Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC
Lissone (MB)
viale Padania, 6
039 2145174 FAX 039 461523
WEB
Sette mostre
dal 13/9/2013 al 12/10/2013
mar-ven 15-19, gio 15-23, sab e festivi 10-12 e 15-19
039 7397368

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Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC




 
calendario eventi  :: 




13/9/2013

Sette mostre

Museo d'Arte Contemporanea di Lissone MAC, Lissone (MB)

Inaugurano al museo le mostre personali di Ettore Tripodi, Lorenzo Piemonti e Umberto Chiodi; la doppia personale di Francesco Fossati e Andrea Magaraggia, la mostra di design Readesign#3, la mostra 'La scultura interroga la scultura' con un'opere di Giorgio de Chirico e una di Francesco Sena messe a confronto e la seconda puntata di 'In vitro' con opere di Anton Kehrer e Igor Eskinja.


comunicato stampa

Francesco Fossati e Andrea Magaraggia
Displace
14 settembre - 13 ottobre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

Pur essendo accomunati dall’uso disinvolto di materiali eterogenei, gli esiti formali di Francesco Fossati [nato a Carate Brianza nel 1985; vive e lavora tra Milano e Macherio] e Andrea Magaraggia [nato a Vicenza nel 1984; vive e lavora a Milano] differiscono in modo sostanziale. Fossati si destreggia tra i linguaggi dell’arte, sottoponendoli a una lenticolare disamina che ne incrina o ne riqualifica le premesse. La sua ricerca è incentrata sulla possibilità di creare un collante tra elementi difformi che trovano coesione sul piano formale e storicistico. Mediante una sedimentazione temporale e materiale, Magaraggia giunge invece a formalizzare un oggetto che si definisce attraverso una perdita progressiva, stabilendo così una tangenza tra la sua origine (dimenticata, dissipata) e la sua specificità formale (autonoma, autosufficiente).

Diversi ma non necessariamente divergenti sotto il profilo concettuale, i due artisti hanno fatto propri sia i requisiti fondamentali sia i modelli di comportamento dell’atto espositivo per interrogarsi sui codici estetici e i confini dell’arte. L’allestimento da loro concepito presuppone infatti una ridefinizione del piano espositivo mediante l’azione di “spostare” e “dislocare” le opere all’interno del museo grazie a una serie di display-divisori che impongono un ordine e una disciplina allo spazio. Anziché relazionarsi con il contesto espositivo, Fossati e Magaraggia hanno deciso di destrutturare il secondo piano del MAC di Lissone, isolando le opere dall’ambiente circostante e costringendo lo spettatore a confrontarsi con una visione che sfuma dal generale al particolare. L’impiego di prodotti lignei li ha inoltre obbligati a una modalità operativa di dialogo e di condivisione che – a partire da uno stesso modulo espositivo – si è diversificata in base all’attitudine del singolo artista.

Fossati ha insistito sulle permutazioni di elementi regolari lungo il perimetro dei propri moduli; sui pannelli esterni sono state praticate delle fessure che creano trasparenze/trapassi, suggerendo l’idea di punti di vista o di fuga. In relazione ai dispositivi da lui progettati, l’artista ha realizzato diverse sculture in terracotta, per lo più di piccole dimensioni, che sono state sezionate per lasciar intravedere i sedimenti cromatici del nucleo interno (ottenuti alternando e mixando differenti tipologie di crete che, ancora fresche, deformano il disegno originale mediante un processo di compressione). Come si evince dal tautologico titolo della serie, sono ““sculture”” che intendono ridefinire i ruoli della pittura e della scultura. Magaraggia, al contrario, instaura una relazione tra i suoi resti-reliquie e la struttura espositiva, stabilendo un contatto, una contaminazione e una compenetrazione delle forme, rendendo precario il limine di ciò che sta fuori e ciò che si trova all’interno. Strutture e sculture arrivano a confondere i propri perimetri fino a creare uno spazio nello spazio; ne risultano delle installazioni larvali che hanno espulso ogni eccesso. Attraverso continue modifiche e privazioni, Magaraggia aspira a ottenere oggetti essenziali che sono esplorazione “di quel che è per come esso si rivela”.

