Ciavarella si concentra sulla parola e sulla stilizzazione del segno grafico. Paolo Basevi con "In dies" si interessa al paesaggio in pittura. Infine, personale con performance di Nobili.
Leonardo Nobili
Percorsi
Restless Soul, anima inquieta Al principio c'è il desiderio. Un movimento della volontà verso qualcosa che ci manca. Desideràre. L'etimo della parola latina arriva a de-sideràre: ci porta alle stelle (sidus, sidera). Lo sguardo e la volontà si muovono insieme. Si alzano fino a quella luce primaria - che possiamo osservare nella notte - e si lasciano guidare. Il desiderio è movimento. Forse potremmo dire, addirittura, che è la ragione prima di qualunque viaggio, di qualunque spostamento. La quiete e l'inquietudine. La stasi e la tensione. Il nulla e il desiderio. Se non ci fossero le stelle non ci sarebbe l'universo, con tutto il suo movimento, la sua trasformazione ininterrotta... Leonardo Nobili, sembra mosso da un desiderio inesauribile, dallo sguardo rivolto a un luminoso mutar di stelle. “Lo sviluppo di una tematica o di una soluzione formale per me è sempre un modo nuovo di interagire con l'energia della realtà e degli oggetti che mi circondano.” Nelle parole che Leonardo ha scelto come epigrafe al proprio sito internet è contenuta la pila atomica di tutto il suo grande e articolato lavoro d'artista: la volontà di interagire con l'energia della realtà. La realtà ha energia. Letteralmente: capacità di agire. E, sembra dire Nobili, il lavoro dell'arte si compie agendo con la stessa energia che possiamo cogliere qui e ora, in ciò che ci circonda. In effetti viene da pensare che il sistema dell'arte (viene chiamato così perché, come un sistema solare, fa gravitar pianeti intorno a una stella?) che osserviamo al presente abbia, almeno in parte, perso questa relazione primaria con la realtà.
Senza entrare nel merito dei molti racconti di questo sistema e dei narratori che si sono elevati al rango di star (stelle) dell'epica del popolo dell'arte, viene a volte il desiderio di aprire la finestra del salotto e lasciarvi affluire aria fresca. Nobili non la cerca in uno stanco rimemorar di correnti, di definizioni, di discorsi su altri discorsi. Non nel pullulare dei generi o degli interrogativi sulla legittimità della linea di demarcazione tra ciò che è arte e ciò che non lo è: il suo è un lavoro oltre confine. Ossigeno puro. Questa mostra - questa tappa a Spazio Tadini del viaggio di Leonardo – testimonia con una buona selezione di opere la sua capacità di utilizzare la scultura, la pittura, la fotografia, la performance, l'installazione come varianti della stessa energia espressiva e dello stesso impegno alla realtà. E' del tutto inutile cercare di chiudere l'arte di Nobili nel recinto di una delle tecniche impiegate – come a cercarne l'apice di eccellenza – giacché le modalità sono varianti di una stessa tensione. E' quella che congiunge figura e astrazione. Forma, rottura e nuova forma. Leonardo Nobili è riuscito a trovarla nei vetri di automobili incidentate come in quasi qualunque altro materiale “di scarto” e a far risuscitare a nuova vita i corpi del reato dell'inaudito processo di espulsione che il sistema del Consumo attua quotidianamente. Oggetti e corpi / profughi di senso, esiliati dal presente che tornano, colmi di energia, a ingravidare il presente con il seme di un futuro riumanizzato. Il corpo umano - il corpo nudo e dipinto a grandi pennellate da Nobili – il corpo del consumo – il corpo estremo che rincorre, travolto dall'ansia, qualche bellezza fittizia post-Apollinea, il corpo annullato in attualità elettrica – televisiva e facebookiana – nella quale l'eterno presente non prevede possibilità esperienziale se non precostituita dalle varianti al cubo pianificate dal fashion versione estiva e invernale e dalle luccicanze tecnoutopiche del mercato globale – torna, facendosi tela, supporto indifeso e bianco, all'attualità. A quel qui e ora senza premesse e promesse. Al big bang primordiale.
Potremmo, forse, analizzare i molteplici riferimenti che legano Nobili all'arte del secolo passato, alle avanguardie e alle correnti. Ma basti citare il legame di Leonardo Nobili con un'artista che, forse più di ogni altro, ha reso indissolubile il lavoro dell'artista da quello di chi denuncia il falso Eldorado post-capitalista: Joseph Beuys. Il senso dell'arte è funzione della sua fruizione sociale e l'opera è Opera se consente a chi la guarda di misurare percezione e comprensione del proprio stare al mondo. L'arte alza lo sguardo dalle bassure colme di nebbia delle crisi cicliche di mercato a quel cielo zeppo di stelle dove si intessono i sogni. Quelli che non muoiono mai. Quelli che muovono.
