Monstrum. Fotogrammi vecchi e sbiaditi pescati in qualche remoto mercatino dell'usato: pochi segni sgorbiati, graffi, lacerazioni e una tempera fluida a rievocare su composte immagini di famiglia, ectoplasmi e demoni senza volto.
“ Non vi è sogno che sia totalmente un sogno”
A. Schnitzler
Fotogrammi vecchi e sbiaditi pescati in qualche remoto mercatino dell’usato. Interventi minimi: pochi segni sgorbiati, graffi, lacerazioni e una tempera fluida a rievocare su composte immagini di famiglia, ectoplasmi e demoni senza volto, forme misteriose dai profili animaleschi e dalle corna puntute. Ibridi profusi dalla commistione di razze non armonizzate e personaggi mascherati, dal genere non identificabile, ad avvolgere di lacci bambini sanguinanti, privati degli occhi. E ancora madri-matrigne mostruose e castratrici, giovani donne mutile e putrescenti ad ostentare falli eretti e una sessualità torbida, sempre evocatrice di morte.
Gli scheletri e i teschi, i falli, le bende e le mutilazioni, le maschere di latex, le pratiche sadomaso e bondage, gli animali mitici e mostruosi… Si mescolano nell’opera Scorci Violati a comporre un effetto disturbante ma sottilmente coinvolgente. Come coinvolgente e disturbante può essere l’affacciarsi per un istante sull’inconscio di ognuno, traendone gli incubi, le fantasie più riposte e inconfessabili. Così, nell’iconografia dell’artista la maschera, presenza ricorrente ed ossessiva, non nasconde (come si conviene) ma svela il lato nascosto, il mostro celato dietro rassicuranti apparenze. Ad una prima analisi il tema dello svelamento e dell’inconscio, dell’informe (evocato dall’intervento dell’artista) nascosto dietro il conforme (risultato dalla scelta del supporto: il ritratto fotografico di famiglia), appaiono predominanti a sancire il legame con una tradizione artistica occidentale fortemente consolidata, di cui il presente lavoro si presenta come summa dai tratti, però, fortemente inediti e innovativi.
Nel richiamo al non visibile ed all’irrazionale, nell’idea che l’arte debba mostrare qualcosa di più e di altro da ciò che comunemente si vede o rappresentare la negazione della realtà, troviamo un filo conduttore che dal primo apparire degli incubi in ambiente romantico (si pensi all’ Incubo di Füssli ed alle “pitture nere” di Goya), giunge al Simbolismo nelle sue molteplici manifestazioni e, in particolare, all’opera grafica dell’austriaco Alfred Kubin, dove l’ossessività nella rappresentazione di sogni angosciosi (dai forti connotati sessuali) si farà interprete e premonitrice della crisi culturale e del declino del suo tempo. Un filo che ci conduce alla scoperta dell’Inconscio e alla trascrizione del celebre concetto freudiano sulle tele dei Surrealisti di cui i lavori di Mingozzi recuperano l’idea della scrittura automatica allorquando vediamo il segno incidere la foto (rispondendo, sembrerebbe, ad un’inconscia necessità di sublimazione). Fino alla totale negazione dell’immagine sancita in epoca di Avanguardie storiche e ad alcune tendenze horror di certa fotografia e di certa pittura contemporanea (si pensi, in particolare, al lavoro di J. P. Witkin e alla macabra ironia del Pop-surrealism). Ed ecco che il lavoro dell’artista tende a condensare la tradizione a realizzarne un distillato, recuperando una serie di elementi diversi, riuniti a celebrare il preludio di una nuova, più lacerante negazione.
Tutto è racchiuso nel titolo Scorci violati, di quella che appare come un’imponente tragedia per immagini. Lo scorcio è, nelle arti figurative, la rappresentazione delle figure su di un lato obliquo rispetto a chi guarda ed è utilizzato, più in generale, per rendere le immagini più verisimili, adattandole alla visione dell’occhio da un certo punto di vista; serve dunque a rappresentare non tanto la realtà quanto l’apparenza di essa. E qui è utilizzato proprio in questo senso, a rappresentare la convenzionalità, la banale semplicità di ciò che appare. Lo scorcio è il frammento di vita rubato all’archivio dei momenti da ricordare: il matrimonio, la comunione, la madre con il bambino fra le braccia (allusione ad una radicata tradizione cristiana), il gruppo di famiglia immortalato in studio fotografico con l’abito migliore. Una galleria privata dove un posto a parte hanno i nudi femminili, a celebrare la bellezza e l’ancora una volta soltanto apparente godimento, generato dalla visione di un corpo florido, nel pieno del vigore.
