60 opere: disegni, dipinti, sculture e un video dal quale traspare la dedizione personale dell'artista sul tema al cinema.
Segno, Cinema e Colore è il titolo della Personale del Maestro Natino Chirico, a cura di Miriam Castelnuovo, dedicata al mondo del Cinema attraverso 60 opere: disegni, dipinti, sculture e un video dal quale traspare la dedizione personale dell’artista su questo tema. La Mostra nasce in collaborazione con l’Associazione Bambino Gesù Onlus che festeggia 10 anni della nascita e alla quale l’artista devolverà parte del suo ricavato. Il Maestro realizzerà alcune opere in collaborazione con i bambini dell’Ospedale.
LA MIA VITA E’ DENTRO UN FILM - Testo critico di Miriam Castelnuovo
Sono diversi gli elementi che aiutano a comprendere quale sia stato nel susseguirsi delle varie
vicende della vita di Natino Chirico – e che lo hanno portato ad affermarsi in Italia e all’estero -
l'elemento evocatore del particolare legame tra questa fervida personalità e la Storia del Cinema.
Un'Arte anch’essa, il cui valore aggiunto risiede nel suo essere espressivamente eclettica,
esattamente come l'aspetto più sensibile del carattere di quest’uomo, quando ancora molto giovane
riscontra nel mondo del Cinema gli elementi affini alla sua indole e ai quali dedica studi
approfonditi e quindi gran parte del suo lavoro, a partire dall’anno 2000 sino ad oggi.
Cinema significa prima di tutto movimento così come l'ideale di ogni artista è il raggiungimento
dell'arbitraria facoltà dell'esprimersi attraverso il proprio segno libero.
Cinema significa conoscenza, approfondimento, cultura, intuito nel saper cogliere nei luoghi e
attraverso lo scorrere del tempo le situazioni che ci circondano, che ci influenzano, esasperando i
nostri umori: dall'esaltazione alla depressione degli stessi.
Cinema infine significa per Natino Chirico saper cogliere i moti e le relazioni umane, semplici e
sottili a contrasto con gli imponenti e soffocanti scenari scenografici della realtà cinematografica,
così come all'opposto, il voler ritrovare emozioni vissute nella semplicità di certi luoghi, senza il
pericolo che ne vengano contaminate la ricchezza e le ancora più fragili profondità di contenuti.
Vi è una similitudine, un coesistere attitudinale, tra l'essere regista e l'essere artista: nel porre la
propria attenzione in ciò che si cerca di realizzare a 360°, consapevole in entrambi i ruoli di dover
sottostare all'incognita nel calcolo delle probabilità, che l'opera riesca compiuta al primo tentativo, o
forse no.
Natino Chirico si pone di fronte alla sua opera con occhio preciso e attento come di un disegnatore
di epoca rinascimentale, pur consapevole che presto quel suo stesso segno preciso e lineare
diventerà parte integrante del caos cosmico di cui si è tutti partecipi, scegliendo quindi di alleggerire
il proprio tratto, allontanandosi via via dal riferimento al classico di cui è figlio, per appropriarsi di
una matrice nuova e inedita pur sempre mantenendo lucidi riferimenti a quella paternità.
Il forte senso materico che adesso acquistano le sue opere, in particolare i ritratti di icone
protagoniste del cinema italiano, è talmente vivo ed eloquente da ridare loro la parola attraverso
l'arte. In questo modo l'opera di Natino Chirico appare completa quanto la narrazione di un film,
adesso non più muto, esattamente come le pellicole a cui si ispira per ritrarre uno tra i tanti
personaggi noti del cinema a lui cari: Charlie Chaplin. Charlot, questo il nome riconosciuto da tutti,
il clochard con la sua piccola bombetta, i baffetti corti e sotto i pantaloni larghi quegli scarponcini
dai lunghi lacci con i quali ha perfino immaginato di potersi sfamare. Questo il vagabondo
anglosassone che diventa nei ritratti di Natino oggi come allora, un riferimento sulla dura esistenza
degli umili, dei vinti, della gente comune che vive di stenti.
