Trasformazione. Victorine Muller inscena se stessa dentro grandi contenitori in plastica trasparente, di forma zoomorfa o biomorfa. Prisca Groh presenta una serie di lavori legati al suo viaggio in Iran.
a cura di Désirée Vringer
Trasparenza: vedere dentro, vedere fuori, vedere attraverso. Oltre.
Trasformazione: diventare l’altro, diventare altro.
Due mondi che appaiono lontani, ma che misteriosamente si intersecano:
questo suggeriscono i lavori di Victorine Müller e di Prisca Groh. Il loro
accostamento, di primo acchito forse inatteso, spinge infatti a chiedersi se e
in che modo queste opere interagiscano fra loro e costringe lo spettatore ad
affinare l’esperienza percettiva per poter cogliere tutte le valenze, le
sfumature, i messaggi intrinseci alla mostra. Il dialogo.
Victorine Müller è, prima di tutto, artista di performance. Su questo, la
critica è – a ragione – unanime, perché la performance è davvero il perno di
tutto il suo fare creativo (non a caso, la stessa Müller definisce il corpo
“Poesie-Erreger”, cioè elemento che scatena la poesia, la magia, l’incanto).
Grandi contenitori in plastica trasparente, di forma zoomorfa o biomorfa,
gonfiati da una pompa ad aria e collocati in interni o, volentieri, in esterni:
dentro di essi l’artista inscena se stessa a guisa di embrione, in un’idea di
contenente e contenuto, di involucro-bozzolo avvolgente e protettivo,
addirittura, a volte, di seconda pelle (La peau chantante, 2001; him, 2004;
timeline, 2005; e altre). Giochi di luce cromatica, drappi e stoffe (soprattutto
il rosa ma non solo, anche il giallo, l’arancione, il bianco) evocano atmosfere
fiabesche, oniriche, visionarie. Il tempo: si aspetta, si attende che qualcosa
accada, una nascita forse, un evolvere, ma tutto è come congelato, un vago
movimento che rimane fissato o scolpito o come imprigionato nel ghiaccio.
Il lavoro di Victorine Müller è pervaso da un’incredibile delicatezza, da una
straordinaria sensibilità; ma sovverte, anche, i canoni propri alle categorie
artistiche e diventa, di fatto, assertivo e provocatorio.
La sua performance, infatti, è paradossalmente trattenuta nell’azione, azione
che si stempera in una staticità, una calma che ne fanno, quasi, una
composizione pittorica viva.
Le sue sculture trasparenti, pure costituite da contenitori in PVC, rimettono in
discussione – o meglio, conducono a limiti estremi – le leggi proprie del
genere. Quel gioco, quella sfida, quella tensione intrinseci al rapporto fra
volume e spazio, fra dentro e fuori, fra superficie e luce sono ribaltati: il
volume è presente, ma è smaterializzato in una leggerezza impalpabile; nella
sua trasparenza, la forma chiusa si lascia attraversare completamente dallo
spazio, si mette a nudo; l’interno diventa visibile all’esterno e ciò che sta
fuori entra con forza in relazione, anche estetica, con ciò che sta dentro; la
luce gioca sulla pellicola rendendola luminescente, ma nel contempo sembra
scaturire come entità dall’opera stessa e si proietta sull’ambiente circostante
(nachtblau, 2008; ballon stratosphérique (calamar), 2008).
I disegni, che formano un continuum con performance e scultura, sono
caratterizzati da una finezza estrema: lievi creature – fantasiose, biomorfe,
ibride perché a metà fra il biologico e il fiabesco, anch’esse trasparenti e in
trasformazione – sono evocate sulla carta da tratti sottilissimi e colori tenui;
sono figure – loro sì – in movimento, come fluttuanti in uno spazio non
connotato, indefinito, una sorta di liquido amniotico biologico, fantastico,
mitologico.
Stregato da queste apparizioni, dall’atmosfera suggestiva e lirica che avvolge
queste opere e chi le osserva, lo spettatore si ritrova sorpreso, sospeso e un
po’ destabilizzato non solo dal mescolarsi ipnotico dei mondi (una natura
multiforme, un perenne tramutarsi fra umano e animale, fra scienza e fiaba,
senza un confine preciso), ma anche e forse soprattutto da questo
ribaltamento di canoni, da queste “contraddizioni estetiche”: ci si addentra in
una dimensione percettiva altra, vagamente surreale, in cui i punti di
riferimento consolidati vengono meno e bisogna accettarne di nuovi.
