U.G.L.Y. Opere-collage sono cariche di bizzarrie dissacranti, a volte grottesche, pulite, sporche, eleganti, astratte, caricaturali, ricche di textures.
"Per Vittoria Piscitelli creare, fare, lavorare con il linguaggio dell’arte - sia esso musica, design, pittura, collage, moda - è azione necessaria per scandagliare la realtà, ma soprattutto per prendere contatto con se stessa e con le sue ossessioni.
Vittoria ha ben chiaro il suo terreno di ricerca, come ha ben chiaro il terreno dove presentarsi. Ama smisuratamente il mondo britannico: “Musica, arte, letteratura, design, pubblicità, tutto, basta che sia inglese, che sia anglosassone!”. Ama con passione (gioia/tormento) anche la moda. Ed è in questi luoghi fisici e ideali che viaggia e sperimenta. Non è un caso che le sue prime mostre si siano tenute a Londra e a Milano. Oggi è a Napoli; ma quale Napoli? E in quale momento della vita cittadina, se non quello del ‘patinato’ natalizio?
I suoi miti dichiarati - ma forse per lei bisognerebbe parlare di muse - sono Yoko Ono, “immediata, intima e spirituale”, di cui segue le Istruzioni per l’arte e per la vita; Tracey Emin, “eccentrica e scabrosa, blasfema e romantica”; Marc Quinn, “classico e levigatissimo, nonché esploratore del corpo e del mondo fisico e culturale che ci circonda”. Qualche escursione la porta poi nell’Austria di Franz West e nell’America di John Baldessari.
Vittoria Piscitelli. Miti e Mete
Tra i binari italiani intercetta Cattelan. Nel campo della moda, infine, vi è l’approdo francese: Yves Saint Laurent e Hedi Slimane. Una, infine, la Musa, l’icona ‘iniziale’ (o iniziatica?) per lei nella moda e nell’arte: Kate Moss, top model celebrata pochi mesi fa a Londra in un’asta Christie’s di opere d’arte che la vedevano ritratta. L’icona che attraversa gli scatti di Annie Liebovitz, Irving Penn, Mario Sorrenti, Juergen Teller e molti altri. La Musa immortalata, tra gli altri, da Sir Peter Blake, Corinne Day e Damien Hirst. E per Vittoria - che fa musica - l’amante del maledetto Pete Doherty, la protagonista eponima di un brano dei Baustelle, e soprattutto l’immagine scelta da Sophia Coppola per il video della band americana White Stripes I just don’t know to do with myself. La Musa, tra tutte le muse, che compare pure nei video di artisti come Marianne Faithfull, Johnny Cash ed Elton John.
Ma questo è ciò che Vittoria ci racconta, questi sono i miti/icone che ci ha voluto svelare e che riportiamo qui, seguendo le sue stesse parole; altri miti li ravvisiamo da soli, scrutando tra i suoi collage in mostra. Ed ecco che la mente non può non risalire a Linder Sterling, femminista radicale e nota figura del punk di Manchester, che si scaglia contro lo stereotipo di donna divenuta oggetto di attrazione erotico-sessuale, presentando nelle sue opere un ironico e pungente ritratto del femminile nella società occidentale post-moderna. Intercettiamo anche Angus Fairhurst, uno di quelli che passa alla storia tra gli Young British Artists, morto a 41 anni, le cui opere più note restano le sculture in bronzo raffiguranti gorilla ed i collage con pagine pubblicitarie di fashion magazines. Diversa, ma evidentemente amata e scrutata da Vittoria anche Sarah Lucas. E perché, a questo punto, non chiamare in causa anche un italiano come Gianluigi Toccafondo, artista penetrato nell’immaginario collettivo attraverso la televisione e la pubblicità, del quale si avverte una qualche ispirazione quando Vittoria interviene con il segno pittorico sulle sue creazioni?
Forti di tali rimandi (o meglio miti) visibili e invisibili, espliciti o censurati, voluti o imprevedibili, le opere-collage di Vittoria arrivano a noi cariche di bizzarrie dissacranti; sono a volte grottesche, pulite, sporche, eleganti, astratte, caricaturali, volutamente ricche di textures. Vittoria vorrebbe racchiudere il risultato finale in ciò che definiremmo UGLY. Ma non è detto sia così. Eppure è giusto che sia così per lei.
