Perpetuum mobile. L'artista esplora le periferie urbane, rivivendo in epoca postindustriale l'esperienza del flaneur: in mostra disegni e dipinti del suo errare personale in una citta' in continua trasformazione.
a cura di Rossella Moratto e Paola Verde
La prima volta che arrivai a Berlino, in autobus lungo la strada che porta dall’aeroporto alla
stazione dello zoo, provai un’inaspettata sensazione: mi sembrava un ritorno a casa, come se quei
luoghi, fino a quel momento a me sconosciuti, fossero familiari e mi accompagnassero da chissà
quanto tempo. Era un’emozione che saliva dal profondo e mi regalava una inspiegabile e bellissima
commozione.
Per questo, quando si sviluppò il progetto di lavorare a una mostra sulla città, fui molto felice.
Volevo realizzare una specie di guida interiore ad alcuni luoghi di Berlino - città in continua
trasformazione, in moto perpetuo, appunto- ma tutto questo è stato possibile solo grazie alle
esplorazioni che aveva già compiuto Paola. Le sue fotografie sono state decisive e se sono riuscito
a tradurle nei miei disegni e nei miei dipinti è perché ha uno sguardo molto simile al mio e
soprattutto perché negli anni lei è diventata una vera berlinese.
Quando viaggio, oltre alla mappa normale, ho sempre con me una mappa mentale, corrispondente
all’incirca all’Europa del II secolo dopo Cristo. Berlino a quei tempi non era stata ancora fondata e
la zona in cui sarebbe sorta era in pieno territorio barbaro. Uno dei miei libri preferiti, “I Pensieri”
di Marco Aurelio, fu scritto durante una delle numerose campagne militari Romane nel territorio
dei Quadi, antica popolazione Germanica. Uno degli insegnamenti dell’imperatore stoico è di
seguire il proprio principio direttivo. Il mio principio direttivo è la pittura e seguirlo, secondo gli
insegnamenti dell’imperatore filofoso, mi ha rimesso in viaggio, oltre le terre dei Quadi, di nuovo
verso Berlino, un nuovo ritorno a casa.
Mi ha condotto qui e i miei disegni e i miei dipinti sono l’omaggio a questa città che porto dentro
da sempre.
(Andrea Chiesi, maggio 2011)
Andrea Chiesi. Perpetuum mobile
di Rossella Moratto
Berlino è un luogo della mente. Uno spazio fisico e simbolico, territorio delle grandi trasformazioni
che hanno segnato la storia europea del XX secolo. Una terra di frontiera e di confine, in perenne
metamorfosi, contesa, distrutta e ricostruita: Perpetuum mobile, in moto perpetuo, appunto, in
cambiamento continuo e quindi sempre incompiuta ma nonostante tutto fedele a se stessa. Berlino
è una topografia culturale, una sedimentazione di vissuti e immagini che hanno nutrito la cultura
contemporanea. Camminare a Berlino significa compiere un viaggio nella memoria e
nell’immaginario, accompagnati dai molti fantasmi che qui si accalcano, come sottolinea Marc
Augé: «Berlino è in larga misura una città sperimentale: vi si misurano la forza del passato e
dell’oblio, le possibilità e i limiti del volontarismo, i rapporti fra città e società e fra città e arte [...]
la capitale della Germania riunificata è al tempo stesso un laboratorio e un museo. È da sola, un
condensato della storia del secolo da poco terminato e un testimone attivo di quello che sta
nascendo» 1 . Una città che sale, in cui le fratture tra passato e presente spesso non trovano una
sintesi: interi quartieri cambiano fisionomia nel giro di mesi o di pochi anni, come Postdamer Platz,
centro nevralgico della Repubblica di Weimar, distrutta dalla guerra e attraversata dal muro nel
dopoguerra, attualmente trasformata dall’architettura avveniristica del palazzo della Daimler-Benz
– ora Daimler AG – di Renzo Piano e del Sony Center di Helmut Jahn in una piazza che non
stonerebbe in una megalopoli orientale.
