La fotografia testimone dei tempi. Emanuela Colombo si e' interessata ad Archi, a Nord di Reggio Calabria; Ugo Panella si e' spinto in Afghanistan; Teresa Carreno ha incontrato donne in difficolta' in una casa di accoglienza a Zelo Surrigone.
L’Archivio Fotografico Italiano, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del comune di Castellanza, organizza la rassegna fotografica dal titolo: LEGALITA’ – La fotografia testimone dei tempi.
Un tema complesso affrontato con sensibilità e tatto.
LE MOSTRE, GLI AUTORI
LE DONNE DI ARCHI
di Emanuela Colombo
Il quartiere di Archi, a Nord di Reggio Calabria è uno di quei posti in cui i “Reggini del Centro” ti dicono di non andare. In effetti Archi non e’ senz’altro una allegra località marittima, pur essendo affacciato proprio sullo stretto di Messina.
Le case di edilizia popolare sono costruite su larghissime strade mal asfaltate e senza nome che incutono timore, nessuna attività commerciale (dopo l’omicidio del proprietario dell’unico bar-sala giochi del quartiere lo scorso anno), vi si affaccia e neppure il bus ferma all’interno del quartiere.
Per le larghe vie non passeggia nessuno a parte qualche ragazzo con il suo grosso cane al guinzaglio, segno distintivo dei pusher di zona. Non un bambino corre per le strade e non una donna vi si trova ferma a chiacchierare con le vicine com’e’ uso soprattutto in queste zone d’Italia.
Molti degli uomini di Archi sono in carcere, molti altri disoccupati. La maggior parte delle donne mantiene i figli lavorando in nero nelle case di Reggio (centro).
Con questo lavoro ho voluto mostrare i volti delle donne che vivono in questo quartiere e che ogni giorno devono fare i conti con la sua non vivibilità, con la lotta al degrado, con la non disponibilità di servizi, l’assenza di una vita culturale e sociale e di spazi di aggregazione. E con la criminalità che vi regna sovrana.
Ho chiesto loro di portarmi in un luogo significativo e di raccontarmi cosa vorrebbero per il loro quartiere.
Questo e’ il risultato. ActionAid lavora con le donne di Archi con il progetto “Le Donne e la Città”, promuovendo la loro partecipazione alla costruzione di un quartiere che risponda alle loro esigenze specifiche e favorendone l’inclusione nella vita sociale, economica e culturale della citta’ di appartenenza. ©Emanuela Colombo
Emanuela Colombo dopo la laurea in Scienze della Comunicazione allo IULM di Milano.
Nel 2007 frequenta il Master in "Photography and visual design" presso la Naba (Nuova accademia belle arti) in collaborazione con lo spazio Forma di Milano e Contrasto, terminandolo con la mostra e la pubblicazione "Keep the promise"(in collaborazione con Cesvi), presentata a Fotografica 07.
Dall'inizio del 2007 collabora con diverse ONG per la produzione di reportage/storie riguardanti le loro attività in Italia e all’estero. Ha pubblicato i suoi lavori su testate italiane ed estere.
LA POESIA DEL CAMBIAMENTO
di Ugo Panella
Le donne camminano veloci sulla strada e si ha quasi l’impressione di sentire il frusciare dei loro burka il cui azzurro intenso risalta nel fondo della neve che ricopre il paesaggio. Più avanti un vecchio avanza fra le bancarelle di un mercato, lo sguardo curioso e una mano forte che regge il sacco poggiato sulla spalla. Siamo in Afghanistan e Ugo Panella, gran conoscitore di questo paese che ha inquadrato innumerevoli volte nel mirino della sua fotocamera, proprio dalle persone parte per raccontarcelo. Lo fa con il garbo che ne caratterizza lo stile ma anche con quella capacità di analisi grazie alla quale fa emergere la dimensione dell’inaspettato come quando coglie una donna che, con un gesto di grande e gioiosa teatralità, solleva il burka e sorride all’obiettivo. Non è un sorriso qualsiasi: quella donna ha patito una serie indicibile di ingiustizie e di torture fisiche e psicologiche, se oggi appare serena è perché, grazie a un aiuto del microcredito, ha potuto riscattarsi umanamente prima ancora che professionalmente. Nei ritratti spesso si trovano mille indizi che aiutano a comprendere la complessità della realtà: il volto sereno del bambino che sfoggia con orgoglio un pappagallo sulla spalla, la postura seria dell’uomo mentre beve il the inquadrato in una finestra che conferisce all’immagine un forte senso geometrico, il primo piano di una donna che sorride più con gli occhi che con le labbra.