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Ettore Tripodi
La Città degli Immortali
14 settembre - 13 ottobre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

La Città degli Immortali, titolo della micro-personale che Ettore Tripodi [Milano, 1985] ha ideato appositamente per il MAC di Lissone, è ispirata a "L'immortale" di Jorge Luis Borges. Il racconto (scritto nel 1952 e posto in esergo a L'Aleph) narra di un fiume segreto, «che purifica dalla morte gli uomini», sulle cui rive si erge la nefanda Città degli Immortali. La struttura scostante e incomprensibile di questa città sembra il frutto di una complessità insensata - eccetto per il fatto che ogni impresa è vana. Pur rifiutandosi di descriverla, il protagonista del racconto la paragona a «un caos di parole eterogenee, un corpo di tigre o di toro, nel quale pullulano mostruosamente, uniti e odiandosi, denti, organi e teste». La mostruosità di questo luogo è talmente orripilante che «il suo solo esistere e perdurare, sia pure al centro di un deserto segreto, contamina il passato e il futuro».
E non per caso Tripodi ha deciso di creare un raccordo tra i suoi lavori recenti e quelli dell'anno precedente. Le tavole che re-interpretano con fervida immaginazione la Città degli Immortali sono introdotte da due piccole tecniche miste che appartengono a Le ultime parole di Babele, ciclo di opere che l'artista aveva realizzato nel 2012. In questo modo Tripodi sembra volerci offrire una digressione, un cambio di prospettiva che riesce a svent[r]are l'univocità e la linearità di tematiche universali. Così come accadde ai Semiti, che vollero costruirsi una torre per conquistare il cielo e colonizzare le altre lingue, anche gli Immortali di Borges finiscono per smarrire la logica e l'uso della parola all'interno di un inestricabile dedalo architettonico. La Città degli Immortali condivide con la Torre di Babele il tema della molteplicità e della confusione, congiuntura che permette a Tripodi di svelarci la "versione plurima" di una stessa storia, quella cioè di una patetica e drammatica follia che indusse i Semiti a perdere la loro identità e che costrinse gli Immortali a vivere come rozzi trogloditi.
Con la precisione di un miniaturista medievale, il tratto minuzioso dell'artista pare aderire in modo epidermico al linguaggio analitico di Borges. A dispetto dello scrittore argentino, Tripodi predilige però un ductus e un discursus non razionalizzante, tende infatti a sfuggire alle inibizioni cronologiche della narrazione per mostrarci soltanto alcuni frammenti di una storia che potrebbe non aver mai fine. Non meno importanti del disegno sono anche le cromie sature, quasi piatte, che l'artista ha usato per conferire maggiore innaturalezza ai soggetti; si vedano ad esempio le tempere azzurre che astraggono il cielo dal paesaggio, oppure i gialli intensi che connotano un deserto popolato da uomini che assomigliano sempre più a degli dèi irrazionali. Coniugando la visionarietà e vitalità onirica di Borges, le tavole di Tripodi indulgono in quella zona convulsa e incoerente che distingue l'idillio dall'incubo, rendendo concreta la città che «da nove secoli gli Immortali avevano rasa al suolo. Coi suoi resti avevano eretto, nello stesso luogo, un'insensata città [...] sorta di parodia o d'inverso [...]. Quella fondazione fu l'ultimo simbolo cui accondiscesero gli Immortali».
Con questa sua prima mostra in uno spazio museale, Ettore Tripodi marca in modo evidente i viraggi tonali delle sue ultime opere e complica ulteriormente il manierismo del disegno che appare gravido di memorie, suggestioni, simboli e codici estremamente diversificati. Elementi che lo connotano (per tenaci addensamenti) e lo sollecitano (verso atmosfere fantasticanti).

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Readesign#3
14 settembre - 10 novembre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