Francesco Tadini
Perfomance Crisalidi in Galleria Vittorio Emanuele a Milano il 6 novembre alle ore 11
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Paolo Basevi
In dies
Un paesaggio che non è fatto di paesaggio. Un paesaggio al quale appartengono cose che non facevano - prima - parte del paesaggio. Una pittura che non è fatta solo di pittura, ma – anche - delle stesse cose che fanno parte di un paesaggio rinnovato. Un paesaggio che si compone con la stessa libertà che si prende (e al quale viene, poi, tolta) un bambino che rappresenta, giocando, il mondo. Deve essere così, anche per gioco, che Picasso, Braque, Juan Gris, ma, poi, anche Carrà, Prampolini, Soffici, Sironi, Arp, Picabia, Duchamp, Man Ray, Schwitters... per arrivare a Burri, a Rauschenberg, a Rotella (eccetera!) hanno introdotto nei quadri le cose di ogni giorno. Quelle cose alle quali siamo portati a dare retta per pochi minuti. Quegli oggetti che stanno, costantemente, per essere dimenticati. Così indispensabili a informarci, a confezionare, trasportare, conservare, trasmettere, accettare, rifiutare e, allo stesso tempo così estranei alla grande Piramide del Bello. Pezzetti di carta, imballi, giornali, legni, plastiche, chiodi, sacchi, materassi, urinatoi, spartiti, francobolli timbrati, manifesti strappati e, persino, merda... “Il Bello dev'essere senza tempo!”
Oppure: “Il Bello è questione di gusti!” O no? O, forse, il Bello può fare affari anche con il tempo che corre – con i giorni, le ore, i minuti … - e penetrare in noi da porte segrete che non riguardano affatto la nostra predisposizione a coglierlo o il famoso,nostro, gusto? Scrivendo di Paolo Basevi, acutamente, Sandro Parmiggiani ha colto “frequentazione del paesaggio, talvolta anche urbano, reso in immagini che sempre si collocano sul crinale tra memoria e oblio, là dove quello che lui viene evocando appare per la sua stessa natura più che mai inafferrabile, qualcosa che continuamente si sottrae nel momento stesso in cui si rivela.(...)”. Forse, già all'inizio del Cinquecento, con quella Tempesta che domina la luce di un quadro, Giorgione ha saputo mostrare, nella durata di un lampo, quanto il paesaggio sia cosa mutevole, sfuggente e, quindi, più vera del vero. Giacché la vista (senso, tra i cinque, che condivide il nome con il tempo passato del verbo) ci spinge – proprio: ci muove con energia - ben oltre l'angolo di visione, più in là della temporalità dell'accaduto. Il teatro della memoria di qualunque artista – unito alla sua manualità – è il suo tesoro. E nella memoria di Paolo Basevi sono depositati in buon ordine sia le epifanie del “vissuto” che le Cronache – i fatti giornalieri, le voci che corrono, le interpretazioni. I giornali di Basevi sono paesaggio a pieno titolo: Paesaggio. Il Paesaggio secondo Basevi è afferrato insieme a quei supporti che hanno strillato le verità lunghe un giorno. I quotidiani. I colori dei paesaggi secondo Basevi dialogano con i caratteri da stampa e con le (bellissime!) testate dei giornali. Ma le verità lunghe un giorno o, meglio, la loro realtà tipografica, danno al colore dei paesaggi consistenza di realtà. Forse, come il lampo nella Tempesta di Giorgione, la cosa più vera del vero irrompe tuonando nei quadri lunghi un giorno di Basevi. Fa notare Melina Scalise, in un precedente testo critico, che nei quadri di Basevi “La spiaggia non è solo disegnata e colorata, ma è sabbia e il paesaggio non è solo colore e segno, ma è terra e anche granelli piccolissimi di frammenti di vetro”. La realtà si fa segno.
La memoria di Paolo Basevi prende materia in prestito e gioca nel giardino della rappresentazione con la stessa disinvoltura con la quale un bambino passa, sempre giocando, dalla metafora alla immedesimazione. Ciò che dico di essere. Ciò che sono. Arimortis... Che, forse, è come dire che attraverso l'arte noi possiamo compiere un lavoro che nessun altra attività ci concede: sospendendo la fine del giorno – di un qualunque giorno – e producendo il più utile dei manufatti umani: l'Opera. L'Opera d'arte è il regno del possibile. Dove la libertà di raccontare supera la certezza della fine, rimandandola. Quello che fa, ne Le Mille e una notte, salvandosi la vita, Sharāzād, di giorno in giorno… La costanza con la quale Paolo Basevi evoca incostanti lampi di memoria, moltiplicando gli orizzonti e i punti di vista nelle sue cronache dipinte, ne fa un artista che sfugge alla categorizzazione stilistica da critica accademista. Basevi, anche medico di professione, non può che sfuggire al controllo della pressione artistica da parte di certi “curatori”... Come, del resto, fu per uno degli artisti sopra citati e equipaggiato di laurea in medicina...
