Silent. Per l'artista la natura diviene mondo, fonte d'ispirazione e sorgente da dove trarre l'idea e la materia con cui potersi confrontare.
Descrivendo ed interpretando il significato della LandArt, Gillo Dorfles sostiene che la particolarità di quella che
viene denominata anche Earth Art, è un intervento sulla natura e nella natura. Questo “contatto” con e nella natura
non è un’attività fisica e concettuale finalizzata ad una intenzione edonistica e/o ornamentale, ma è una presa di
coscienza dell’intervento dell’uomo su elementi che presentano un ordine naturale e che da tale intervento sono
sconvolti ed incrinati. Caroline Le Méhauté, pur non potendo essere annoverata tra gli artisti della Land Art sia
per una questione anagrafica che per una contestualizzazione dell’oggetto artistico non solamente finalizzato al
naturale, interpreta perfettamente il senso del “sublime naturale”.
Il rapporto uomo-natura, e di conseguenza arte-natura-uomo, vede i suoi natali tantissimi anni orsono. Possiamo
affermare che è sempre stato un trinomio imprescindibile nella storia dell’umanità, già dai primi interventi dell’uomo
nelle proprie dimore ancestrali attraverso interpretazioni del mondo naturale e animale, ricercando quindi
un’indissolubile congiunzione tra soggetto, concetto ed oggetto naturale. Un’attitudine, quella di interagire e quindi
interferire con il naturale e con l’ambiente, che trova dimora anche nella ricerca di Caroline, dove la natura diviene
mondo, fonte d’ispirazione e sorgente da dove trarre l’idea e la materia con cui potersi confrontare.
In un certo
senso Le Méhauté si orienta verso l’Antiform, nel senso di Process Art, non per la tipologia dei materiali utilizzati,
quanto nel tentativo di liberarsi delle strutture formali e procedere verso una rielaborazione e sperimentazione della
materia e delle sue opportunità di interazione con l’ambiente, la forza di
gravità, l’aria, lo spazio, la terra e quindi con tutto ciò che è instabile, che
impone o subisce modifiche ed è quindi indeterminato. Inevitabilmente
la scelta di utilizzare la materia a diretto e libero contatto con lo spazio,
non rimanendo ancorata alla struttura ospitante presuppone o consente
una relazione non fissata od imposta, quindi rinchiusa all’interno di
sovrastrutture formali e di pensiero lasciando comunque libera la
creazione di vagare nell’ambiente e tra il fruitore: forse con il rischio di
dissolversi e di vivere nell’impalpabile, ma certamente di essere totale.
Il materiale e quindi l’elemento che contraddistingue l’opera di Caroline, e che immediatamente diviene
protagonista, è la fibra o torba di noce di cocco.
Scelta dovuta anche all’effetto del caso, anche se come si sa
molto probabilmente esso non esiste, o perlomeno in una piccola percentuale, molto più verosimilmente dovremmo
parlare di circostanze, di momenti o particolari attimi nei quali si creano delle inevitabili contingenze dove avviene
l’incontro e poi la simbiosi. Voglio credere al mistero che conduce ognuno a trovare il suo alter ego, non trovato
senz’altro a cuor leggero, bensì attraverso la ricerca e la sperimentazione come fasi necessarie e determinanti.
La “pelle” del cocco, così come la parte esterna del corpo umano, è imprescindibile, sensibile, e pur nella sua
rassomiglianza risulta peculiare ed unica. Questi filamenti bruni, fitti, marroni inducono a privilegiare una similitudine
con l’umano: sia visivamente che nella conformazione ricorda i peli o i capelli, entrambi materiali organici che
crescono esternamente alla struttura, la ricoprono. Originariamente anche nell’uomo rivestivano una funzione
protettiva e sensoriale, che è sfociata solo successivamente nei territori dell’estetica, valore imprescindibile per
l’”edificazione” della vita così come dell’arte. Il cocco, e quindi di conseguenza anche la sua fibra, presentano
ambiguità: grazie all’altezza della pianta, poeticamente potremmo dire che ha dimora nell’etere, tra le nubi, anche
se le radici sono ben ancorate al terreno, dal quale sembra assumere, oltre che la colorazione marrone anche
alcune caratteristiche come la resistenza e la caparbietà.
La Le Méhauté infatti “scortica” l’involucro, ne trae e ne estrae l’essenza mettendo in relazione il dentro della terra,
la concretezza con il fuori dell’aria, l’inconsistenza impalpabile dell’astrazione. Ecco che interviene, o meglio ritorna,
la correlazione tra “natura, umano, aria, spazio e terra”. Tutte queste figure sono tangibilmente visibili nel lavoro di
Caroline, tranne l’uomo, che tramite la sua assenza materiale, pur negando la sua fisicità e quindi apparentemente
abbandonatosi nell’Altrove, prevede ed impone la sua presenza e la sua imprescindibilità finalizzata a dare
consistenza, concetto ed essenza all’opera manifesta. Un’iconografia dell’assenza, che nonostante si avvalga
della consapevolezza dell’Hic et Nunc, di un tempo e di uno spazio non infiniti ed eterni, percepisce l’importanza
della relazione e dello scambio; un rapporto silente, quasi
un vincolo in cui è necessariamente prevista una totale
predisposizione mentale che si deve instaurare tra artista,
opera e fruitore: quella che Caroline LeMéhauté definisce
Négociation.