Ecco, il lavoro dell’artista comincia proprio da qui, da una scelta. Secondo un’idea del fare artistico già diffusa in epoca avanguardistica e che, in queste opere, si pone come gesto d’inizio fondamentale. Poiché nella foto di partenza tutto è già presente in nuce e all’artista non spetta che il compito di renderlo visibile. Ed ecco che si passa alla violazione, in senso pratico e simbolico. Simbolico perché intesa come dissacrazione del privato perpetrata da un occhio torbido e clandestino, celato dietro al buco della serratura. Pratico laddove si giunge all’intervento diretto, con penne appuntite e pochi tratti di bianco acrilico gettato con apparente casualità, deturpando, incidendo, sgraffiando, bucando, violentando letteralmente le immagini per negare la veridicità di ciò che appare e svelarne la difformità, il lato abominevole. Freud e l’inconscio sono alle porte. Come non pensare, infatti, ai concetti cari allo psicanalista tedesco, di Heimlich e di Unheimlich, dove per Heimlich si intende intimità, indagine di cose che riguardano la vita domestica, e per Unheimlich quella qualità dello spaventoso che ricollega a cose note e famigliari qualcosa di occulto che riemerge. Ed è proprio sul filo di quest’antitesi che si svolge gran parte del presente lavoro. È proprio la superficialità delle pose, la convenzionalità delle immagini scelte e rendere più terribili gli orrori a venire. È l’opposizione fra il minuzioso realismo fotografico, la staticità dei ritratti e il segno impreciso e deformante, le maschere e i mostri evocati, a rendere la combinazione più sconcertante. E ciò che si vede provoca in chi guarda disturbo e straniamento ancora maggiori laddove le violenze inflitte non sembrano provocare dolore: la staticità non viene cancellata. Il bambino legato ha membra ferme di marionetta e non prova a liberarsi. Le frecce nel petto della donna non le impediscono di mostrare il florido seno. Il richiamo a Freud e alle opposte polarità di Eros e Thanatos è, infine, ancora più evidente se si osservano i temi trattati, rintracciando il sesso quasi ovunque accompagnato dall’idea della morte, ora evocata dal teschio e dallo scheletro, ora solo preconizzata da orrende violenze e mutilazioni.
Si potrebbe osservare, a questo punto, che il lavoro di Mingozzi agisca a due livelli: il primo, più semplicistico richiama una necessità di sublimazione di incubi personali riposti, ottenuta per il tramite dell’arte. Il secondo, il rapporto con un contesto ed una tradizione artistica consolidata, accolta e rielaborata dall’artista su più piani: uno tecnico, per la scelta di un particolare supporto, l’intervento minimale e scabro, l’uso espressivo del graffio e della lacerazione. Ed uno iconografico dove, l’incubo e l’irrazionale, lo abbiamo visto, occupano un posto di rilievo, comunemente a numerosi artisti della storia, vissuti per lo più in contesti di decadenza sociale e culturale.
Ma qual è il fine (se di fine si può parlare) del lavoro di Mingozzi? Quale il contesto nel quale si muove? Oggi più che mai appare chiaro, in questo lavoro, un forte ripiegamento intimista, accompagnato da una volontà negatrice e critica ma assuefatta. Annichilita, si potrebbe dire, da un contesto nel quale il sociale ed il pubblico (dove per pubblico s’intendano valori condivisi, bene comune, ideali collettivi) non esistono più ma dove, paradossalmente, ciò che più pertiene alla sfera del privato (banali conversazioni, gesti del vivere quotidiano) diviene di pubblico dominio e di interesse collettivo. Da un contesto dove il bombardamento di immagini è tanto continuo da essere divenuto impercettibile ed il coro di proposte artistiche è polifonico e contraddittorio… è proprio qui, nella fin troppo citata società delle immagini, che l’artista fa un lavoro di violazione dell’immagine stessa, fino a giungere alla sua negazione, ad un’iconoclastia di fondo, nel passaggio verso la quale si consuma lo sguardo estenuato del voyeur in cerca di emozioni forti.
Michela Gori
Aveva voluto, per il diletto dello spirito e la gioia
degli occhi, qualche opera suggestiva che lo precipitasse
in un mondo ignoto, che gli svelasse le tracce
di nuove congetture, che gli lacerasse il sistema
nervoso con erudite isterie, con incubi complicati,
con visioni indolenti e atroci.
J-K. Huysmans
Inaugurazione: sabato 3 maggio, ore 18.00
D406 Fedeli alla linea
via Cardinale Giovanni Morone, 31/33, Modena
Orario: mar 10.30-13 e 16-19.30, mer 16-19.30, ven 16-19.30 e 21-23, sab 10.30-13 e 16-19.30, dom 10.30-13 e 16-19.30
Ingresso libero