Prelevati dallo spazio del vissuto, i complementi d'arredo possono interrogare la nostra esistenza? Da questo quesito nasce il progetto READESIGN, il quale prende spunto dalla collezione di design del MAC di Lissone e intende mettere a confronto un autore - sia esso un critico oppure uno scrittore, o magari un personaggio dello spettacolo - con una delle sedie che hanno segnato la storia del design, rendendola protagonista di un breve testo. Il discorso, spezzato/speziato in forma di racconto o di commento, si appellerà all'arguzia e alla vivacità intellettuale dell'autore, al suo spirito d'osservazione e alla sua disposizione d'animo. A fianco della sitzmaschine ("macchina da sedere" secondo la definizione che ne diede Josef Hoffmann) sarà posizionata una macchina da scrivere, che servirà a dattiloscrivere il testo fornito per l'occasione.
LEGGERE IL DISEGNO, RACCONTARE IL DESIGN: la parola design (che è un ritorno semantico alla parola rinascimentale "disegno") significa "progetto", ovvero disegno di un'idea. Diversamente dai designer che chiamano in causa il ductus, gli autori interpellati invocheranno per sé il diritto al dilectus e alla capacità di s-piegare gli oggetti a proprio piacimento, appellandosi alla possibilità di crogiolarsi in un loisir estetico che li metta "a proprio agio", come se si stessero effettivamente accomodando sulle sedie esposte in mostra e volessero picchiettare sui tasti delle macchine da scrivere. Ovviamente Readesign non è un'esposizione concepita per sedersi ma per sedurre lo spettatore: l'arredo domestico sarà il momento/motivo scatenate per funambolici intrichi (di senso) e imprevedibili incontri (tra persone e oggetti).
Decisamente ambiguo è l'accostamento tra la Remington Ten Forty di Carl Sundberg e il Mezzadro di Achille e Pier Giacomo Castiglioni. Nel secolo scorso la Remington & Sons fu la prima azienda a produrre macchine da scrivere in scala industriale, affermandosi come indiscusso leader del settore. Tra i prodotti immessi nel mercato, la ditta di famiglia si occupava anche di macchine da cucire, diversificazione voluta da Philo, figlio dell'influente Eliphalet Remington, la cui fama è indissolubilmente legata all'omonimo fucile. Strano ma vero, una delle griffe più apprezzate dagli scrittori vide la luce negli stabilimenti di un armaiolo. Oltre alle armi da fuoco, alcuni sostengono che i Remington si occupassero persino di attrezzi agricoli. Ed è proprio un sedile da trattore ad aver ispirato il Mezzadro dei fratelli Castiglioni, suggestione rurale cui rimandano anche l'elemento ligneo alla base e la balestra in acciaio che funge da gambo alla seggiola. Fedeli alla pratica del ready-made dadaista, i Castiglioni progettarono il Mezzadro nel 1957 ma dovettero attendere i primissimi anni Settanta affinché venisse messo in produzione da Zanotta. Del 1969 è invece la Ten Forty di Sundberg; un minimo scarto temporale separa quindi lo sgabello dalla macchina da scrivere.
Interpellato a dar voce allo strano connubio, Franco Rella ha ammesso di non riuscire a decidersi a «sedere su quello scranno che si chiama Mezzadro. Mi sentirei come sospeso nell'aria, e la scrittura richiede una sorta di gravità. Ma non vorrei rinunciare di confidarmi alla Remington». A contatto con le "lettere da sparo" e una "seduta agreste", il filosofo ha confessato un timore reverenziale verso i due oggetti, si è abbandonato a memorie autobiografiche e ha ipotizzato domande che vorrebbero fare il bilancio di tutta una vita. Come un cerchio che si chiude, Rella ci esorta a interrogarci in modo plausibile sull'incipit di questo progetto espositivo: i complementi d'arredo possono interrogare la nostra esistenza?

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Lorenzo Piemonti
REGESTO CROMATICO
14 settembre - 13 ottobre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

