L'artista ha scelto il cemento come espressione del suo linguaggio artistico. Per oltre cinquant'anni, combinando ferro e cemento, ha costruito forme, oggetti, che vivono di vita propria.
Giuseppe Uncini (Fabriano 1929 – Trevi 2008) ha scelto il cemento come espressione del suo linguaggio artistico. Per oltre cinquant’anni, combinando ferro e cemento, ha costruito forme, oggetti, che vivono di vita propria. Che si collocano nello spazio con assoluta autonomia e grande forza espressiva. Invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia del 1996, le sue opere sono esposte nei principali musei italiani e internazionali e sono entrate nelle più importanti collezioni pubbliche e private. Prima di essere folgorato sulla via del cemento, Uncini lavorava con le terre.
Ogni genere di terre, dalla sabbia al fango delle pozzanghere. Le raccoglieva per strada, le preparava e le stendeva su tavole di masonite e poi magari un po’ di catrame e un po' di carbone, tanto per dare un tocco di colore. Qualche volta usava anche la cenere che produceva in abbondanza la vecchia stufa a legna dello studio. “Volevo fare il pittore e la mia intenzione era fare dei quadri. Ma non funzionava. Li sentivo falsi. Erano solo la rappresentazione effimera di una idea”, raccontava. Lui voleva fare qualcosa di "vero, di concreto".
Costruire oggetti che vivessero di vita propria, Che occupassero da soli tutta la scena, senza bisogno di effetti speciali o di mediazioni interpretative. Con questo pensiero fisso, un giorno, quasi per caso, entrando in una rivendita di materiali edilizi ebbe la folgorazione: usare il cemento. “All'inizio tendevo a usarlo come adoperavo le terre. Ma continuavo ad essere insoddisfatto". Poi la grande intuizione, improvvisa, irrefrenabile: "usare il cemento eliminando il supporto del quadro per costruire un oggetto autoportante, autosignificante".
E così Giuseppe Uncini ha imboccato la via del cemento scoprendo, sperimentando man mano, da bravo carpentiere in erba, le tecniche per armarlo con il ferro e per iniziare a progettare e costruire i suoi lavori. Questo accadeva verso la metà degli anni 50: era il periodo in cui, allo stanco dibattito tra i fautori del realismo e quelli dell'astrazione, Burri e Fontana contrapponevano le alternative della materia e dello spazio. Uncini ha un debole per Burri, ma resta della sua idea. Nel lavoro del grande artista umbro non lo convince lo scarto tra materia e forma, tra processo e risultato. Non corrisponde alla sua ricerca. "Quando cominciai a usare il ferro e il cemento la scelta di queste materie non fu determinata da interessi espressionistici o materici, ma solo come mezzo per realizzare un'idea". E l'idea era sempre quella, un'idea fissa, quasi un’ossessione: voleva costruire, strutturare.
Primocementarmato del 1958-59 rappresenta il passaggio definitivo di Uncini verso la forma dove processo e esito coincidono: una struttura di cemento grezzo rinforzato da rete e ferri, dove però è ancora presente una memoria di pittura alla base. Memoria che col tempo è andata praticamente scomparendo, quasi rifiutata dal cemento, come un corpo estraneo. "Finalmente costruivo l'oggetto e, lasciando a nudo tutti i procedimenti tecnici del suo farsi, riuscivo a porre il primo punto fermo nell'iter del mio lavoro. Cioè non ottenevo più un 'quadro rappresentante' ma un 'oggetto autosignificante': insomma realizzavo l’idea che il modo tecnico fosse il concetto e il concetto il modo tecnico". Fino al 1961, quando tiene la prima personale alla Galleria L'Attico, Uncini approfondisce la ricerca sui Cementarmati. In un articolo del 1998 Adachiara Zevi descrive così quel periodo dell'artista: "E una straordinaria stagione creativa: nelle opere, tutte rigorosamente con lo stesso titolo, l'esito coincide con il suo processo, lasciando la materia scabrosa e corrugata, mentre i ferri si contorcono e piegano, s’infilzano liberamente nel cemento per fuoriuscirvi ancora più sofferenti.
