La metafora dell'essere. Colori brillanti e ammalianti, linee precise, paesaggi naturali e ambienti trasformati dall'uomo caratterizzano la produzione artistica di Ghidini.
A cura di Arianna Sartori
Presentazione di: Prof.ssa Marta Mai
La metafora dell’essere
Colori brillanti e ammalianti, linee precise sezionanti spazi, o armoniosamente attorcigliate in percorsi, paesaggi naturali ed ambienti trasformati dall’uomo in cui la natura s’intrufola, s’inerpica e sporge rinata e generosa, caratterizzano la produzione artistica di Pier Luigi Ghidini.
È abbondante, e ci viene incontro annunciando da subito un artista entusiasta, che contempla con compiacimento un mondo naturale in perpetuo movimento, che si trasforma e non degrada, che concede spazio all’uomo e a tutte le sue esigenze abitative e lavorative, ma non si lascia soverchiare e spunta là, dove meno te l’aspetti, là dove domina il cemento ed il mattone si congiunge al mattone in un’ascesa verticale, che, metaforicamente resa da scale, indica la sua presenza ovunque le costruzioni hanno coperto prati e colline, o hanno addentato la montagna per farsi largo e dilatarsi.
Tutte le opere di Pier Luigi Ghidini constatano che la forza vitale della natura è inalienabile e trova sempre il modo per proclamare la sua sovranità, e risorgere forte. E allora…, ecco l’albero che cresce sul tetto, il fiore, che, gigantesco, pencola da una feritoia, ecco mille variopinte corolle, che si ammassano dove la rugiada irrora il prato, o dove la mano operosa dell’uomo, nutrendo il seme, ne attende la sua esplosione; e ancora là, dove una fantasmagorica fioritura culmina in un gigantesco vaso, che, padrone della scena, quale cornucopia dell’abbondanza, varia la sua offerta, trasbordando frutti succosi ed esprimendo riconoscenza all’uomo che l’ha accudito con amore.
E dall’amore, filo guida della produzione artistica di Pier Luigi Ghidini, tutto consegue. L’artista lo dice con metafore, che, inconfondibili, appaiono ora appartate, ora in prima fila. Sono piccoli o grandi cuori, che proiettano qui un’aiuola profumata, là sono preziosa teca per i tesori della natura, e ancora altrove, quale cornice leggera, contornano una visione paesaggistica.
Se trafitti dalle frecce di Cupido, i cuori sono un simbolo universale: sussurrano le gioie del talamo e svelano il mistero della vita. E noi, presi d’amore, quali trottole aspirate nel vortice della danza, ci solleviamo leggeri ed esultiamo con l’artista per i doni della terra. E ancora, con lui, come aquila, voliamo per conquistare alte vette, simbolo di rettitudine morale, e, da lassù, ammiriamo le bellezze del Creato con il cuore gonfio di soddisfazione, per contribuire a mantenerle.
Nell’azzurro squillante del cielo, raramente interrotto da affusolate e garbate nuvolette bianche, che non possono presagire burrasca, gli astri dominano incontrastati. Suggeriscono quiete e serenità. Concorrono a mostrare la sensibilità dell’artista, sempre affascinato dall’armonia della natura, che riserva infinite e inesauribili risorse.
Il sole, per la gradualità dei toni, che dal bianco, attraverso il giallo, divampa nel rosso, rimanda alle stagioni e ai raccolti. La luna, spesso impressionata a falci degradanti, intenerisce il cuore e rinnova stupore e meraviglia. Nell’alternarsi delle sue fasi crescono le piante, si gonfiano le acque, si alternano gli umori degli esseri umani, che a lei si rivolgono per comunicare emozioni e decidere operazioni.
L’artista, quando con il suo reiterante filo rosso e bianco allaccia la luna ad elementi del paesaggio naturale o a oggetti inseriti negli ambienti modificati, alla sua forza generatrice e misteriosa, alla sua luce magnetica, che aspira e fa crescere il seme, fa riferimento; nel contempo lascia intuire il profondo significato del saettante filo, che è metafora di forza. Si trascina, si arrotola su se stesso, avvolge, si distende, s’innalza e s’interra, per poi emergere come d’incanto e ricominciare il suo percorso fantasioso e sorprendente, che non ha fine.