Négociation è il titolo che la Le Méhauté assegna
praticamente a tutti i suoi lavori: Négociation più un
numero, che identifica nello specifico a quale opera si
sta facendo riferimento. Il termine Négociation che vede
la sua traduzione letterale in italiano con negoziazione
o trattativa implica e desidera interazione e reciprocità.
Questo scambio, come abbiamo detto, tra uomo-natura
e opera ha il suo protagonista, se pur assente, nell’uomo.
Come per esempio accade nell’opera Négociation 36:
due tubi in PVC installati al terreno e ricoperti di fibra di
cocco prendono le sembianze di un periscopio, e ogni
qual volta installati in un determinato spazio assumono
le coordinate esatte del luogo in cui “trovano dimora”. Lo
sguardo deve perciò imporsi di andare oltre, nell’altrove a
cui accennavamo prima, allargare gli orizzonti, coltivare i
valori emozionali della socializzazione sia con i suoi simili
che con la natura, focalizzando l’attenzione sulle qualità creative dell’uomo.
Le decisioni presuppongono sempre una rinuncia o comunque una scelta, comportando un dialogo con il
sé, un’introspezione che è scrupolosamente esplicata con l’installazione Négociation 59, décisions sourdes,
accompagnata da un sottotitolo che indica come le decisioni siano sorde o comunque silenziose, a tu per tu con
noi stessi. Una stanza, una lampada, una sedia e un tavolo interamente ricoperti da torba di cocco. Sullo scrittoio
si intravede uno specchio, chiaramente un richiamo ad un dialogo oggettivo e reale, se non fosse che lo specchio
appare volutamente scalfito: a tal punto che la scena assume l’aspetto di un colloquio intimo che convoglia
smaniosamente in uno spazio metafisico, viaggiando nell’empirismo, desiderando un’esperienza integrale di
immedesimazione tra l’Io e il mondo esterno.
Probabilmente la finalità non è quella di emulare il processo naturale,
copiare pedissequamente, come accade spesso con una brutta copia, qualcosa o qualcuno fisiologicamente e
fortunatamente distante da noi; il segreto, anche se di Pulcinella, tuttavia sovente non perseguito o peggio ancora
non compreso, consiste nell’integrarsi nella natura, ascoltarne ed osservarne i cambiamenti ed il divenire.
Tutto questo accade anche nell’opera Négociation 57, grow, grow, grow, dove un “tappeto” di fibra di cocco
“pulsa la vita”, si anima emettendo lievi e quasi impercettibili movimenti.
Una comunicazione silenziosa, un respiro
o forse un sospiro emozionale, un’esperienza che, come ci ricorda Edmund Husserl, riesce ad attraversare tutte
le sue fasi: percezione, immaginazione e ricordo. Tre stati – e, direi, anche tre condizioni - che si vengono a
creare anche nell’opera Négociation 66, Extended fields, che prevede la presenza simultanea di più elementi:
una sedia, un cubo di torba al quale sono collegate delle casse acustiche che emettono una serie di suoni.
Il primo impatto visivo ed in parte anche concettuale
richiama alla mente l’opera One and three chairs di Joseph
Kosuth: il pensiero certamente prevede delle relazioni
che intervengono e si costituiscono quando si desidera
formulare un concetto. Caroline Le Méhautè ha reperito la
torba con cui successivamente ha creato questo piccolo
cubo in Irlanda, durante un’escursione presso una delle
più antiche montagne dell’isola.
La torba è un combustibile fossile di età quaternaria
costituito da sostanza vegetale semicarbonizzata e satura
d’acqua e rappresenta il primo stadio di trasformazione
della materia vegetale in carbone. Significativo è che
tale materia sia il substrato ideale per la crescita di
alcune specie e che l’artista francese l’abbia utilizzata
per la realizzazione della sua opera. Dal cubo di torba
provengono due differenti suoni: il viaggio inizia con
l’effetto acustico pervaso dai bassi, un’interpretazione del
suono emesso nella terra dalle ipotetiche onde sonore,
che progressivamente si trasformano nel rumore che
effondono i campi magnetici del pianeta registrati nello
spazio dalla NASA.
In questa opera avviene una verticalità,
un viaggio impossibile, immaginario ma reso possibile per
mezzo del suono tra terra e spazio e conseguente ritorno.
Il tempo qui è assente, è un universo, un infinito ipotetico
nel quale l’artista cerca di identificarsi con Colui che
tutto crea immaginando un luogo altro dove sintonizzarsi
con l’ambiente, che è poi inevitabilmente parte del sé,
un “desiderio verticale” di reagire alla immobilizzante
privazione d’identità.
Inaugurazione 14 dicembre
Galleria Spasio Testoni
Via D’Azeglio 50 - Bologna
Orario: Mar-Ven 16,00-20,00 - Sab 10,30-13,00 e 16,00-20,00 altri su appuntamento
Ingresso libero