L’obiettivo di Panella si allarga fino a cogliere un paesaggio di misteriosa bellezza dominato dalla presenza di un lago o interrotto dai bassi edifici di un villaggio che interrompe la mancanza di figure umane. Poi, come a ricordare la maledizione di una terra dove basta poco per incappare in una bomba antiuomo nascosta fra le pietre, il fotografo coglie un amputato seduto in ospedale e circondato dai tanti arti artificiali utilizzati per alleviare le sofferenze delle vittime. C’è una gran voglia di normalità in questo paese che non dimentica i suoi eroi come il comandante Massoud trasformato in icona sul parabrezza di una grossa motocicletta, conosce le difficoltà del presente nella donna che per il pozzo usa una vecchia latta e nella bambina che l’acqua la trasporta su e giù con una brocca, ma sa guardare anche al futuro e non solo nell’immagine-simbolo del bambino che finalmente può far volare gli aquiloni proibiti dai talebani. In Afghanistan la parola “legalità” assume un peso specifico molto particolare perché dà un senso non retorico ad altre importanti termini come dignità, riscatto, rispetto, stima, libertà.
Le vere protagoniste del cambiamento sono però le donne: le bambine che sono tornate ad acquisire il loro diritto ad andare a scuola, la ragazza che scrive sul suo computer portatile mettendo in mostra gli occhi elegantemente truccati e, soprattutto, le donne del microcredito. La dignità caratterizza la panificatrice mentre stende il pane come fosse un tessuto, la sarta con la sua macchina da cucire, l’organizzatrice intenta ai calcoli e il cui sguardo attento ci arriva dallo specchio che ne riflette il profilo. Ma l’immagine più bella è quella di un gruppo di donne riprese in un gioco di sguardi attentissimi, forse timorosi, sicuramente decisi a scommettere sul futuro ed è bello che Ugo Panella le riprende in un simbolico controluce che conferisce alla fotografia un’atmosfera intensamente poetica.
Roberto Mutti
Ugo Panella, inizia la carriera di fotogiornalista documentando i conflitti del Centro America alla fine degli anni ’70, in particolare la guerra civile in Nicaragua e più tardi quella in Salvador. Ha raccontato la vita negli slums di Nairobi, il lavoro di migliaia di uomini che per pochi dollari al giorno, smantellano navi cargo in disuso nel porto di Cittagong in Bangladesh, la vita in un cimitero del Cairo abitato da quasi due milioni di senza tetto e che hanno fatto delle tombe la loro casa.
Il suo lavoro lo ha portato anche in Albania, Argentina, India, Sri Lanka, Filippine, Cipro, Palestina, Somalia, Etiopia, Afghanistan, Iraq.
Nel 2001, in Sierra Leone, ha affiancato l’impegno di I.M.C. (International Medical Corp) nel recupero dei bambini soldato, mentre con Handicap International ha seguito i campi profughi per i mutilati della guerra civile.
Nel 1998 è stato il primo fotogiornalista, insieme all’inviata esteri di Repubblica Renata Pisu, a denunciare in Bangladesh la condizione di migliaia di ragazze sfigurate dall’acido solforico per aver rifiutato le avances di uomini violenti. Il suo reportage è stato pubblicato dalle maggiori testate internazionali, portando all’attenzione del mondo questo dramma, tanto da costringere il governo a varare leggi severissime contro i responsabili di tali crimini.
Attualmente, in collaborazione con Soleterre, sta seguendo un progetto articolato in quattro continenti sui tumori infantili derivanti da disastri ambientali, documentando i progetti sanitari e l’assistenza alle famiglie dei bambini malati. Collabora assiduamente con Pangea onlus documentando i loro progetti di microcredito in India e Afghanistan.
Nel 2009 a Sarzana, ha ricevuto il premio al fotogiornalismo Eugenio Montale.
14 STORIE DI VIOLENZA
di Teresa Carreño
“Per molte di noi, ragazze e donne nate e cresciute in Italia è difficile immaginare di poterci trovare un giorno sole e senza soldi in una città dove non parliamo la lingua e magari non conosciamo nessuno, camminare in attesa del buio cercando di inventare un sistema per avere un tetto sulla testa e non farci travolgere dal freddo della notte. O se ci capitasse, se dovesse per un errore accadere qualcosa di simile nella nostra vita, avremmo la possibilità di voltarci, tornare indietro, estrarre il passaporto dalla tasca ed essere aiutate, assistite, nutrite e incoraggiate. A Zelo Surrigone, nella Casa di Accoglienza San Martino, ho incontrato solo donne che non hanno avuto questa possibilità. Donne come Nina una ragazza russa di 24 anni, il viso dall’espressione fragile e labbra che tremano un po’ quando racconta la sua storia, “Sono arrivata con il numero di una conoscente di amici di famiglia in tasca e un sacco pieno di belle aspettative. Tutti quelli che vengono in Italia e poi tornano a casa non raccontano la verità, forse perché si sentirebbero umiliati, ma di fatto raccontano che qui è solo meraviglia.” Nina ha una bimba di quasi due anni, Julia, lei è una delle madri di questa casa dove i passeggini, i pianti dei bimbi, i giocattoli sono sparsi dappertutto insieme ai lettini, ai seni gonfi di latte, ai bavaglini stesi in giardino ad asciugare. Zelo Surrigone è un piccolo paese della provincia meridionale di Milano, qui il parroco insieme a un gruppo di volontari ha aperto le porte di questa case a mamme extracomunitarie in difficoltà. Era il 1994. La casa è supportata tecnicamente e finanziariamente dall’Associazione Centro di Solidarietà San Martino, nel 1998 è arrivata la convenzione con l’Ufficio Minori di Milano e ultimamente è stata ampliata, dotata di un numero maggiore di camere e di spazi comuni più ampi.
