The Sound of Ego e' una mostra sulla propagazione quotidiana dell'Io nelle sue ipotetiche e molteplici forme. La chiave ironica e fortemente estetica di Paolo Gonzato lo ha portato a rappresentare uno dei temi più sentiti e tumultuosi del nostro tempo attraverso ''sculture'' e opere a parete, il tutto a comporre una più complessa installazione. A cura di Francesca Pasini.
The Sound of Ego
A cura di Francesca Pasini
Inaugurazione Giovedì 13 Febbraio 2003
The Sound of Ego è una mostra sulla propagazione quotidiana dell’Io nelle sue ipotetiche e molteplici forme. La chiave ironica e fortemente estetica di Paolo Gonzato lo ha portato a rappresentare uno dei temi più sentiti e tumultuosi del nostro tempo attraverso “sculture†e opere a parete, il tutto a comporre una più complessa installazione.
La tecnica è “antica†e perfettamente “nuovaâ€. Paolo Gonzato taglia e cuce. Utilizza sottili strati di polietilene colorato ricavato da un riciclo di sacchetti da shop. Le pellicole di plastica sono composte e tenute insieme con filo da pesca da cucito. Il tutto assemblato da Gonzato stesso con una macchina da cucire Vigorelli.
“Il suono del quotidiano, inteso come specchio che riflette le nostre azioni, ha la figura prospettica di una serie di nastri blu, che si dilatano sulle pareti, come cerchi nell’acqua. Quando si butta un sasso nello stagno non si sa quali figure si formeranno e The sound of ego vira nello specchio di Narciso, affiora dalle superfici lucide della plastica tesa. Il suono di fondo della seduzione della propria immagine fluttua tra lo specchio e la plastica in cui l’artista ha cucito il proprio ego. Una superficie in cui si riflette anche chi osserva rubando, talvolta, lo specchio all’artista.â€.
Dal testo in catalogo di Francesca Pasini.
Paolo Gonzato ha 27 anni, vive e lavora a Milano.
Immagine: Paolo Gonzato, The sound of ego cm 80x60 - polietilene cucito 2003
Artifici di un “linguaggio minoreâ€
Francesca Pasini
Vivere il tempo come parte integrante dell’opera è quello che appare nei quadri e negli oggetti di Paolo Gonzato. Sono quadri particolari. Il disegno trova la sua definizione attraverso il cucito. Il materiale è “basso†e votato alla dispersione: sacchetti di plastica. L’elemento temporale si intreccia alla durata di questo oggetto che spesso, e traumaticamente, si amalgama all’ambiente senza possibilità di distruzione. Gonzato recupera da queste pelli artificiali un lato estetico e seduttivo col quale trasforma la plastica in superfici brillanti, nitide. La cucitura, come una punta di grafite, scontorna le figure con precisione, evoca la chirurgia e la ricchezza di invenzione, reclusa per secoli nell’ anonimato femminile. In questi ultimi anni sono emersi molti lavori centrati sul cucito e sul ricamo: hanno grande varietà semantica e formale. Ago e filo compongono un alfabeto che, collegando l’espressione artigianale originaria alla realtà attuale, sta creando un linguaggio visivo autonomo, con grammatica e sintassi proprie.
Gonzato mette in primo piano la dialettica tra realtà e artificio e lo fa con mezzi manuali che apparentemente non potrebbero concorrere alla definizione di artificiale. Con un salto acrobatico, materiali, costruzione dell’immagine e scelta formale precipitano in un amalgama che si differenzia dall’idea abituale di artificio, proprio perché è strettamente connesso ad una conoscenza manuale antica. Non appaiono dunque mondi avveniristici, ma immagini che esplicitano l’altrettanto antico artificio di tramutare la vita in segno, colore, concetti, affinché tutti possano riconoscervi brani delle proprie percezioni.