Una figura emblematica, raccontata da Natino Chirico sorpresa a giocherellare con il suo bastone di
bambù dal quale è inseparabile; “né eroe né santo”, una condizione condivisibile dalla maggior
parte dell’umanità e a cui l’artista si rivolge. Pertanto la Mostra che qui siamo lusingati di poter
presentare nell'ambito del Festival del Cinema di questa edizione del 2013, documenta come da un
cammino inizialmente difficile nel distinguere l'elemento scaturente con cui Natino Chirico ha
connotato gran parte della sua opera, diventa adesso semplice e lineare, esaminando una ad una, le
principali tappe dell’intero corpus presente in questa esposizione: partendo dal disegno da cui
nascono, nella capacità di evocare quel senso di movimento di cui si nutrono, sino ad arrivare a
rendere immortale la memoria storica di alcuni dei protagonisti più noti del mondo del cinema,
attraverso la tecnica del ritratto e con maggior vigore di quanto sia in grado di preservare nel tempo
la pellicola cinematografica. Attraverso le opere di Natino Chirico, riviviamo infatti celebri frame
girati da registi come Federico Fellini o Roberto Rossellini. Da quest’ultimo e dalla sua pellicola
“Roma, città aperta”, Natino Chirico trae ispirazione nel riaffermare un altro pezzo di storia
cinematografica, che vede il suo culmine nella realizzazione di una scultura in plexiglass. In
quest’opera l’artista ritrae tutto lo sconcerto di Anna Magnani e delle sue ultime grida disperate,
mentre rincorre il suo “Francesco”, evocandone la desolazione più profonda, pari nella propria forza
espressiva solo a quella del celebre capolavoro “L'urlo” di Edvard Munch (1885).
Che vi sia un solo Ciack capace di cogliere il segno nella vita di ciascuno di noi, o viceversa, che il
primo sia invece l'inizio di altre numerose ed identiche riprese, è l'esatto ripetersi in cui si imbatte
l'artista nell'esaminare le molteplici sfaccettature che un solo soggetto, con una sola espressività, è
in grado di comunicare all'esterno.
Natino Chirico forse non sa che la fatalità del proprio successo è legato al filo sottile della fortuna,
così come al meritato riconoscimento del proprio talento da parte di quel pubblico capace di
influenzarne le scelte tematiche, soprattutto nel suo ricercare quel reiterarsi seriale per uno stesso
tema. Proprio come il pubblico cinematografico che davanti ad una pellicola vincente, finisce per
decretarne la continuità nel tempo, dando consistenza a quelle “Serie” che proprio con questo
appellativo, si son poi notoriamente ripetute nel corso della storia del cinema.
Tutto questo meritato acclamarsi di umori dall’esterno, è la risposta naturale di fronte all’uomo
artista la cui arte ne è elemento imprescindibile, esattamente come se tra i colori della tavolozza
Natino Chirico avesse voluto mescolare anche la sua anima. Eppure, così come un amore non
potrebbe durare tutta la vita senza il supporto di raziocinio, anche l’arte che nasce dal cuore, deve
sostenersi su delle basi ben solide e costruite su idee valide, in modo da poter garantire una celebrità
senza tempo. Ecco dunque osservare Natino al lavoro, mentre opera dall’interno, dal suo intimo,
subordinando il dato fenomenico a quella condizione interiore che gli è prioritaria rispetto al
momento creativo: egli supera intenzionalmente l’illusione del vero e di esso l’aspetto fotografico
del reale, nel suo credere ed affermare che la realtà non può essere rappresentata come tale, se non
già vissuta di prima persona e analizzata dal proprio pensiero. Natino Chirico prima di creare
ripassa a mente, come davanti allo scorrere di un film, una serie di immagini, senza premeditazione:
un catalogare ininterrotto di elementi e sentimenti, input dopo input, appassionandosi sempre più ad
un tema preciso ma che, rispetto all’opera terminata, finirà con il rivelarsi tutta un’altra storia,
inevitabilmente. Egli infatti procede sostituendo agli elementi puramente formali di un’opera, il
proprio messaggio scaturitogli dall’Idea, così condizionando a priori ogni esteriore preminenza di
contenuti: si può scegliere di vivere più o meno intensamente, ma se si rinuncia a riflettere sulla
propria esistenza così come non si riesce a soffermarsi davanti ad un quadro per cercare di trarne un
senso, un pericolo esiste: quello di perdersi qualcosa.
Un concetto già affrontato un quindicina di anni fa dell’antropologo italiano La Celca nel suo libro
“Perdersi” ove egli denuncia la perdita cognitiva di certi punti di riferimento fondamentali per la
crescita di un uomo. La Celca partendo dal concetto di centro urbano, sempre più deturpato dal
punto di vista architettonico, per opera di “coloro che sono ancora impastoiati in tutte le presunzioni
di una pseudoarte e di una pseudoscienza” estende la sua teoria sul piano del sentimento, accusando
questi di impedire all’umanità il riaffermarsi di un proprio habitat culturale: “ (...) continuano a
pensare alle proprie opere, come ad imponenti imprese pubblicitarie, come spettacoli da offrire ai
cittadini come ricordo di sé stessi e della propria genialità di artisti.”