Berlino, più di altre, è una città in cui la incessante ricostruzione /riqualificazione convive con
l’archeologia di un passato recente di cui si fatica a mantenere memoria. La città è il luogo di uno
spaesamento arginato dai tracciati individuali che rivelano narrazioni personali e collettive. Andrea
Chiesi da anni esplora le periferie urbane, rivivendo in epoca postindustriale l’esperienza del
flâneur: a differenza degli esploratori urbani che hanno fatto dell’errare una pratica estetica lungo
percorsi di orientamento o di deriva nella metropoli – dadaisti, surrealisti, lettristi situazionisti e i
contemporanei Stalker – il peregrinare dell’artista modenese è una ricerca focalizzata sul leimotiv
della memoria che conduce a luoghi in via di sparizione, disertati e deserti, che la
smaterializzazione del lavoro ha reso obsoleti: zone industriali dismesse, edifici abbandonati,
carroponti, gru, resti architettonici del passato recente simbolo di una storia collettiva che si
sovrappone al vissuto personale. Chiesi fotografa questi spazi per poi tradurli in pittura: in questo
processo di trasposizione e riproduzione l’artista attua un’operazione di sintesi e di riduzione del
dato reale, sottraendo elementi non necessari, per rendere l’essenzialità mantenedo la
riconoscibilità. È un lento processo di trasferimento dall’istantaneità dello sguardo alla
permanenza della memoria che richiede settimane o addirittura mesi, come nel caso di tele di
grandi dimensioni. Un procedimento di sedimentazione meticoloso, preciso ma mai virtuoso,
aderente al reale ma non iperrealistico in cui i segni sono la materializzazione della registrazione
dell’immagine che si imprime e si ricompone nella mente attraverso la razionalità e la
formalizzazione. Non una semplice ricognizione documentaria, quindi, ma una pratica di
riappropriazione dei luoghi percorsi ed esperiti, che custodisce testimonianze di un passato
recente attraverso la costruzione di una topografia personale, in cui ogni lavoro rappresenta una
tappa – artistica ed esperienziale – che scandisce il vissuto conferendogli logicità e ordine mentale.
Ogni lavoro è, in questo senso, una stratificazione di un’unica opera, che si sviluppa di volta in
volta attraverso le fotografie, i disegni, le incisoni e soprattutto la pittura, che ripropone se stessa
ogni volta in modo diverso, alla ricerca di un’opera ideale che non si dà mai se non nel suo
manifestarsi. È un’unica opera autobiografica, iniziata nella prima metà degli anni ottanta,
sviluppata dalle suggestioni controculturali e musicali del periodo. Chiesi nasce dal contesto punk e
post-punk, dalle pratiche autogestionarie dei centri sociali che vedevano nell’autoproduzione un
modo per esprimere una creatività libera dalle costrizioni ideologiche e di mercato. Un background
che non è stato solo un’incontro di affinità elettive – di “creature simili”, come si diceva allora – ma
la scoperta di una comune voglia di esistere e di resistere, di affermare la propria autenticità e
indipendenza, di condividere un’identità comune, un vincolo di parentela culturale che, a distanza
di ann, rappresenta ancora un legame per tutti coloro – e i molti di noi – che l’hanno vissuta e
condivisa. All’inizio sono principalmente disegni e incisioni – l’artista, autodidatta, ha lavorato per
anni in una stamperia artistica modenese – tecniche alle quali ritorna ora, significativamente,
dopo oltre vent’anni. Il disegno – caratterizzato da un segno incisivo, dall’uso di una tavolozza
limitata ai colori cupi, da una sorta di deformazione espressionistica nella rappresentazione dei
corpi umani contrassegnata da una liricità che poi scompare successivamente lasciando il campo a
una tecnica a tratteggio – contiene già lo sviluppo della sua ricerca che ben presto approda alla
pittura, rigorosamente bicroma (bianco, grigio, con a volte punte di azzurro o di verde). La figura
umana viene abbandonata per le architetture industriali, rese con una precisione geometrica,
quasi ossessiva, fino ad arrivare a esiti quasi astratti, particolarmente nei lavori in cui le strutture si
duplicano riflettendosi nell’acqua: un espediente tratto dal reale o introdotto dall’artista che
permette uno sdoppiamento dell’immagine e una moltiplicazione delle linee e delle forme. In
alternativa, Chiesi dipingere interni di edifici abbandonati, concentrandosi sulla resa della luce e
dell’ombra, a rappresentare lo scorrere del tempo nella dimensione atemporale della pittura. È una
ricerca focalizzata sui medesimi soggetti, frutto di una scelta consapevole nella quale si riflette
l’interiorità e l’urgenza espressiva dell’artista: è un classicismo contemporaneo che esprime un
rigore operativo ed etico, nell’esercizio instancabile che avvicina la pratica pittorica alle filosofie
orientali e allo zen in particolare.