Nello sky line di una catena di montagne (Reflected landscape, 2001), tra il blu del cielo e il bianco delle vette innevate non c’é distanza, ma un virtuale contatto. La pittura - da Tiziano, Canaletto, Caspar David Friedrich fino a Sugimoto o Gursky - ha spesso preso a tema la percezione dell’artificio naturale, prefiggendosi di interagire con il disegno variabile del paesaggio. Gonzato raffredda questa indagine in una visione che, di per sé, sembra lontanissima dagli epici spettacoli naturali, e in questo trovo la sua originale sperimentazione del tempo, intesa come esecuzione materiale del disegno, ma anche come adesione a quella temporalità sorda, faticosa, per niente aulica, simbolizzata dall’uso dei sacchetti di plastica.
La scelta di cucire insieme queste pelli di colore prestampato lo inserisce nel tempo della memoria e degli affetti. La macchina da cucire è quella della sua nonna: da un lato richiama il lavoro femminile, dall’altro il legame parentale in quanto punto di partenza dell’agire creativo, e, quindi, la fascinazione infantile per i manufatti casalinghi, dal cucito, al ritaglio, alla trasfigurazione degli oggetti domestici in personaggi di invenzione.
Il dato interessante è l’appropriazione della fantasia assegnata alle bambine: produce uno scambio e un duplice riconoscimento.
Lo scambio riguarda i territori dell’espressione per cui anche ai maschi è consentita una manualità assimilabile non alla forza, ma alla cura: cucire, ricamare è un pegno di dolcezza verso gli oggetti, che dà forma a un’estetica dell’eredità familiare.
Il riconoscimento è duplice perché, da un lato, riscatta un linguaggio ponendo fine all’interdetto secondo cui, Charles Tansley, uno dei personaggi di “Al faro†di Virginia Woolf, poteva affermare senza titubanza: “le donne non sanno scrivere, non sanno dipingereâ€; dall’altro questa pratica artigianale diventa simbolo non tanto di un atteggiamento “politically correct†rispetto alla presenza delle donne nell’arte, quanto di una reale innovazione determinata dalla storia stessa delle donne, ivi compresa la reclusione in “linguaggi minori â€.
Nel muro, che separa la Storia degli Eroi, che hanno siglato l’evolversi degli spiriti del tempo, dalla la vicenda anonima di madri, figlie e spose, si é formata una crepa dalla quale emerge una elaborazione di sé che non ritiene neutrale il rapporto con l’altro e l’altra.
L’esempio dei tanti uomini che usano oggi il ricamo è una prova, o quantomeno, un inizio di cambiamento nella costruzione dell’identità . E’, infatti, molto rilevante che l’uso di un linguaggio “prettamente femminile †diventi un paradigma per riflettere sulla contemporaneità . Ritrovare il capo del filo aggrovigliatosi molti secoli fa (valga per tutti l’esempio di Rosemarie Trockel e dei suoi “quadri†che, invece di essere dipinti, sono lavorati a maglia), è un atto di creazione in cui uomini e donne possono avvalersi delle reciproche differenze senza cedere parti di sé, ma è anche una risposta autonoma al sistema di informazione attuale.
Al modello globale l’arte risponde con il recupero di “linguaggi minori â€, con cui dà forma a una libertà soggettiva e intellettuale in controtendenza rispetto all’ipotesi di un pensiero unico. Diventa dunque ancor più rilevante che queste “espressioni minori†provengano dal linguaggio di lui e di lei.
L’idea di parzialità desunta dal contatto con le differenze è un’invenzione che non si ferma alle distinzioni di genere, ma pervade il dialogo attuale, tant’é che le spinte per uniformarlo sono messe in discussione dagli stessi sistemi informatici che stanno alla base del processo. Lo si vede nei tam tam via internet e nei movimenti no-global. Inventare figure che rappresentino la presenza di linguaggi minori è un modo di entrare in dialettica col cambiamento e non una romantica ripresa del passato.
L’uso di internet, e-mail, cellulari ha creato una galassia di informazioni dirette che avvengono lontano dal corpo. Anche in questo c’è un artificio. Riprendere contatto esplicito con l’espressione manuale, lenta, ossessiva, non è una semplice reazione speculare alla velocità incorporea dei sistemi mediatici, ma piuttosto una forma per captare dal “taglia e cuciâ€, che si fa normalmente col computer, la dimensione fisica del tempo soggettivo e solitario nel quale organizziamo le nostre relazioni quotidiane.