“Abitavamo in una vecchia fabbrica abbandonata insieme a tanta altra gente” continua Nina “d’inverno bruciavamo il carbone per scaldarci, quella fabbrica era piena di carbone, ce n’era dappertutto e mi sentivo amata, protetta, l’uomo con cui stavo era del mio paese. Quando sono rimasta in cinta però lui è cambiato, voleva che abortissi e me ne sono andata via. Ero disperata, vagando senza meta sono arrivata al parco dove ho incontrato un signore del mio paese che mi ha portato a casa sua e lì un uomo italiano che parlava russo ha capito che avevo bisogno di aiuto e mi ha portata in un ambulatorio, da lì al consultorio dove un’assistente sociale mi ha fatto arrivare a Zelo. Qui sono diventata più felice.” In questa casa di accoglienza abitano soltanto mamme, tutte insieme in stanze da letto da due persone dislocate al secondo piano. Un letto singolo e un lettino, un altro letto singolo e un lettino, una ragazza stesa sul letto che cerca di fare addormentare il suo piccolo, un'altra che si pettina, nella stanza accanto una mamma legge un libro e un’altra scrive qualcosa su un piccolo quaderno, dalla Cina, dalla Romania, dall’Africa, ragazze che fanno fatica a comunicare tra di loro e che devono quotidianamente imparare una convivenza faticosa.
Un futuro costruito intorno alla vita di un figlio, probabilmente saranno loro, i bambini di questa casa, le decine di bambini che da qui sono passati in dieci anni, a riscattare le loro mamme da un passato difficile e intriso di belle speranze frantumate nel peggiore dei modi. Il viaggio della speranza di 14 ragazze che oggi abitano a Zelo è finito con la nascita di loro figlio, qui in questa casa la speranza si è trasformata in un porto, caldo e accogliente, da qui tutto potrà solo migliorare.
Questo un breve sunto del progetto condotto da Teresa Carreno, che con sensibilità e discrezione racconta i drammi di donne in continua corsa verso la serenità, per loro e per i propri figli.
Fotografa professionista dal 1995, Teresa Carreño è nata a Caracas (Venezuela) e residente in Italia dal 1990. Si diploma al centro di fotografia CFP Bauer di Milano e poi presso la Scuola Civica di Cinema e Televisione di Milano.
È autrice di numerosi reportage tra cui uno sulla guerra nella ex Jugoslavia, sul Kosovo, sulla violenza sulle donne. Ha pubblicato i seguenti libri fotografici: Tierra de nadie (Fundarte e Ateneo di Caracas,1994), Il gesto del dono (Electa Napoli,1998), Colori di Madre (Charta, Milano,2001), La storia di Bryan (Agorà 35, Brescia, 2003). Sue fotografie sono state esposte in Italia e all’estero. Dal 2004 ha ideato alcuni progetti di matrice sociale: OltreFamiglia, lavoro collettivo per il settimanale “Io Donna”sulla crisi dell’istituzione familiare a cura di Susanna Legrenzi; La Memoria dei Giochi progetto collettivo per le scuole elementari milanesi sul tema “gioco e integrazione” in collaborazione con la Provincia di Milano. Dedica parte del suo lavoro alla ritrattistica e alla ricerca fotografica con particolare attenzione alla condizione degli immigrati in Italia. Il suo ultimo lavoro Arte & Cronaca è stato esposto al padiglione Italia della 54a mostra internazionale d’arte di Venezia come iniziativa speciale per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia (Torino 2012) e successivamente alla manifestazione "Imagen y Cuerpos Politicos" a cura del filosofo e teorico della fotografia francese François Soulages in collaborazione con il Centro di Studi Latinoamericani Celarg a Caracas (Venezuela). Recentemente ha partecipato al progetto Milano&Oltre alla triennale di Milano a cura di Connecting Cultures (agenzia di ricerca e di produzione culturale). Le sue fotografie sono state pubblicate sui maggiori quotidiani e sulle più importanti riviste italiane .
Teresa Carreño è rappresentata in Italia e all’estero dalla Hernandez Art Gallery di Milano.
Orari di visita: venerdì e sabato 15/19 – domenica 10/12 – 15/19 – Ingresso libero
Segreteria organizzativa: Archivio Fotografico Italiano / e-mail: afi.fotoarchivio@gmail.com
www.archiviofotografico.org
Curatore per Informazioni: Claudio Argentiero T.347 5902640 / e-mail: claudio.argentiero@alice.it
Inaugurazione: 13 ottobre 2013 ore 16
Villa Pomini
via Don Luigi Testori, 14 - Castellanza (Va)
Orari di visita venerdì e sabato 15/19 – domenica 10/12 – 15/19
Ingresso libero