La costruzione non è frutto di progetto ma di processo. Già nei Cementarmati del '62, però, l'artista intraprende una strada diversa, che privilegerà nel percorso successivo: in essa il progetto vince sul processo. Se infatti i ferri si raddrizzano e dispongono non più a caso ma a formare tralicci, il cemento si riduce e si leviga; gli esiti sono certamente lucidi e rigorosi ma a essi manca il fermento e la vibrazione della materia. Dal '67 alla fine degli anni Settanta l'attenzione si sposta sul tema dell'ombra, sul problema di come dare consistenza al vuoto: preso un oggetto, porta, finestra o sedia, Uncini lo riproduce fedelmente con un profilo di ferro che prolunga nello spazio per circoscriverne l’ombra. Inizialmente un limite posto al vuoto. Quell’ombra tenderà poi a solidificarsi, a diventare essa stessa il soggetto. In alcune opere del 1969, Uncini allarga la cerchia dei materiali costruttivi, includendo il mattone con cui erige muri, archi, cloache, appesi al muro o liberi nello spazio, naturalmente con l’ombra. In questo alternarsi tra parete e spazio, tra bidimensionalità e volume, nel '79 è la volta della parete, su cui appende Dimore.
Opere bidimensionali dove i rimandi sono le voci dell’architettura: gli archi, le lesene, le paraste sempre con la loro ombra portata si esplicitano come luogo della memoria dirà G. M. Accame in un saggio del 1990, ove “la concreta precisione della fattura non inganna, anzi, accentua la sua vera condizione, che è quella di essere il segno di un confine”. Quando nell'82 sottrae alcune porzioni di cemento per sostituirle con tralicci di ferro, Uncini annuncia una nuova uscita nello spazio. Gli spazi di ferro combinano quinte di cemento con intrecci fittissimi di ferro che determinano lo spazio che intercorre tra un solido e l’altro, vere e proprie costruzioni che alternano il pieno alla trasparenza. Nel 1993, tornato alla parete, Uncini inaugura una felice stagione creativa. Come nei Cementarmato del '59, negli Spazicemento la materia assurge a protagonista; pur non scabrosa come allora, reca tuttavia le tracce del processo di lavorazione.
Se però i Cementarmato erano 'oggetti autosignificanti', le forme di cemento, ritagliate in foggia irregolare, giocano oggi illusionisticamente contro il piano di fondo, la parete stessa incorniciata in modo aperto e dinamico da tondini e ferro". Il dialogo tra progetto e gesto, tra pittura e struttura di Giuseppe Uncini, iniziato alla fine degli anni ’50, si è sviluppato per oltre mezzo secolo con un’evoluzione artistica sorprendente da cui è nato un percorso artistico di inconfondibile autonomia. E quel piccolo grande uomo che si fermava a guardare i ponti delle autostrade per riprogettarli mentalmente e farli diventare opere d'arte, "se non lo sono già", ha continuato fino alla fine a pensarla come allora: "la mia preoccupazione quotidiana – ripeteva spesso - è quella di fare, di costruire, di pensare mentre costruisco e viceversa. Mi è sempre interessata la disciplina storica del costruttivismo, però la mia attenzione è diretta ai gesti primari dell’uomo, a tutti quei congegni base che costituiscono l'embrione della costruzione. Mi interessa il desiderio dell’uomo di costruirsi la propria dimora, l'azione del contadino nello squadrare il campo per la coltura. Tutte azioni che vengono dirette da leggi ben precise, frutto di un pensiero e di un calcolo che determinano anche una estetica".
Inaugurazione: sabato 1 giugno 2013 ore 18
Galleria Cardi Pietrasanta (Lu)
via Padre Eugenio Barsanti, 45
Orari della galleria: lun - dom 11-13 e 18-22
Ingresso libero