Attraverso questi sovvertimenti Victorine Müller sembra guidarci – quasi
facendoci ri-nascere – verso un recupero dell’ancestrale, del naturale,
dell’archetipico, di un immutabile mutare; sciogliendo le categorie dell’arte e
del pensiero ci aiuta a riconoscere anche con l’intuito, con le emozioni, una
radice profondamente umana.
Per Prisca Groh si rivela impossibile scindere l’esperienza creativa
dall’esperienza esistenziale. Il punto di svolta nel suo fare artistico coincide
con il primo viaggio in Iran: una rivelazione che dà avvio, per l’artista, a un
percorso più maturo, personale e deciso. Punto di svolta, sì, non cesura.
Perché l’evolvere di Prisca Groh ha andamento spiraliforme, è caratterizzato
da tematiche che tornano ciclicamente per essere elaborate in forme e con
media differenti. Il tema dell’unirsi e del compenetrarsi di dimensioni diverse,
per esempio: già nei primi lavori, orientati alla fotografia, troviamo il cielo
che sfuma nell’acqua del mare, senza soluzione di continuità, senza che si
possa identificare il punto esatto in cui l’uno diventa l’altro. Un concetto che
troverà ulteriore espressione nel contatto con la cultura iraniana, un contesto
in cui l’artista si fa strumento, diventa tramite non solo fra medioriente e
occidente, ma – anche qui – fra terra e cielo, fra terreno e spirituale: nasce
la serie fotografica Angels (2005-2006), che ritrae i Falforush, venditori di
fortuna clandestini che offrono versi del poeta Hafiz, il cui Diwan rappresenta
una pietra miliare nella cultura persiana; nascono, a partire dal 2007, i
Fazzoletti di terra, brani di tessuti portati dall’Iran che l’artista ricama con
pluralità di tecniche e di materiali sulla base di punti legati alla topografia di
luoghi visitati: tappe di viaggio, traccia geografica che si tramuta in traccia
estetica, geografia reale che diventa geografia spirituale, sorta di
costellazione che suggerisce un cammino soprattutto interiore.
Oppure il tema della ripetizione, del ritorno, elaborato in sempre nuove
declinazioni nei lavori dedicati ad Hafiz: dall’installazione con i foglietti
recanti i versi dei suoi poemi (Il riposo nel giardino del poeta, 2008) al video
recente in cui mani e dita ne sfiorano e toccano delicatamente la tomba, in
una varietà di gesti che dà origine a una danza sempre uguale, ripetuta, ma
al tempo stesso sempre diversa e mutevole (Hafiz, 2007-2010).
Oppure, ancora, il femminile, che con la sua capacità creatrice e creativa
pervade tutta l’opera di Prisca Groh. Ecco allora la serie fotografica nata da
un soggiorno, sempre in Iran, sulle tracce delle scrittrici svizzere Annemarie
Schwarzenbach e Ella Maillart, che esplorarono il paese nel 1939 (mémoires,
2009-2010). Sulla base delle loro fotografie, l’artista va alla ricerca dei
medesimi luoghi e punti di vista per ri-fotografarli oggi, tematizzando la
memoria in un gioco temporale fra passato e presente e in un rispecchiarsi
incessante delle rispettive sensibilità. O il recentissimo Gigli (2011), in cui
Prisca Groh lavora nuovamente con il vetro, dunque con la trasparenza, ma
anche con il segno e l’ombra, in un omaggio alle donne che hanno saputo
affermarsi attraverso un altro medium a lei caro, la parola.
Benché lei stessa parli di un impulso evolutivo verso il documentario, i suoi
esiti fin qui si collocano oltre il reportage: sono semmai percorso iniziatico,
diario di viaggio nel senso più ampio, profondo e anche tradizionale del
termine, pervasi come sono da una forte componente intima, esistenziale,
spirituale, estetica.
Victorine Müller, Prisca Groh. Due traiettorie che si intersecano.
La trasparenza: il guardare dentro che è anche guardare fuori, guardare
attraverso, guardare oltre.
La trasformazione, il mutamento, l’ibrido: spinta verso una dimensione
spirituale e un abbandono di canoni precostituiti.
L’utilizzo di media diversi non come ricerca in sé, come sperimentalismo, ma
come processo atto a plasmare e a ribadire l’intenzione con linguaggi sempre
nuovi e con sempre maggior forza e profondità.
La raffinatezza e la delicatezza dei lavori, la sensibilità, il silenzio: in una
parola, la poesia.
Testo; Paola Tedeschi Pellanda
Inaugurazione: sabto 10 settembre ore 17
Laboratorio Kunsthalle Lugano
Salita Chiattone, 18 - Lugano
Orario d’apertura: Giovedì ore 14 - 18 / sabato ore 13 - 16