La mostra che il MAC di Lissone dedica a Lorenzo Piemonti [Carate Brianza, 1935] raccoglie alcune delle opere più rappresentative dell'artista, dagli anni '70 fino ad oggi, assieme a un ricco e variegato corollario di progetti inediti, schizzi e studi su carta, opere grafiche, multipli ed edizioni in tiratura limitata, cataloghi, locandine e inviti di mostre, senza dimenticare i tanti ephemera provenienti dalla casa-studio dell'artista.
L'esposizione intende ripercorrere, in forma antologica e didattica, il percorso che ha portato Piemonti a maturare una disciplina pittorica incentrata sul rigore logico e matematico, permettendo ai fruitori di addentrarsi in modo inconsueto nella praxis dell'artista, ripercorrendo il concepimento dell'opera fino alla sua realizzazione. Le deduzioni (e dedizioni) percettive di Lorenzo Piemonti appartengono allo scibile del campo cromatico, sempre condiviso - in forma dialettica e diretta - con lo spettatore. Ogni modulazione, permutazione e relazione ritmica intende dimostrare un'interazione tra i colori primari e i suoi derivati, oppure per evidenziare i rapporti numerici e cromatici all'interno di un'articolazione ortogonale, e nel fare ciò l'artista raggiunge il massimo della sintesi per comunicarla con chiarezza e semplicità. Con la stessa intenzione, anche questa mostra si rivolge ai visitatori allo scopo di introdurli in mezzo secolo di sperimentazioni.
L'excursus pittorico di Piemonti si principia nel figurativo e si evolve verso un'arte concreta, che l'artista caratese matura durante un lungo soggiorno in Svizzera. La frequentazione con Max Bill gli permette di accostarsi a un'arte caratterizzata da elementi geometrici, linee ortogonali e colori primari. Dalla pittura esistenzialista degli inizi giunge quindi a un'arte essenziale che si prodiga nella costante reinvenzione delle leggi matematico-geometriche.
Il concetto della "variazione su uno stesso tema" si riscontra nei Multipli d'angolo degli anni Settanta (sagome in cartoncino fustellato che l'acquirente poteva comporre a proprio piacimento) che in mostra sono affiancati da dipinti coevi, da rivisitazioni in tessuto e dalle matrici che l'artista usava per la fustellatura. Particolare attenzione è riservata anche alle sculture, come ad esempio i Momenti tubolari, sulla cui superficie sono intagliati degli ovali a significare «un messaggio di apertura a tutto e a tutti», oppure le sculture basate sulla sezione aurea che sviluppano l'idea dalla Linea '79. Di questo periodo sono esposte alcune maquette di ambienti espositivi mai realizzati, progetti e prototipi vari.
Orientato sempre più verso l'oggetto, alla metà degli anni Ottanta l'artista realizza i suoi primi Cromoplastici, rilievi caratterizzati da linee strutturate parallelamente. Seguono quindi le Accelerazioni del decennio successivo, in cui la stesura pittorica mette in evidenza le qualità e le sensibilità del colore. Tra gli esodi e gli esiti più recenti di Piemonti viene infine ricordato il suo importante ruolo di promotore del gruppo MADÌ, affiliazione che lo esorta ad accentuare il rapporto tra il supporto-sfondo e la sagoma-scultura in primo piano.

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Umberto Chiodi
CROSSAGE

a cura di Alberto Zanchetta

Per la sua micropersonale al MAC di Lissone, Umberto Chiodi [Bentivoglio - Bologna, 1981] presenta l'inedita serie Crossage. Ogni collage è concepito come tassello di una composizione in fieri che l'artista ha valorizzato con un allestimento in cui le opere sono ravvicinate in modo ermetico, a formare una parete compatta, espressione di un progetto unitario e totalizzante.
Nel ciclo Crossage si evince lo sforzo di lottare con[tro] il flusso delle immagini nella speranza di emanciparsi dalla bulimia visiva prodotta dalla nostra società; in un'epoca invasa dalle immagini e dai simulacri, i collage dell'artista sono il desiderio informe di altre forme. All'ambiguità percettiva corrisponde un euforico collasso del significante (sin dagli esordi, la ricerca estetica di Chiodi si è sempre imposta come trasmutante e interpretante, incline all'ibridazione, alla decostruzione e alla disseminazione) che consente un trapasso dal vecchio al nuovo, dalla cultura alta a quella bassa.
Rifacendosi alla tecnica dell'intarsio, l'artista fa collimare elementi e materiali eterogenei che vengono tagliati in modo da alludere a una serie di incidenti letterali e figurati. Tutte le parti combaciano perfettamente per dar forma a immagini distorte che sfuggono al senso dell'orientamento, i soggetti sembrano infatti allignare in un ambiente alabastrino potenzialmente infinito. Anziché stagliarsi sul fondo, i collage sono intagliati al suo interno, senza alcuna velleità di realismo ma con la consapevolezza di rendere visibile un reticolo non dissimile dall'effetto craquelé o dal sistema arterioso del corpo.
I frammenti che compongono queste opere vengono impiegati alla maniera di campiture pittoriche che contengono dati visivi prelevati da vecchi cataloghi, riviste naturalistiche o album fotografici. La struttura dell'opera è in stretta relazione con le immagini di cui si compone, le quali non si limitano ad accordare al soggetto le sue cromie ma gli conferiscono insospettabili estensioni semantiche. Le fonti iconografiche recuperate si mettono quindi al servizio dell'opera, assecondando un inarrestabile flusso di rimandi che danno vita a uno sposalizio tra gli stili e i linguaggi. Tra i materiali usati da Chiodi, particolare attenzione è dedicata alle carte marmorizzate, capaci di creare macchie che vorticano su stesse. Le texture tracciate con la china si rifanno invece alla moderna segnaletica stradale così come agli ornamenti di tappezzerie démodé. Analogamente al collage, anche nel disegno traspare una doppiezza e un'ambiguità: la forma racchiude contorsioni segniche simili a schiere di piccole croci o a inestricabili cancellature, del tipo che si fanno per obliare un testo.
Il mondo naturale - citato attraverso campiture che raffigurano mappe geografiche, rocce e foglie - è vessato da elementi meccanici che lo blandiscono a guisa d'ornamento. In un libero gioco di collegamenti e contrasti, il materiale iconografico si confronta e/o si confonde continuamente, mescolando le geometrie acuminate del mondo macchinino con le dolci torniture del Liberty. Mediante una riarticolazione di elementi ereditati dalla cultura attuale e del recente passato, Umberto Chiodi ci offre una visione plurale, armonica e dissonante allo stesso tempo, frutto di una nuova coscienza del tempo e del mondo in cui viviamo.

