Ercole, Amleto e Don Chisciotte. Milioni di parole frattali e di nerissimi neri in fondo all'abisso del frattale ultimo che di nero illumina l'ultimo quadro e il fuoco fatuo di una vita ancora da conoscere, mai dipinta.
Ercole, Amleto e Don Chisciotte
Milioni di parole frattali e di nerissimi neri in fondo all'abisso del frattale
ultimo che di nero illumina l'ultimo quadro e il fuoco fatuo di una vita ancora
da conoscere, mai dipinta. Vita che adesso irrompe squarciando le tende di una
porta da sempre sepolta; porta di conchiglie e di stiletti flagellati dall'aria
intrusa e salsa, annegati nei flutti e tra le acciughe salate del nulla.
Don Chisciotte perciò Cervantes e di volta in volta gatto quindi me: cavalletto
e cavallo.
Don Chisciotte e Sancio Panza, storia espressa dalla sua stessa sostanza, idea
che collima con la forma piegando i secoli e il tempo sullo spessore di un
foglio che dovrà essere dispiegato per guardare al di là e al di qua dell'acqua,
in quella lieve acqua del passo che fa eco alla parola, ad un intreccio di
parole. Ed è quell'intreccio vocale che l'enigma di Amleto diluisce e su di esso
naviga, ma anche il passo di mani pensanti e il disincanto del moto avuto
facendo volare tumultuosi il sibilo con le voci dei cavalli a vento, delle pale
feline, nel canto e nel cemento. Ah, dipingere con la passione di un serpente
per l'infinito mare in una spirale ininterrotta, in una ruota caduta e
frantumata!
Tutta la nebbia e tutto il fumo da Ercole a un guercio sciolti in un batter di
ciglia dal moto ansimante e dal sospiro stanco di un mimo. Dalla sua morte
statue di cani vivi sopra i rosei e visionari muri di Palagonia e nell'aria nera
e disperata dei Vespri siciliani l'ultimo clamoroso guaito impacchetta la
Gorgone a tre gambe, la carta rilegata del mito, il buio e la carta pesta dei
sogni.
Si ferma e giace la noce di Peggy. Scuote lo scudo agitando le dita, additando
il vuoto dilapidato dal dislocamento locos forzato di ogni cosa, liberato e poi
lasciato da un'improvvisa fuga iniziatica. Si ferma e giace con un punto rosso
fuori e l'altro dentro. Tutto è tenuto dal niente sul limitar di quel solo punto
accovacciato sulle dipanate note, ora leggiadre, di un topo più bianco del mare
preda dell'ira. Una noce che ha sanato le sue ferite, che avanzando curva e
muove lo scudo eccentrico. Si ferma e tace, la noce di Peggy, tra bianche onde
di peli di gatto, ad un tiro di voce dal candido topo che contiene e tiene i
confini del mondo, l'iperboreo mondo in un notturno frutto d'Esperia.
Promontorium Sacrum e il sipario del teatro della vita.
Cadendo lungo l'ansa di un'erma di flipper un monocolo riflettente guarda la
scala nera da Ernst a Van Gogh, punto lesto un piccione impiccato in volo il
giusto contrappeso. Nell'arrampicata artefatta precipita e ammutolisce il fiato
di vuote trombe trionfali e dei semi di zucca accampati per tempo a tenere in
bilico screziati sedili di legno, perché chiaramente la luce buia possa impilare
finalmente un sogno mancante dopo l'altro.
In questo quadro c'è tutto: il mito, lo sfarfallio delle voci della natura, i
riccioli degli acuti alla luna di vetro graffiato, il salto a piè pari, l'isola
del tesoro in costume da bagno a righe orizzontali "accarpate" e non, sul
davanzale o al di fuori; c'è il massacro e la non-morte della pittura tutta,
della letteratura che scrive per sé il doppio di ciò che non lo è, il bianco
lamento della sua storia sanguinante e stagnante, nella calma apparente e
turgida, nella perenne nenia, nella luce affettata sempre irrimediabilmente
assente.
G.S.
Immagine: HEAD, 1991/2002 - Olio su tela, cm 70 x 70
Inaugurazione: sabato 14 dicembre alle ore 17,30
Orari: 17 - 19 feriali, 16 - 19 festivi, chiuso il lunedì e il martedì, il 25 e
il 26 dicembre
SPAZIO ARTE - Corte Zerbo, 15066 GAVI 2 (AL)