Se consideriamo, infatti, che queste opere sono un’analisi prima di tutto sul sé, sull’essere donna, o meglio sul suo essere donna tra le donne, capiamo subito che i suoi collage sono popolati da immagini oniriche, suggestioni reali quanto surreali, evocative di un passato (l’infanzia), quanto fortemente attuali, perché ancora pulsanti nel suo oggi. Sono immagini che incontra ovunque: in casa e per strada, nella vita privata e nella vita pubblica. Ma non tutti le vedono e guardano quanto e come lei.
Sono immagini che da poco Vittoria ritiene dolenti, ma non più per se stessa. Quelle immagini non danno sconcerto a chi le osserva, le ‘dolenti’ sono chiaramente le icone trasfigurate.
Si tratta di modelle (lei stessa lo è stata e lo è), estratte dalle riviste di moda con la prassi metodologica del collage, una prassi all’insegna della lentezza e della meticolosità (e dunque procedono nel tempo del pensiero); una tecnica che si è fatta veicolo espressivo dai molteplici significati, una tecnica in apparenza semplice, qui adoperata con consapevolezza, o meglio con la consapevolezza storica del medium scelto.
Ma entriamo nei sui lavori, esposti essi stessi come un unico collage o, in pochi casi, volutamente isolati. Incontriamo, si è detto, solo corpi di donna presi il più delle volte nella loro interezza e spezzettati (pochissimi gli uomini, sempre brutti e buffi, che compaiono); si tratta, dunque, di pezzi di corpi a cui dare nuova forma. Talvolta si tratta di lacerti, martoriate metonimie di un’anima ancor prima che di un corpo.
Accanto alle moltissime modelle, qualche attrice (compare ad esempio Grace Kelly); alcune di queste donne hanno un nome, altre no. E sono forse queste ultime, quelle sulle quali Vittoria decide di lavorare di più. Sono le mute e ieratiche protagoniste delle pubblicità: Clarins, L’Oréal, Intimissimi… A queste immagini fisse vuol forse dare lei un nome (per quanto le composizioni rimangano senza titolo), perché quelle donne, ormai entrate nel panorama del nostro visibile, un nome non lo hanno, e se lo hanno è momentaneo, effimero, e sarà comunque dimenticato con l’uscita del prossimo numero di Vogue.
Intanto, ciò che si sfigura, a questo punto, non sono demoni immortali; sono invece icone instabili, sfogliabili/spogliabili/spoliabili. Oggi ci sono, domani no. E a ben pensarci lei stessa interviene su immagini di per sé elaborate. Di ciò ha piena consapevolezza quando opera un deciso azzeramento degli interventi di post produzione che gli studi fotografici eseguono per rendere i corpi delle modelle aderenti a ideali irraggiungibili: gambe bellissime, zigomi pronunciati, occhi giganteschi e languidi, pelli levigatissime. A volte cancella completamente il posticcio, altre decide di esasperare o attutire il troppo (così ad esempio in Volevo gambe bellissime o anche inversamente in Dear beauty); il troppo che nelle fotografie patinate strazia la modella (mutandola) e l’osservatore (abbagliandolo), in un sottile gioco di specchi impossibile da sostenere.
Non può non essere in questa sua analisi una ricerca di empatia, la necessità di rintracciare una umanità persa per ritrovare un equilibrio che forse può ricomporsi attraverso il nostro sguardo, ora sorridente, ora incuriosito, ora straniato, ora disgustato, ma sempre, quasi per paradosso, ricondotto in territori meno disumanizzati di quelli raffigurati nei materiali di partenza, al bianco patinato dei quali Vittoria contrappone più familiari e realistiche pennellate di bianco matto e ruvido.
Con i suoi collage Vittoria Piscitelli dà vita a nuovi demoni che non pesano più sulla coscienza e nella coscienza collettiva dell’universo femminile al quale si rivolge. Ma soprattutto non pesano più su di lei.
Del resto, al di là dell’ironia, al di là di un tentato UGLY, i suoi ritagli, per quanto spesso ironici, non evitano di mostrare sentimenti quali l’ossessività e l’invidia (così il titolo di alcuni lavori). Sentimenti investigati e certamente superati attraverso il fare artistico e attraverso una ricerca formale. Sentimenti da cui è nata la necessità di un ‘riuso’ di oggetti intercettati bulimicamente nella quotidianità, a discapito di una apparenza inutile. Prima di ogni cosa, le sue opere vogliono essere appunti di un viaggio, attimi di un racconto, scorci di un percorso autobiografico nel quale mettere ordine, al quale dare una misura. Ad arginare la caducità dei corpi, dunque, la forma."
Federica De Rosa
Inaugurazione 6 dicembre ore 19
Dayala6
Via Mariano D'Ayala, 6 (Traversa Via Dei Mille) - Napoli
Ingresso libero