In mostra sculture dedicate ai personaggi mitici del mondo della politica come della musica della letteratura o del cinema: da Hendrix a Kerouac, dalla Monroe alla Pivano, passando per Malcom X e James Dean.
JIMI, O DELL’AMERICA
Per Peppino Manigrasso
di Francesco Durante
Seattle, 27 novembre 1942 - Londra, 18 settembre 1970: la vita di Jimi Hendrix, caro agli dèi, copre questo
arco di tempo brevissimo. Quanto basta per condannare le persone della mia generazione a restare per sempre
giovani.
La chitarra, possibilmente una Fender Stratocaster (ma anche una Telecaster può andar benissimo), sta alla
mia generazione come Facebook sta a quella di mia figlia: comunica emozioni, dice chi sei e come stai,
modula una voce interna, la spande e la fa diventare spirito del tempo. Gently weeps, magari, nelle notti di
abbandono, quando il mondo sembra crollarti addosso. Oppure urla, s’infuria, distorce i suoni in uno
spasmodico wah-wah e diventa tutt’uno con le tue mani, le braccia, il corpo intero. E Jimi è la chitarra.
Datemi la mia chitarra e non rompetemi le palle, non mi serve altro.
Uno dei suoi pezzi più celebri, “If Six Was Nine”, canta a muso durissimo questo stato d’animo di piena,
orgogliosa, rivoluzionaria autosufficienza: “If the sun refuse to shine | I don’t mind, I don’t mind”. O ancora:
“If the mountains fell in the sea | let it be, it ain’t me”. E ancora: “Now if 6 turned out to be 9, | I don’t mind, I
don’t mind”. E perfino: “If all the hippies cut off their hair | I don’t care, I don’t care”.
Quando esce il primo album di Jimi, Are You Experienced, è il 1967. Sono passati appena due anni dalla
canzone che, secondo me, segna la data d’inizio del vero rock, quello assoluto, quello che è soltanto rock
senza più roll, e cioè My Generation degli Who. Sembra, in realtà, che siano passati due decenni, perché nella
musica di Jimi è tutto nuovo. E’ come se Jimi, raccogliendo tutta la vecchia tradizione del blues, da cui pure
proviene, abbia deciso di spezzarla in due per segnalare che da ora in poi nulla sarà più come prima. E
davvero non c’è musica più adatta della sua a descrivere il mondo che c’è là fuori, un mondo che è ormai a
pezzi, perché non crede più, non può più credere, alle favole che fino ad allora gli hanno propinato. Una
ballata dolcissima e sognante, in quel primo album, veicola l’immagine di quelle macerie. Vi si parla di una
scopa che, in un’atmosfera cupa, sta spazzando via tutti i frammenti della vita di ieri mentre lontano, da
qualche parte, vecchi-nuovi personaggi da favola fanno sentire la loro presenza/assenza: c’è una regina che
piange, c’è un re che non ha più moglie. Intanto, il vento arriva come un grido: “A broom is drearily sleeping |
up the broken pieces of yesterday’s life. | Somewhere a Queen is weeping, | somewhere a King has no wife. |
And the wind – it cries, Mary...”.
Ciò che è evidente in modo clamoroso in Jimi Hendrix è che la sua musica è sempre “furiosa”, anche quando
– e succede piuttosto spesso – si ammanta di dolcezza, quando le note della chitarra escono limpide e
cristalline da un arpeggio delicato e il ritmo si fa lento e sognante, perfino, si direbbe, ballabile. Ogni singola
canzone è una celebrazione, un rituale. C’è, in Jimi Hendrix, una solennità oggi del tutto perduta; e il concerto
– il live act – è un sacrificio. Jimi appartiene alla ristretta cerchia dei musicisti che dal vivo possono rendere
anche molto più di quanto non riescano a farlo in sala d’incisione, e basta vedere un filmato qualsiasi per
capire perché: basta vedere per esempio il film di Woodstock, e lui che tiene quelle note infinite e lancinanti
trasfigurando The Star-Spangled Banner, l’inno degli Stati Uniti, facendolo diventare la tragica colonna
sonora della distruzione, col distorsore che riesce a simulare i suoni terrificanti dei bombardamenti sul
Vietnam...