E’ un salto epocale che avvicina persone e pensieri in modi molto diretti, anche se molto separati. Si parla con tutti, ma per farlo bisogna passare molto tempo con se stessi, esattamente come succede quando si cuce e si ricama: farne un linguaggio rappresenta qualcosa di più di una scelta tematica, è piuttosto una riconsiderazione dello spazio-tempo individuale in cui ognuno dà corso alla propria esistenza affettiva, lavorativa, sociale.
Paolo Gonzato dice che i suoi lavori nascono da un punto e poi si diramano per centri concentrici, come succede spesso in natura, ma anche nella vita del singolo. Il titolo dei suoi ultimi lavori The sound of ego è già un’immagine in sintonia con quest’idea.
Oltre ad alludere alla definizione di sé, mette in campo il tema di quella centralità mobile, non sempre prevedibile, che fa capo all’esperienza. Simbolicamente è abbastanza immediato collegare i cerchi creati da un sasso gettato nello stagno con la percezione allo stato nascente di ogni gesto, ivi compreso quello artistico.
Attraverso il cucito, Gonzato, tiene in equilibrio il movente amorfo che sta alla base dell’intuizione e il tempo necessario per tradurlo in segno. Non c’è distanza tra questi due tempi, anzi l’opera diventa comprensibile nel momento in cui intuizione ed esecuzione si saldano.
E’ il caso del gomitolo di nastro avvolto quotidianamente fino a raggiungere 3 kilometri e posto su una base di legno, che è anche la scatola che lo contiene (The sound of ego, 2002). Questa scatola, oltre ad evocare rimandi al metro cubo di terra di Pascali o allo zoccolo del mondo di Manzoni, facendo da piedestallo al rito quotidiano, interno al gomitolo, ne coordina la sua celebrazione. La lunghezza del nastro non è una curiosità tecnica, ma un sintomo della distanza tra sé e sé che Gonzato tenta di colmare, misurandola materialmente. Rappresentare questo passaggio, nascondendo la metafora nelle curve lucide del nastro, è un artificio e una dedica agli oggetti quotidiani. Il tempo per farlo è quel segno in più, che Duchamp riconosceva ai suoi ready made, nati come “un appuntamento†con l’altro, in vista del riconoscimento di sé. Il ready made duchampiano ha molte letture: in Gonzato prevale, il dato relazionale, rispetto a quello di trasfigurazione semantica.
The sound of ego può, dunque, essere inteso come una necessaria interazione tra il tempo soggettivo, quello di esecuzione e quello finale quando l’oggetto d’affezione (l’appuntamento?) si separa dalle mani dell’artista. A quel punto naturale e artificiale, vissuto personale e immaginazione artistica perdono il carattere di opposti a favore di un movimento concentrico a cui partecipa anche l’osservatore. Lì avviene l’artificio del suono silenzioso della manualità : nel momento in cui non ha più oggetti da cucire, disegnare, ricordare, appare la pelle. In questa pelle c’è anche l’ego dell’artista? E’ possibile.
La struttura a scatole concentriche della “matrioska†non è visibile dall’esterno, Gonzato la esplicita nell’artificio di addossare il recto e il verso della figura nello stesso punto della parete che collega le due stanze della galleria. La matrioska ricostruita da Gonzato si risolve nella pelle e nelle cuciture che scontornano il suo corpo, funziona come un immaginario perno che fa girare la parete, ma anche come un buco che perfora il muro.
Il suono del quotidiano, inteso come specchio che riflette le nostre azioni, ha la figura prospettica di una serie di nastri blu, che si dilatano sulle pareti, come cerchi nell’acqua. Quando si butta un sasso nello stagno non si sa quali figure si formeranno e The sound of ego vira nello specchio di Narciso, affiora dalle superfici lucide della plastica tesa. Il suono di fondo della seduzione della propria immagine fluttua tra lo specchio e la plastica in cui l’artista ha cucito il proprio ego. Una superficie in cui si riflette anche chi osserva rubando, talvolta, lo specchio all’artista.
Ma-Ve 11.00/13.00-16.00/19.00. Lunedì e Sabato su appuntamento.
Gariboldi contemporanea, Corso Monforte 23, 20122 Milano
T/F 39 0276016499