Quel filo rosso e bianco è la linfa, che nutre ogni elemento della terra, è la natura che si risveglia e germoglia, è la speranza di vita, che alberga in tutti gli esseri viventi, che solo per il loro esistere assolvono una funzione, è l’uomo che opera con considerazione e coglie i frutti del suo lavoro in un ciclo incessante di corsi e ricorsi. E quando l’uomo appare nel quadro e domina o, quale sipario che si apre svela la scena per invitare allo spettacolo della natura, ha coscienza del suo ruolo determinante e della responsabilità dei suoi interventi.
Nella produzione di Pier Luigi Ghidini ci sono ancora immagini simbolo, che riportano all’infanzia, ai giochi all’aperto, ai posticipati momenti del rientro. La libertà attiva e creativa del bambino, che indaga la natura e la vive, rifugge dal chiuso delle pareti. La pittura dell’uomo adulto, che rivive la situazione e ricorda gli entusiasmi infaticabili e le restrizioni imposte, trova espressione in quelle grandi finestre aperte sulle facciate delle case, che mostrano astri, cielo, natura, e tutta la smania di chi, crescendo ed esplorando, sente attrazione ed interesse per gli alberi, i fiori, i frutti, i prati, gli animali compagni di gioco, o guardati con timore a distanza.
Quando Pier Luigi Ghidini seziona l’opera, e accosta molteplici scene ricomposte come in puzzle, indugia sui ricordi di una vita. Sono ricordi legati alla natura e alla sua trasformazione, immagini riaffiorate alla memoria e rese in un magico mosaico, che, rasentando il sogno e andando oltre il reale, proclamano la creativit. artistica.
Nella libera interpretazione ritornano le metafore. Le architetture pittoriche, quali piramidi, tendono a svettare verso l’alto e a sfondare in orizzontale la prospettiva: nell’elevazione c’è il richiamo al valore del rispetto, nella dilatazione c’è l’affettuoso abbraccio di ciò che l’occhio percepisce o intuisce. I toni pastello, sfumati sui muri esterni delle case, fanno affiorare sentimenti delicati: sono lusinghe di affetti e dolcezze domestiche, che le piccole finestre con inferriate proteggono.
Nelle opere di Pier Luigi Ghidini non c’è mai tensione. Anche le ciminiere innalzano esili pennacchi di fumo bianco, che si dissolvono presto in quei cieli tersi, dove è bello sostare. È rassicurante concordare con l’artista che la natura, in forza dell’amore per cui è stata creata e grazie alla cura degli uomini, si rinnova e, puntualmente, rinasce per donare. È un messaggio di fede, che trova riscontro nel filo rosso e bianco, firma “artistica” di Pier Luigi Ghidini. Questo filo, in ultima analisi, è corrispondenza di “amorosi sensi”, è dialogo complice, che unisce l’essere umano al suo habitat, in funzione di benessere reciproco.
A conclusione della presentazione, ci piace complimentarci con Pier Luigi Ghidini per la sua originale espressione artistica, di cui diffondiamo la comunicazione per coralmente condividerne la valenza.
Prof.ssa Marta Mai
Tra aperture surreali e quotidianità: il mondo simbolico di Pier Luigi Ghidini
1. Ci sono “attenzioni” che ci aiutano a definire gli ambiti poetici di ogni artista; e sovente, queste attenzioni linguistiche appaiono per accenni, a volte in componenti anche marginali dell’opera, in cui i particolari divengono spie o cartine di tornasole di alcune scelte di fondo. E per Pier Luigi Ghidini, le scelte di fondo sono sostanzialmente ancorabili al bisogno figurativo, evocativo, al rinvio alla memoria, alla volontà di trasfigurare la realtà quotidiana cui sembra contrapporsi, fin quasi ad avere la prevalenza, il bisogno opposto di provenienza onirica di dar voce alla fuga, di aprire un varco all’immaginazione, nel dare aperture all’itinerario espressivo. E accanto a tutto questo, il bisogno di rigore, il bisogno di una costante riquadratura, ai limiti quasi della geometria, per uscire dal magma di colori succosi, di pennellate dense, che gli derivano dalla tradizione, dall’aver condiviso, per tutti gli anni sessanta, una pittura che non si discostava dalla figurazione dal vero di stampo tradizionale, costruita da subito con una semplificazione iconografica che appare figlia ed erede della narrazione post bellica.
