fattispecie, di Giordano Morganti. Dal volto, infatti, la tragedia si irradia nel corpo. In questi fianchi anchilosati, in questi equilibri precari, in queste magrezze o obesità è contenuto il mistero di un destino che è segregato nel suo bozzolo, nella sua prigione di carne, un bozzolo che fa male e può essere più espressivo di tutte le parole del mondo. A questo punto, Morganti ha l'intuizione più bella e, se posso dire così, più sconvolgente. Punta l'obbiettivo sui dettagli, perché è lì, nei dettagli, che la natura infinite volte sceglie le vie per le quali le cellule dovranno evolversi: una via che - per destino - potrà essere brevemente salvifica, parzialmente felice, o mortale. Così, dita e denti dentro una bocca possono compartire l'immagine come un dipinto di Mondrian, e un gomito o un'anca possono vivere nello spazio come forme classiche irragionevolmente perfette. Quello, dice Morganti, è il ''colpo di dadi'' della crescita delle cellule nello spazio. Tutto ciò rinvia però alla natura, al bosco, agli alberi, che crescono nel vento, e certamente hanno un'anima. Lì, il miracolo delle diversità è infinito, vive in cortecce fitomorfe, in tumori benigni e bellissimi del legno, nel sontuoso schermo delle foglie divise fra la luce e l'oscurità. Misterioso progetto e appunto oscuro destino dell'Essere che si manifesta nell'universo conoscibile. Da tutto questo, Morganti trae infatti una conclusione sorprendente e affascinante. La chiave di ogni verità è custodita da Frankenstein, ''mostro'' (cioè apparizione) e re di ogni anomala crescita cellulare. Dice Morganti che il Frankenstein del primo millennio è stato Gesù Cristo. Credo di averlo stupito il giorno in cui - a conferma - gli ho ricordato che la prima immagine in assoluto di Gesù Cristo fu quella graffita da un suo nemico, che lo raffigurava con la testa di asino. Frankenstein, appunto”.
Sulla ricerca del bello, dell’estetica e sul racconto della verità scrive invece Roberto Mutti sulla mostra di Morganti intervistandolo: “Oggi tutti, ma soprattutto i giovani, sono molto interessati ad apprezzare opere di alta densità estetica, quindi io ho agito proprio partendo da questo punto di vista: il mio lavoro è una sorta di cavallo di Troia grazie al quale, prendendo spunto dall’estetica, faccio passare un discorso sociale. Il risultato non è però estetizzante perché il libro sulla follia è desolante e senza pietà, proprio come la realtà vissuta dalle persone che ho fotografato con tanta difficoltà. Chi osserva si sente a disagio di fronte a quei volti certo non belli né delicati perché viviamo in una società che rifiuta ogni diversità classificandola come mostruosa”. Qui il riferimento è dichiaratamente letterario: Giordano Morganti cita Mary Shelley e il personaggio da lei creato in “Frankestein”, una creatura buona trasformata dagli uomini in un essere malvagio. In effetti esiste più di un’analogia fra il lavoro letterario e quello di questo fotografo che dichiara di essere molto veloce nella fase di ripresa ma poi lento e meditativo in quella della successiva elaborazione. “Basta sapere che ho dedicato cinque anni al lavoro sui corpi mentre quello sugli alberi l’ho iniziato nel 1989 e forse l’ho finito adesso. Per quanto riguarda la ricerca sulla follia, dai primi scatti del 1977-79 sono passato a quelli del 1991-92 e ai più recenti del 2004-2007. Fra riprese furiose di tre giorni e molte riflessioni, sono passati come niente trent’anni: questi sono i miei ritmi”.
Questa dilatazione dei tempi, così in controtendenza rispetto a quanto abitualmente viene richiesto nella nostra epoca, permette di ragionare attorno a un tema complesso come quello della contemporaneità e del suo significato: “Per me contemporanee sono le opere che restano tali senza subire i mutamenti del tempo e ancora hanno cose da dirci. E’ invece un errore confondere le opere contemporanee con quelle più recenti: Vittorio Sgarbi mi ha chiesto una volta perché mi capita di privilegiare le fotografie di trent’anni fa rispetto a quelle appena scattate, ma per me il problema è diverso perché in ogni immagine voglio ritrovare il contesto che le dia significato e fondamento. Avendo iniziato a realizzare le mie fotografie più importanti quando ero appena diciannovenne, non ho le paure di chi si sente vecchio se vengono pubblicati lavori realizzati anni fa. E’ che, piuttosto che uscire a ogni costo, semmai preferisco attendere fino a quando posso mostrare ricerche che ritengo complete e ben strutturate”. Tutti questi discorsi, però, non sono fini a se stessi perché Morganti parla senza mai perdere di vista il rapporto fra tecnica ed estetica: “Diceva André Kertész che ogni fotografia è fin troppo dimensionata rispetto alla nostra capacità di percezione e questo spiega lo strano effetto iperrealistico provocato dal digitale. Il suo limite è, paradossalmente quello che si ritiene un suo pregio, l’eccesso di definizione. Questa è la ragione per cui non uso il digitale – visto che non ho finora cercato effetti di tal genere – ma anche perché mi sembra un po’ come una donna liftata: se proprio ti piace, sposala”.
Inaugurazione mercoledì 27 ottobre ore 18.30
con dibattito e una performance a cura di OpificioTrame, Federicapaola Capecchi
con: Domenico Piraina Direttore mostre di Palazzo Reale, Sandro Parmiggiani critico, Giancarlo Ricci, psicanalista, Roberto Mutti critico fotografico
Spazio Tadini
Via Jommelli, 24 - Milano
Da martedì a sabato, ore 15:30/19:00 e fino alle 23:00 in coincidenza con manifestazioni serali
Ingresso libero