A Berlino, Chiesi ritrae una serie di luoghi nel quartiere di Kreuzberg, vicini a quello che resta del
Muro – nella zona della “East Gallery” lungo la striscia di terra di quella che allora veniva chiamata
“la Terra di nessuno” – fino allo Schwarzer Kanal, nei pressi della fermata di Ostbahnhof e che ha
come epicentro la WasserTurm di Ostkreuz e le lande desolate lì attorno. Una zona costellata di
archeologie del passato prossimo: edifici fantasma, il ponte di ferro, i binari abbandonati, la
Eisfabrik sul lungo Sprea. Una ricognizione che è allo stesso tempo un viaggio immaginario: Chiesi
infatti non registra le proprie incursioni ma quelle di Paola Verde, artista e fotografa milanese che
vive a Berlino, portando avanti da anni, con la fotografia, una ricerca analoga. Un percorso
attraverso lo sguardo dell’altro, nato da un incontro casuale e a distanza su i lavori fatti
indipendentemente dai due artisti nello stesso luogo, la fabbrica ex Innocenti a Milano.
Significativamente, una grande tela che raffigura quest’area dismessa apre questo percorso che si
sviluppa attraverso ventitrè disegni e quattro oli. È un diario sentimentale per immagini di un
vissuto visto con occhi altrui, di un immaginario condiviso. Anche il titolo, Perpetuum mobile,
desunto dal nono album degli Einsturzende Neubauten, gruppo cult berlinese di musica industriale,
testimonia un orizzonte emotivo e culturale comune. La pittura e disegno sono il luogo d’incontro
di due esplorazioni che si inseguono, a distanza, in spazi liminari, in un comune tentativo di
fermare il tempo, di preservare il ricordo di luoghi che forse non esistono già più. Il rimando va alle
memorie dell’infanzia di Walter Benjamin 2 , alla ricerca dei resti Muro di Marc Augé 3 o ancora a
Damiel e Cassiel, gli angeli wendersiani de Il Cielo sopra Berlino 4 entità invisibili che con il loro
sguardo in bianco e nero – così come vede Chiesi – osservano, memorizzano, testimoniano e
riflettono sulla realtà passata, presente e futura di questa città, emblema dell’evoluzione delle
metropoli contemporanee.
Ognuno ha nel cuore la propria citta ideale, fatta dai luoghi conosciuti, dagli scorci nascosti, dai
percorsi preferiti e cosi la stessa citta' puo' apparire milioni di volte differente se vista da altrettanti
occhi diversi.
Ma puo ́ capitare che esista una citta', o un luogo lontano simile al Sogno, dove esiste una stessa
visione comune, identica fin nel profondo e un sentire interiore cosi intimo e oscuro fatto della
stessa colonna sonora. Gli scenari di questa metropoli parlano di edifici dagli occhi minacciosi
come finestre nere, palazzi fatiscenti eppur cosi magnetici, cortili assolati che nascondono il
Tempo, interni industriali nel silenzioso eco del rumore dei macchinari, binari abbandonati per
viandanti e viaggiatori senza meta.
Il soggetto di questa mostra e ́la Berlino che sta scomparendo, inghiottita dal cambiamento, in
perpetuum mobile, viva, pulsante, travolta dalla velocita' come in un film futurista di inizio secolo -
ma appartenente a un altro millennio. Luoghi che mentre li stiamo contemplando gia' forse non
esistono piu', emblemi di una metropoli in bilico su un mutamento profondo, racconti di un
passato dallo scenario romantico di nera decadence.
Ho fotografato questi luoghi cercando di trattenerli il piu' a lungo possibile, prima della loro
scomparsa.