I pochi oli conservati nella “privata” collezione dell’artista di quel lungo e importante apprendistato, piccoli oli su tavola datati 1970, documentano un’adesione alle tensioni materiche che avevano animato l’intero secondo dopoguerra, un’attenzione alla verità del narrato e al bisogno di arricchirlo e renderlo personale attraverso il colore che si sfalda, ai limiti dell’informale, un’attenzione al primo Morlotti delle rive dell’Adda, a certi contrasti cromatici tra forme urbane e paesaggio che in terra bresciana trovavano voce in non pochi autori.
Poi, a metà degli anni settanta, lo scarto, il salto di qualità che lo avvio verso quello che diverrà la scelta stilistica. È probabilmente la conoscenza di autori e opere che transitano nella sua galleria di riferimento, la storica “San Michele” di via Gramsci dove espone negli anni settanta, a portare nella sua pittura le suggestioni di autori come Biasi, Viviani, Baj, ma anche le tracce di una figurazione che risente tanto dell’espressionismo storico, quanto delle declinazioni recenti che intrecciano evocazione e immaginazione. La scansione narrativa appare costruita su una geometrizzazione che risente degli echi del dopoguerra, ma personale appare il rapporto tra figure e sfondo. Compaiono allora quelle “attenzioni” di cui abbiamo scritto in apertura, che sono il carattere nuovo della sua ricerca, l’apertura ad un universo surreale che convive con il bisogno di realtà: il paesaggio che si disegna dentro la mela, e prosegue quello descritto in esterno, l’aquila imprigionata in una borsetta trasparente di puri fili intrecciati, configurazioni che creano una realtà tra invenzione e sguardo, attraverso cui Ghidini tende a definire la sua visione poetica. Attento e preciso, elabora alcune figure, come la cordicella biancorossa che diviene la sua firma; elabora soprattutto una tipologia di relazione, tra primo piano e sfondo, che ha il sapore di una rivisitazione raffigurativa di natura teatrale.
Dagli anni ottanta si è liberato dagli ultimi schemi espressivi di derivazione geometrica; il pittore si sente libero di affrontare con i ritmi della fantasia i giochi dell’immagine. Rimane lo sfondo delineato sui ritmi dei quartieri urbani, rimangono le sovrapposizioni e le frantumazioni nell’organizzazione dello spazio, che viene sempre più a delinearsi come una costruzione per frammenti; come se la trasposizione poetica potesse vivere solo attraverso accostamenti improvvisi di figure e bagliori.
La pennellata si è fatta sapiente; l’artista oscilla tra momenti di una pittura colta, senza sbavature, a momenti in cui la stesura pittorica sembra farsi di nuovo carico della materia, e la pennellata trasferisce sulla tela, ad un tempo, grumi cromatici ed emozioni. L’evoluzione e l’uso diverso di due forme è alternanza oculata; quando l’iconografia ha bisogno di una differente e più personale tensione emotiva, scatta la scelta materia. La pittura di Ghidini non è solo un fatto stilistico; muta lo stile, mutano le procedure, muta il tono complessivo della rappresentazione, con il crescere della libertà espressiva, in cui la componente fantastica viene sempre più ad assumere un ruolo simbolico: sogni, viaggi della mente, incontri, aperture.
2. La mostra che presentiamo costituisce una sorta di piccola antologica dell’ultimo decennio produttivo del pittore di Cellatica. Come per tutti coloro che giungono alla pittura per un talento naturale e una notevole volontà individuale, la scelta poetica arriva dopo anni di sperimentazioni; sono ormai lontane le uscite e le sedute con Giuseppe Mozzoni, lontano il bisogno di provare, riprovare e provarsi, la necessità di saggiare esperienze nuove, mantenendo i contatti continui con i lavori già terminati. La maturità si manifesta con rinnovate possibilità di pittura, negli anni di passaggio tra l’ottanta e il novanta. Si condensano e si riversano sulla tela i segni del suo lungo percorso; ma la continuità operativa, il maggior tempo di riflessione, tutto concorre a mutare, accelerare si stava per scrivere, la dimensione poetica della sua iconografia. Che sembra voler sintetizzare tutta la storia del pittore, per rivolgerla in direzione ancor più fantastica, surreale, si è scritto nel titolo, e non casualmente, tra i riferimenti colti della sua pittura si sono intravisti autori come Baj o Viviani.