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La scultura interroga la scultura
14 settembre - 13 ottobre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

Per Pablo Picasso «la scultura è il miglior commento che un pittore possa fare sulla pittura», Barnett Newman definiva invece la scultura come «quella cosa su cui inciampi quando indietreggi per guardare bene un quadro». Ma cosa accadrebbe se l'inciampo diventasse il fruitore delle opere che l'attorniano? Cosa accadrebbe cioè se scultura e pittura si trovassero a contrapporsi, esponendosi l'una alla presenza dell'altra? Il sarcastico Salvador Dalí affermava che «il meno che si possa chiedere a una scultura è che stia ferma», nulla vieta però di poterle accordare la facoltà di guardare la propria "nemesi".
Il ciclo La scultura interroga la pittura cercherà di instaurare dei momenti dialettici in cui una scultura possa colloquiare con un dipinto, creando così un legame tra un maestro del passato e un artista contemporaneo. Ogni scultura - figurativa e a grandezza reale - sarà posizionata di fronte a un quadro della collezione permanente, dando l'idea che le sculture siano esse stesse dei connoiseurs d'arte, assorti nella suadente allure della pittura. Le opere che nei mesi di settembre e ottobre instaureranno un rapporto di affinità elettiva sono Il cavaliere di Giorgio de Chirico (prima metà degli anni '60, carboncino e gouache su carta intelata, 22x27,5 cm) e I vinti di Francesco Sena (2010, legno polistirolo e cera, 160x50x40 cm).
Le opere dei due artisti evocano una classicità inquietante in cui i rapporti con il mondo moderno tendono a rarefarsi. La facoltà di "trovarsi altrove" rispetto all'attualità è una condizione irrinunciabile per Giorgio de Chirico [Volos - Grecia, 1888], il cui gusto estetico mescola archeologia e impianto scenografico. Il cavaliere errante e solitario del maestro metafisico monta a pelo il suo destriero bianco; le fiere posture dell'uomo e del cavallo permettono di mettere in evidenza le loro masse muscolari, esaltate dalla biacca con cui è stato sfumato il disegno a carboncino.
Ai toni diafani del dipinto si ricollega la pelle incolore, sottile e fragile delle sculture di Francesco Sena [Avellino, 1966] le quali evocano l'apparizione e la dissoluzione figurale, esito estremo delle sculture "velate" di Giuseppe Sanmartino e Antonio Corradini. L'opera sembra fare eco all'atmosfera metafisica e malinconica di de Chirico, così come ai suoi "uomini senza volto". Il mezzo busto di Sena è parvenza più che presenza anatomica, figura fantasmatica i cui lineamenti si sciolgono sotto il gravame della materia liquefatta. La scultura gronda di cera fusa, stillicidio che si raggruma in "mille rivoli" (come usa dire l'artista), trasformando le gocce in lacrime di dolore e disperazione. Al sedimento della materia corrisponde infatti anche un sentimento del tragico che riduce il soggetto all'atarassia, vittima silente di travagli fisici e psicologici.
L'eroe della tradizione greca si trova qui a confronto con il vinto della cultura contemporanea: il primo impettito e altero, non dissimile dai molti altri Dioscuri in riva al mare; il secondo sconfitto e sconfortato, preda della rassegnazione, dell'instabilità e dell'ingiustizia che lasciano il loro segno sull'incarnato esangue. Messi a confronto, il quadro e la scultura sanciscono una sorta di metamorfosi ovidiana, in cui la coscienza si frange e si logora, generando un climax a dir poco perturbante.