Andrea Chiesi dona colore ai miei bianchi e neri, facendoli sprofondare dentro al nero più' nero di
un tratteggio elegante simile a una danza nel' imbrunire. Li immerge in azzurre profondita'
silenziose come la Berlino invernale, durante i gelidi mesi avvolta nel ghiaccio. Li interpreta,
sollevandoli dal Tempo e dallo Spazio, congelandoli in una dimensione lontana, eppure cosi vicina
al mio modo di percepire l' Altrove, questo mondo parallelo fatto di luoghi dove l'anima riposa e si
lascia andare in percorsi silenziosi e interiori, elevandosi tra atmosfere terse e cieli tempestosi,
oscuri, mistici, neri, cosi profondamente neri da far star bene.
Per scattare una buona fotografia in bianco e nero un segreto e ́ quello di imparare a guardare in
scale di grigio. Ma per osservare bene i luoghi rappresentati da Chiesi bisogna saper guardare in
scale di nero, sapersi addentrare attraverso quei tratti senza smarrirsi, attraversare le nostre
profondità più oscure, sapersi districare all ́interno di quel fitto intreccio di segni e linee senza
lasciarsi intrappolare, pur avendo la consapevolezza, come scriveva Nietzsche, che guardando
troppo a lungo in un abisso alla fine anche l abisso guarderà dentro di noi.
E ́un nero così profondo da rimanere attaccato, un inchiostro indelebile che cola dalle pareti,
gocciola dal soffitto, si infila sotto alle unghie e permane sotto alla pelle, come un tatuaggio,
sensuale e caleidoscopico, intenso e monocromo. Assomiglia al riverbero cupo di una macchia
d ́olio sul ́asfalto, al riflesso di uno specchio nero, al suono di una favola sussurrata in notte senza
stelle. It is that black.
E`un nero che racconta una esistenza, sfiorando i margini, affiorando dal sottosuolo, un modo
particolare di vedere: ombroso, silenzioso, profondo, crepuscolare, simile a una melodia barocca,
al suono di un clavicembalo nella luce soffusa.
E ́impossibile tralasciare la musica quando si parla di Chiesi. Seppur in maniera intrinseca, la
componente musicale traspare dalle sue opere, ne riempie gli spazi apparentemente immobili e
silenti, e ́dentro ad ogni suo gesto, percepibile in ogni pennellata come un rumore di fondo, il
suono prolungato di una nota di basso, una vibrazione dentro al ventre, profonda e oscura come
la voce di Jarboe, una melodia che si avvicina al rumore, seppur conservandone l' armonica
composizione ed eleganza, in crescendo, dal nero più profondo fino alla luce, fino ad arrivare a
stridere, come il grido di una farfalla, fino a toccare le note più acute, come le urla di Blixa alla
fine di Seele Brennt, le urla straziate di questa civiltà ́che va in frantumi, tra edifici che crollano,
cattedrali industriali, luoghi abbandonati che il Tempo sgretola.
Queste sono le metropoli del terzo millennio, scatole vuote abitate da persone alienate, che
perdono la memoria ad ogni risveglio. Se il Tempo scorre inesorabile, uno dei compiti sublimi del ́
Arte e ́quello di consacrarlo all ́immortalità ́. Come un Piranesi del terzo millennio, Chiesi dipinge
le rovine della società ́moderna con la precisione di una incisione, segno dopo segno, come un
archetto sapiente che sfiora le corde di un violino, senza sbavature ne' eccessi, invitando lo
spettatore ad addentrarsi all ́interno di luoghi atemporali, sospesi, trasfigurandone gli spazi nei
riflessi di mondi capovolti, in una dimensione sublime dominata da luci a contrasto, ombre nette,
dritte come una corda tesa a piombo, appoggiate sul confine tra il giorno e la notte, la realtà e il
Sogno.
1Marc Augé, “Il muro di Berlino” in Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 107 (Le temps en riunes,
Edition Galilée, Paris, 2003)
2 W. Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi, Torino, 2007. (Berlinr Kindheit um neunzehnhundert, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt, 2007)
3 Marc Augé, op cit.
4 Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino) 1987 diretto da Wim Wenders.
Inaugurazione: venerdi 27 maggio 2011 ore 18.30
X-Laboratory
Skalitzer Strasse, 67 - Berlin
Orari: martedi - venerdi 12.30 -19.30
sabato su appuntamento