Alcuni elementi narrativi diventano il volano di questo suo nuovo modello espressivo, in cui Ghidini mantiene e conserva, firma oltre la firma, la cordicella biancorossa che ha segnato tutta la sua storia iconografica. Diviene dominante la presenza del vaso di fiori, cui si affianca il paese, l’adagiarsi compatto e rinserrato di un angolo abitato, in cui le case sembrano assumere il valore evidenziante dell’essere nel mondo dell’autore; case e animali sovente collocati in un contesto che ha il sapore sottile dei colli della Franciacorta, costituiscono l’altra faccia dell’uomo che Ghidini rappresenta solo per frammenti, quando non addirittura come manichino. Si direbbe che Ghidini non voglia parlare dell’uomo e si accontenti di parlare delle cose che sono parte dell’uomo ed entrano nella storia e nelle fantasie che racconta perché dell’uomo costituiscono la proiezione.
La scena tende sempre più a svuotarsi; con il passare degli anni rallentano le immagini e aumenta il peso delle lisce campiture di colori solari; come se il pieno fosse costituito solo dalle case affastellate, aggrappate le une alle altre, dai colori vivaci a denotare un’interiore vitalità; per contro, i fiori vengono sempre più assumendo un ruolo simbolico, mutano nei colori e sovente nelle forme, si declinano sulla tela con figure a cuore, quasi a documentare che il viaggio dell’occhio, il viaggio della pittura è sempre anche un viaggio dell’anima; nella maggior maturità e sicurezza acquisite, Ghidini non esita a scrivere parole sulle case dei suoi paesi, ad utilizzare il segno grafico per aggiungere simboli alla complessa simbologia narrativa che pone in campo. Tutto il mondo fuori di sé contribuisce a costruire quella proiezione in cui sembrano riversarsi le sue tensioni artistiche.
L’opera tende a scomporsi in più immagini, per cui la raffigurazione si trasforma in una sorta di quinta teatrale, in un fondale di scena che suggerisce contemporaneamente indicazioni diverse. Non è un quadro nel quadro, ma la magia di un racconto continuo, che vive solo sulla spinta e sulla forza dell’immaginazione; sono i paesaggi urbani, dove alberi crescono sui tetti, sono paesaggi che indicano percorsi im-possibili, scale collocate là dove non dovrebbero essere, ma senza insistere più di tanto; tanto naturali nella loro irrealtà, che ci sembrano necessariamente così. L’opera perde la fissità statica della raffigurazione; ogni cosa è dove la vediamo, ma potrebbe anche essere collocata altrove. Sono riquadri di borghi urbani che sconfinano in campi aperti, sono ciminiere fumanti in luoghi in cui non dovrebbero essere, alberi smisurati che crescono più alti della case e fiori che sembrano appartenere ad un paese che non c’è.
È forse l’isola della fantasia quella che cerca Ghidini; cerca i cespugli, le case, i soli (o le lune) in un cielo che non è mai rannuvolato; al massimo presenta nubi, calde di bianchi luminosi come lune affusolate. Come nelle iconografie di Magritte, anche in Ghidini accostamenti che ci scompensano e ci fanno sobbalzare, cieli notturni che chiudono paesaggi diurni e solari, monti che sembrano uscire dalle case, per completare lo sfondo scenico di una piazza, che una divisoria netta ha trasformato in mare lontano.
Accostamenti. Vertigini. Visioni.
Il mondo in cui Ghidini ci conduce è un universo parallelo, in cui il suo volto dialoga con quello di Van Gogh, in cui la realtà di un paese che potrebbe essere il suo borgo, dialoga con gli spazi di una realtà che sembra allontanarci, passo dopo passo, dal quotidiano. La quotidianità c’è nelle cose; sovrastata da un’immaginazione che non vuole raccontarci quel che possediamo già, ma aprirci una finestra su un mondo possibile. Quello stesso che si muove dietro i suoi vasi, come se da una finestra Ghidini potesse leggere un mondo amato. Per questo i suoi fiori sono riflessioni sulla vita, trottole impazzite o paracaduti, aculei pungenti o coni aperti, che hanno l’immagine dei fiori carnivori che catturano insetti. Dietro la pittura, dietro lo smalto dei colori gioiosi, c’è sempre una qualche domanda che ci riporta a casa; la quotidianità è nelle riflessioni.