Tutt’altro spettacolo, tra arte e cinema, è uno degli ultimi lavori che Natino Chirico dedica a questa
mostra “Il dolore di Anna Magnani”: con le silhouette scure dei corpi che cadono rotolandosi a
terra, feriti a morte, colti dalla medesima pellicola di “Roma città aperta” ma in un momento
successivo alle grida disperate per la sciagura di Francesco. Il dramma della guerra già narrato sui
libri di storia prima che da quella del cinema, in questo caso è raccontato da Chirico, ma non al fine
di assecondare la propria esigenza di un realismo fine a se stesso e con una narrazione pedissequa
dei fatti, ma bensì egli compie un’analisi personale che sia semplicemente comprensibile dal
pubblico contemporaneo. Natino Chirico pertanto decide di affrontare con lo spirito di un cronista
contemporaneo l’argomento più sentito, sul destino e sulla morte nell’uomo.
Le immagini scure si
scagliano verosimilmente sul materiale trasparente, il metacrilato, che egli ha scelto per simulare in
modo inedito la consistenza di una vera e propria pellicola cinematografica, quando esaminata
controluce. Questi corpi dalla resa tridimensionale, escono ad occupare lo spazio circostante,
coinvolgendo nelle loro capriole lo spettatore, quasi inducendolo a scansarsi, in una partecipazione
sentimentale prima che fisico-spaziale. Le figure vibrano sotto pennellate rapide come tocchi
trepidanti, ove il colore nero assume una forma avvolgente, sempre più dilatata e pastosa, ogni qual
volta si lasci esaltare dalla luce cangiante, a seconda che sia naturale o artificiale.
“Se da ragazzo avessi continuato gli studi di architettura, ignorando la mia attrazione verso l’arte
pura, oggi sarei stato un uomo incompleto, sarei venuto fuori come Uno strano.”
Ci si avvicina a quest’uomo in modo naturale, ci si sente attratti per empatia, per curiosità e voglia
di apprendere, perché da lui trapela un sapere senza ostentazioni. Lo chiamano Maestro perché
conosce il disegno prima ancora della materia: utilizza ancora la carta e la matita prima di
intraprendere ed escogitare nuove tecniche artistiche, adesso che son lontani gli anni in cui
sperimentava quelle definite “tradizionali”. Non tutta l’Arte è in grado di meritarsi quest’appellativo
con l’attinenza intrinseca che le spetta; e non sempre un’Arte incomprensibile è tale agli occhi di un
pubblico ignorante. Molto più spesso è Essa ad ignorare la profondità dei propri contenuti.
Un’opera d’arte è un bene che stupisca, che faccia spalancare la bocca, sbarrare lo sguardo, battere
il cuore e soltanto perché esprime l’idea di armonia in senso lato. Per questo l’opera di Natino
Chirico si può definire pura e bella, in un esatta sintonia con lo spirito con cui viene generata: fedele
a se stessa, resistente alle mode e ai loro tempi di durata, resa immortale dalla riluttanza verso quel
senso di effimera celebrità temporanea.
Il successo di Natino Chirico risale in quella che ho voluto definire il prolungarsi dell’umano nella
materia: un passaggio naturale dall’artista alle proprie modalità espressive. Non vi è tecnica che egli
non conosca, che non sappia applicare personalmente, che non germini da quelle stesse mani. Nulla
è lasciato al caso: anche il segno pastoso che si definisce astratto, diventa poi naturale poterlo
confrontare con il precedente disegno preparatorio.
Natino Chirico ogni giorno della sua vita l’ha dedicato a questo lavoro, uscendo di casa come un
tempo l’artigiano si recava in bottega, oggi nel suo studio a disegnare, a incidere, a stampare, a
dipingere, a plasmare, limare, levigare, assemblare, incollare. Mai un giorno uguale all’altro,
fortunatamente, in questo continuo, quotidiano affermarsi di unica identità tra il Maestro e la sua
Opera, nell’attuarsi di un’esemplare messa in scena senza soluzione di continuità, ove il regista è
anche l’interprete e viceversa, in modo complementare e insostituibile a compimento del miracolo
espressivo: il trovarsi davanti a questi due “elementi” tangibili e vivi entrambi.
Così nell’uomo, il
Maestro, così nella sua creatura, l’Opera, scorre la stessa linfa vitale, risultato di un medesimo
migrare dal cervello diretto al cuore e alle mani, fino al raggiungimento della forma il cui spirito
torna ad appagare gli impulsi creativi della materia grigia, che complice, è già pronta a ripartire per
una nuova creazione.
Vernissage 7 Novembre ore 19,00
Spazio Eventi Tirso
via Tirso, 14 - Roma
Orario: lun-sab 10-19
Ingresso libero