La mia America è soprattutto questa cosa qua. E’ il dolore per una grazia perduta nella quale, però, non si
smette di sperare. E’ violenza e tenerezza, odio e amore. E’ un’autostrada d’estate e una musica che ti mette
nello stato d’animo giusto. Born to Be Wild degli Steppenwolf, per dire.
Siamo cresciuti sognando l’America, ci siamo imbevuti della sua cultura, che poi era la nostra che ci veniva
restituita risorta e fortificata. Ci siamo specchiati in quel quadro e a volte non ci siamo piaciuti, ci siamo
incazzati, abbiamo sfilato in decine e centinaia di cortei di ragazzi rossi e vocianti, ed eravamo pur sempre
people in motion, gente che quella stessa sera poteva andare al cinema a vedere Fragole e sangue o Soldato
blu.
L’AMERICA
Per Peppino Manigrasso
di Salvatore Pica
L’America della mia generazione, inizia nell’autunno del 1943, con l’andata via da Napoli dei Tedeschi e il
crollo del fascismo.
L’arrivo degli americani a Napoli significò subito libertà e democrazia.
Ricordo che le Chiese e le Associazioni Cattoliche ci permettevano di accedere agli aiuti del Piano Marshall
consistenti nel “Paccotto”, caffè, zucchero, cioccolata, burro, biscotti, formaggio etc. tranquillizzando così la
categoria della carne, quella dello spirito veniva invece alimentata e soddisfatta dalla prima Radio Libera
dopo il fascismo, dal cui ascolto nacque la mia passione per il Jazz, principalmente Glenn Miller, Louis
Armostrong e Charlie Parker che appagavano il mio bisogno di musica.
Continuai ad ascoltare la musica Jazz frequentando la Libreria Americana U.S.I.S. in Via Medina, dove in un
angolo c’era la postazione dischi con giradischi e cuffia. Oltre all’ascolto del Jazz, l’altra attrattiva era
rappresentata dal regalino di biscotti e cioccolata da parte delle Bibliotecarie, forse perché risvegliavo in loro
il biblico senso materno.
Evviva, evviva, il mio amore per il Jazz fu premiato dalla tournèe del mitico Louis Armstrong a Napoli al
Cinema Metropolitan a metà degli anni cinquanta.
In seguito ricordo ancora l’emozione che provai ascoltando per la prima volta alla radio Elvis Presley, Bill
Haley e i suoi Comet, Nat King Cole etc.
La memoria va con “dolce saudade” allo scantinato di Via S. Liborio alla Pignasecca dove era stata allestita
una sala di proiezione con un lenzuolo su una parete e delle panche. Qui vedemmo i primi film western con lo
sceriffo Randolph Scott e Alan Ladd che hanno a lungo dominato prima dell’arrivo di John Wayne e poi
ancora Glenn Ford – Burt Lancaster etc.
Mi chiederete in che misura il Cinema Americano ha inciso sulla formazione estetico - visiva della mia
generazione:
Per “Eleganza e discrezione” emerge la figura di CARY GRANT.
Per “Il fascino di Tombeur de femmes” CLARK GABLE.
Per “Il Piacere del Torbido al femminile” HUMPHREY BOGART
Per “La leggerezza e la gioiosità di vita” FRED ASTAIRE
Il Cinema Americano, dagli anni cinquanta in poi, è stato per noi europei un esempio sia per quanto
riguarda i “Colossal” che per le Commedie all’Americana.
Che dire della Mitica Fernanda Pivano che ci fece conoscere Jack Keourac e tutta la Beat Generation?
Alla prossima puntata...
Lunedì 4 Luglio 2011 – ore 18.00 no stop
Pica Associazione Culturale
via Vetriera 16 – Napoli