Per ulteriori informazioni ms@spaziotadini.it www.spaziotadini.wordpress.com
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Tonia Ciavarella
Come fogli sulle parole
La pittura per secoli, specie nella nostra cultura - meno in quella araba, per esempio - è stata uno strumento di raffigurazione della realtà con il fine di corrispondere il più possibile all’oggetto osservato. La pittura informale, concettuale e la poesia visiva ci hanno oggi abituato a un linguaggio artistico nuovo, capace di aprire un dialogo con l’osservatore meno strutturato, ma non per questo meno intenso ed emozionante. Il lavoro di Tonia Ciavarella si colloca in questa scelta pittorica ed è molto vicino alla poesia visiva. Tuttavia, osservando la sua produzione, si scopre una ricerca non solo sulla parola, ma anche sulla materia e sulla stilizzazione del segno grafico tanto da avvicinarsi al linguaggio visivo orientale: essenziale e simbolico.
Vediamo così opere in cui l’artista “gioca” con una testa stilizzata e il suo doppio. Un’attenzione focalizzata non sul corpo, ma sulla testa. Un tentativo, forse, di mettere a fuoco i pensieri oppure di mettere a fuoco la ricerca dell’identità o, forse ancora più semplicemente, una presa di coscienza del dialogo tra gli opposti: dell’inevitabilità del bianco e del nero, dell’amore e dell’odio, del bello e del brutto, del prima e del dopo. Un gioco di contrapposizione ineluttabile che tuttavia permette l’esistenza e la percezione stessa del presente, del passato e del futuro.
A questa serie di lavori si aggiungono le sculture, una sorta di libri “ingessati” fatti non per essere sfogliati, né per spiegare o per sviluppare un discorso, ma per portare solo una testimonianza. Sono icone emotive fatte di parole, di colori, di fogli di carta talmente sottili da lasciare vedere sempre e volutamente oltre il segno, oltre la materia. La maggior parte di queste sculture racchiude, con i suoi legacci, pagine che, a loro volta, nascondono legni, ciocchi di robusti, stagionati, pesanti legni. Impossibile non immaginarli come certi pensieri che rimangono ancorati nella nostra mente, come macigni, come travi portanti della nostra vita fino a dimenticare la loro origine verbale: perse le parole, nel segno e nella fonetica, conservano il loro senso e si trasformano in struttura, in forma mentis.
È così che scopriamo quanto il rapporto tra la parola, il suo segno, il suo significante e la materia, per Ciavarella sia un tutt’uno. L’intera opera dell’artista è un diario di viaggio raccontato con un linguaggio personalizzato in cui domina la vastità del bianco, del suo bagliore, e dei suoi spazi, dei suoi vuoti e dei suoi orizzonti tanto infiniti da poterli paragonare solo a quelli che si lasciano osservare davanti al mare quando incute timore.
Il bianco, infatti, è il colore prediletto dell’artista. Lo accompagna solo con pochi altri cromatismi, comunque appena accennati: il nero, il giallo, il rosso e l’azzurro. Sono del resto questi i colori che più simboleggiano la spiritualità, la passione. Quando questi colori sono presenti nei lavori di Tonia Ciavarella le frasi si scompongono in parole e poi in segni, fino a diventare frammenti, grovigli, spirali tormentate nel segno e nello spazio alla ricerca di una collocazione nello spazio bianco. In alcune opere, dove sono presenti queste espressioni segniche, il rosso è dominante e colora sempre il fulcro della spirale, a confermarne, simbolicamente, una pena. Nella composizione di questi lavori troviamo spesso la presenza di altri punti di osservazione che sbilanciano e creano punti che accentrano l’attenzione a se stanti. Quest’ultimi sono diversi per natura e per scelte materiche e hanno un segno composito, tanto da diventare incasellamento del segno e della parola. Il più delle volte, sono rappresentate in forme rettangolari di colore giallo che richiamano i parallelepipedi “delle sculture libro”. Queste forme sembrano dei veri e propri incasellamenti strutturali del pensiero, contenitori preposti pronti ad accogliere la soluzione del “groviglio emotivo”, in attesa, come soldati, di ristabilire un ordine, anche se precario. Una provvisorietà che è anche fragilità tant’è che nelle opere di Ciavarella troviamo spesso dei rammendi, come garze su una ferita: così stanno i fogli sulle parole. Tuttavia, che sia su un foglio, una lastra di gesso o un legno di salvataggio, l’importante per Tonia è evitare che le parole scompaiano o muoiano. Per questo vengono catturate, cucite, incollate anche su zattere improvvisate in assenza di bottiglie spiaggiate, forse perché le tempeste passano e ciò che resta può avere un senso solo se rimangono delle parole per raccontare.
Melina Scalise
Per ulteriori informazioni
Ms@spaziotadini.it
Cell.3664584532
Inaugurazione 6 novembre ore 18.30
Incontro con l’artista 9 Novembre 2013 ore 17
Spazio Tadini
Via Niccolò Jommelli, 24 Milano
Orari apertura: martedì–venerdì ore 15.30-19 o su appuntamento