Inutilmente perse, curiosamente riemerse. In mostra una serie di opere pittoriche cariche di positivita', dal cromatismo festoso e dinamico.
a cura di Pier Luigi Senna
“…Sono molto attratta dai luoghi del silenzio, dall’assenza, ma non dalla disperazione: trovo in tutto questo una ”armonia delle cose”, un mondo dove tutto ha un suo percorso segreto, una lenta, impercettibile distruzione, che il tempo naturalmente avanza…” Cristina Moggio enuncia così, limpidamente, le ragioni del suo operare. Il silenzio è per lei un valido interlocutore. Con intensa ascoltazione ella capta le voci sommerse e remote delle cose, naturali e manufatte: bisbigli sommessi d’oggetti che raccontano di vite lontane, di storie individuali, familiari, sociali. Agisce con la ricettività di una medium, in tali ascolti; poi come uno sciamano opera una palingenesi, riportando a nuova e diversa vita, in bellezza, lacerti abbandonati, relitti - reperti - reliquie. Il bello, si sa, è soggettivo. Lo è doppiamente: per le scelte a monte, i canoni, i parametri, l’idea stessa; lo è a livello di percezione. La soglia percettiva è individuale e mutevole: alcuni ignorano bellezze clamorose, altri sanno cogliere il bello dove per i più non è ipotizzabile rinvenirlo. “Il bello è negli occhi di chi guarda”. La poetica del ready made, dell’objet trouvé, nasce da qui: dalla facoltà di alcuni di vedere con occhi diversi, penetranti, sensitivi, quanto agli altri sfugge, ingoiato dall’apparente banalità. Un manubrio e un sellino di bicicletta, accostati, divengono una “Testa di toro” (Picasso, 1943), aprendo la strada all’arte povera; un orinatoio da parete, ruotato di novanta gradi e munito di una firma apocrifa che è un’illuminante chiave di lettura (Duchamp, “Fontana”, 1919) è proposto, decontestualizzato, come un’opera d’arte caricata di valenze alchemiche, paradigma dell’androgino, sintesi degli opposti, spalancando così la via all’arte concettuale. Cristina Moggio, con animo da “ecologiste picturale” (Charles Jourdanet, 1995), scova in frammenti o sezioni di alberi, radici, fiori, ciottoli… il riflesso dell’infinito, una scintilla della luce ineffabile, da riproporre agli altri sublimata in forma d’arte (“Vedere il Mondo in un granello di sabbia, / E il Cielo in un fiore selvatico, / Tenere l’infinito sul palmo della mano / E l’Eternità in un’ora” scriveva William Blake, pittore ancor prima che poeta mistico). Nel tempo l’interesse della Moggio si è esteso dal pur sconfinato ambito naturale alla dimensione antropica, alle testimonianze dei vissuti umani. “Sensibile alla vita perduta” (Vittorio Sgarbi, 2004), ella scova “reliquie di storia personale, civiltà popolari, senza nome, perdute” (Renzo Francescotti, 2001): da paramenti sconsacrati o lini per sacrestia tessuti a mano in generazioni lontane a umili recenti scatole da lavoro, da fasce per neonati a sacchi per farina dimenticati in vecchi mulini, da frammenti di trine preziose a vecchie assi per bucato, a scarti industriali, a recuperi di demolizioni, a tridenti o vanghe da trasformare in personaggi…
Agli inizi degli anni Settanta, tra le nuove forme d’arte emergenti, a New York trovò spazio una Narrative Art, cui aderì anche Louise Nevelson, scultrice d’origine russa che molto puntava sull’effetto straniante dell’accumulazione di minimi riferimenti alla vita quotidiana e all’ambiente condiviso: la testimonianza reiterata si consolidava, prendeva corpo, evocativa ed enigmatica. Cristina Moggio ce la ricorda, ma operando in profondità piuttosto che in estensione. Molta pittura è superficiale, non perché necessariamente bidimensionale, ma in quanto giocata sul decorativismo, o volta a uno sperimentalismo fine a sé stesso, che, pur talvolta brillante, rischia sovente di restare arido e sterile. All’opposto, per altri artisti un proprio spazio interiore consente espansioni inusitate, quasi una cassa armonica che potenzia i suoni. Cristina Moggio raccoglie e porge racconti, “storie”, ma la sua narratività non indulge in compiacimenti: con misura (o pudore?) lascia spazio all’inespresso, evoca e allude con grazia poetica, con discrezione. Del resto, anche nella sua dimensione “ecologica” resta implicito il richiamo ad un rispettoso amore per la natura, in ogni suo aspetto, e solo un monito indiretto è rivolto contro il consumismo, la sempre più diffusa