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In vitro#2
IGOR EŠKINJA e ANTON KEHRER
14 settembre - 31 dicembre 2013

a cura di Alberto Zanchetta

Le vetrate che si trovano al pianterreno del museo ospitano il progetto IN VITRO che sarà visibile soltanto dall'esterno, sia di giorno sia di notte, durante tutto l'anno. Agli artisti coinvolti è stato chiesto di elaborare delle immagini sottoforma di vetrofanie appositamente per il MAC di Lissone. Dopo le opere False Flag di Michelangelo Consani, The Dead Commercials di Mirko Smerdel e Osservazioni a kilometro zero: (spazio) Lissone di Matteo Capra, le vetrofanie si arricchiscono degli interventi di Anton Kehrer e Igor Eškinja.

Anton Kehrer disciplina l'immagine fotomeccanica mediante l'eloquenza del colore. Isolando ogni forma dal suo insieme atomistico, l'artista austriaco fraziona la realtà in base allo spettro romatico. Non importa che l'immagine sia la derivazione di un'installazione in un museo piuttosto che l'allestimento di un negozio, la cromacleptomania di Kehrer tesaurizza le forme della nostra civiltà capitalista senza alcuna distinzione. Intensità, combinazione e variazione sono solo alcuni tra i fattori che concorrono alla definizione di questi artificial horizons, orizzonti liquidi in cui la luminosità tende a sfumare, diluendo il contorno troppo netto delle cose. Preferendo informarsi sul mondo reale con uno sguardo non più strettamente tecnologico ma di tipo pittorialista, Anton Kehrer de-cripta l'iride, tinta dopo tinta, tono su tono, raggiungendo un "puro figurale", per estrazione o isolamento.

Lavorando per deflagrazioni e sottrazioni, Igor Eškinja giunge a un'astrazione il cui tecnicismo illusionistico interroga lo spazio circostante così come lo sguardo dello spettatore. In questa sua costante ricerca di una "forma ricostruita", l'artista croato costringe lo spettatore a trovarsi di fronte all'inganno/incanto di un mondo a due dimensioni. L'opera sfrutta un meccanismo di finzione e di alterazione della realtà tale che le infinite possibilità di vedere si restringono a una soltanto. Mediante la fotografia, Eškinja ammette di voler «concepire un'immagine che possa essere letta normalmente. Solo quando lo spettatore si rende conto di come è stata realizzata egli comprende cosa sia realmente. È proprio questo meccanismo di inversione che mi interessa. Senza una curiosità specifica da parte dell'osservatore la fotografia risulta a dir poco convenzionale».
Quello di Igor Eškinja non è soltanto un particolare modo di vedere, bensì un nuovo mondo da vedere.

Matteo Capra è nato a Brescia nel 1991.
Vive e lavora a Brescia.

Michelangelo Consani è nato a Livorno nel 1971.
Vive e lavora a Castell'Anselmo.

Igor Eškinja è nato a Rijeka nel 1975.
Vive e lavora a Rijeka.

Anton Kehrer è nato a Linz nel 1968.
Vive e lavora a Linz.

Mirko Smerdel è nato a Prato nel 1978.
Vive e lavora a Milano.

Inaugurazione 14 settembre dalle ore 19:00 - 23

MAC - Museo d'Arte Contemporanea di Lissone
Viale Padania, 6 - 20851 Lissone (MB)
Orario: martedì, mercoledì, venerdì 15:00-19:00
giovedì 15:00-23:00
sabato e festivi 10:00-12:00 / 15:00-19:00
Lunedì chiuso

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