La recente produzione condensa una vita di scelte progressive; Ghidini utilizza i colori con sicurezza, così come impagina, con libertà e certezze, il suo mondo; mondo che frantuma in riquadri, per rendere e unificare la complessità del reale, su cui innesta i frutti dell’immaginazione. Anche la pittura si è adattata al sogno, piena di suggestioni e di riferimenti colti. Va a mano libera (a mente libera) l’artista bresciano, con i suoi simboli racchiusi da pennellate piene di colore e tuttavia stese e pulite come un’immagine ritagliata. Non servono sbavature per portare i frutti della mente, trascrivere sulla tela ad un tempo sogni e memorie, mescolati assieme.
Perché ogni riflessione poetica, dopo averci condotto per mondi irreali ci riconduce, con qualche piccolo suggerimento, alla banalità quotidiana; e riconosciamo le case, le ciminiere, l’albero arrotondato dall’abile mano del giardiniere, i simboli sentimentali di un paesaggio che non compare in una sfera di vetro, ma in una forma a cuore a ricordarci le nostre fragilità.
Mauro Corradini
Pier Luigi Ghidini
Bresciano del 1944, Pier Luigi Ghidini vive da anni in Franciacorta, ma lo splendido paesaggio che circonda il suo studio non sembra averlo apparentemente influenzato. In realtà così non è: nelle sue singolari visioni surreali trapela un forte senso “ecologista” e il concetto di Natura risulta in lui preponderante. Lasciando sedimentare le fasi di un’attività quasi quarantennale, che dalle origini postimpressioniste è passata attraverso esperienze “metafisiche”, neo-cubiste e surrealiste, nell’ultimo triennio Ghidini è approdato ad un’originale maniera in cui convivono questi stilemi, ma come “prosciugati” e reinterpretati da una sintesi estrema. Anzitutto ciò avviene grazie ai compositi mezzi tecnici, che alternano gli ormai tradizionali colori acrilici (su tela e su tavola) con una sorta di affresco, realizzato con sabbie e collanti che non si alterano, assieme ad una preparazione con gesso, la quale suggerisce fortemente l’impressione di un muro scrostato.
Imprevedibile, inquieto, perennemente insoddisfatto, Ghidini costruisce il suo mondo estetico (e il suo messaggio etico) usando una serie di elementi iconografici peculiari, che diventano riconoscibilissimi simboli. Anzitutto, la “permutazione”, ovvero il filo telefonico bicolore, che appare come una sorta di perturbante elemento tecnologico, una piccola minaccia che disturba l’equilibrio secolare della Natura. Quindi la pera verde, ossia acerba, in cui la circostanza che il frutto non sia ancora maturato fa sperare che esso possa salvarsi dall’inquinamento. All’interno di grandi pere, viste come emblema delle perfette forme naturali, quasi come l’uovo di pierfranceschiana memoria, s’intravvedono lillipuziani paesaggi racchiusi entro un contorno, una sagoma periforme. E, poi, fiori dai gambi “discendenti” (papaveri, bucaneve, anemoni, girasoli), marmitte fumanti, farfalle e pesci stilizzati in modo primitivistico, quasi come nelle pitture rupestri. Infine, dovunque compare l’occhio del pittore: una sineddoche che diviene ironico autoritratto.
Per delineare il suo singolare mondo espressivo, un po’ botanica dell’immaginazione, un po’ S.O.S. ecologico, Ghidini si serve di una tavolozza impeccabilmente giocata su toni bleu, verdi, gialli, grigi, di un segno “cloisonnè” e di una memoria colta, che evoca Man Ray, Picasso, Corneille, Buffet, Kandinsky, Klee, Mirò, Alberto Martini. Tutto questo assieme al ricordo di gite al mare, sui colli lombardi, al lago di Garda, sulle montagne del Trentino: paesaggi sospesi, ritagliati, reimpostati prospetticamente e sovrastati talora da un poetico quanto bizzarro “bestiario”. Ghidini li percorre con i piedi tronchi (altro simbolo ricorrente): viaggi onirici che diventano “possibili” solo per chi osserva con attenzione i suoi intriganti dipinti.
Lucio Scardino
Ferrara, dicembre 2000
Inaugurazione: Sabato 18 maggio, ore 17.30
Galleria "Arianna Sartori"
Via Cappello 17 Mantova
Orario di apertura: 10.00-12.30 / 16.00-19.30. Chiuso festivi
Ingresso gratuito