mentalità dell’usa-e-getta, la noncuranza, lo scialo, la mancanza di considerazione per oggetti che è colpevolmente riduttivo considerare solo per la loro utilità immediata e transitoria. Da “recuperante”, come si autodefinisce, da “amante della memoria”, come l’etichetta Marko Ivan Rupnik, la nostra artista non compie tuttavia lavoro d’archivio: crea arte. Arte è in uno espressione, comunicazione, ricerca del bello. Le varie forme in cui si manifesta il talento di Cristina Moggio non falliscono il triplice obiettivo. Gli oggetti “repertati” attivano nell’artista intrecci di componenti sensoriali ed emotive, emozioni non fuggevoli, destinate sia a radicarsi nella sua memoria, sia a palesarsi all’esterno, espressione d’individuali sensibilità, di visioni proprie. Ma le voci silenti del passato e delle più umili realtà naturali, così còlte e amplificate, vengono riproposte “a futura memoria”, condivise, nello spazio e nel tempo: comunicate. Infine, questi processi avvengono “in bellezza”, producendo “transustansazioni”, cristallizzandosi in nuovi oggetti esteticamente appaganti, che è gioioso ammirare. Cristina Moggio possiede un’armonica personalità solare, una carica di positività e di vitalità che trasfonde nei suoi lavori. Ne sono prova il cromatismo festoso, il dinamismo delle composizioni, i loro equilibri tendenti all’espansione.
Il linguaggio, pur personalissimo, è cólto, non naïf o improvvisato. Si avvertono l’avvenuta piena assimilazione d’esperienze artistiche rilevanti, e consonanze. Nessuno nasce nel vuoto pneumatico, fuori del tempo e da ogni contesto culturale. Il diffuso bisogno di catalogazione individua ogni eco di affinità, e alla mente affiorano nomi di colonne portanti della storia dell’arte moderna e contemporanea. Non sempre è agevole stabilire il confine tra una parziale affiliazione dell’artista e le nostre associazioni mentali proiettate. Ad esempio, per i suoi lavori polimaterici Cristina Moggio utilizza anche materiali eterodossi, tra cui sabbia di torrente e ritagli di giornali, a sottolineare un continuum tra le dimensioni dell’arte e quelle della quotidianità. E’ innegabile che le stesse scelte, con le stesse motivazioni, furono operate da Braque all’inizio del Novecento. Del pari va riconosciuto che l’accantonamento della prospettiva centrale quattrocentesca fu un’opzione attuata già dal Cubismo ancor prima che dalle varie forme d’arte astratta. Analisti della produzione di Cristina Moggio hanno ritenuto d’individuarvi tracce dell’opera di maestri quali Kandinsky, Mirò, Klee, nonché Picasso, Braque, Léger. L’elenco potrebbe essere esteso, se si considera che l’assemblage, quella sorta di collage tridimensionale che include elementi di recupero, fu praticato, oltre che da Picasso, da molti altri tra cui Duchamp, la Baronessa Dada e, a partire dai tardi anni Trenta, la già citata Louise Nevelson. L’utilizzo di rilucenti tessere di mosaico da applicare su sezioni lignee o di guizzi d’oro inseriti su tele e panni, tra i colori, potrebbe richiamare alla memoria di qualche osservatore i preziosismi di Klimt o quelli bizantini. Infine, la scelta di dipingere tessuti non intelaiati, nonché oggetti di vario tipo, certe soluzioni formali e taluni stilemi ricorrenti possono ricordare l’opera di un’artista la cui grandezza non è stata ancora riconosciuta appieno: Sonia Delaunay. Genio eretico, “da ottant’anni lo spirito più giovane della Francia” (Joseph Delteil, 1967), ella rifiutò sempre la distinzione tra belle arti, arti applicate e arti decorative. Da pittrice frequentò cubismo, futurismo e fauvismo, superandoli, compì sapienti ricerche sui colori e sulla luce, ma soprattutto, inventando l’arte simultanea, ebbe la pretesa di operare una sinergia tra le varie arti, puntando a trasformare in arte la stessa vita quotidiana, nei suoi molteplici aspetti. Rapportare ciascun artista al contesto della storia dell’arte può sembrare (che lo sia davvero?) un’oziosa pedanteria. Eppure è uno dei compiti principali spettanti ai commentatori (i cosiddetti critici) d’arte. Chi sta congedando questa nota si permette un azzardo, segnalando la felice contiguità di spirito, d’idee, di gusto e di esiti tra Sonia e Cristina. (PIER LUIGI SENNA)
Inaugurazione sabato 16 aprile 2011 alle ore 11
Palazzo delle Prigioni
riva Degli Schiavoni, Castello 4209 - Venezia