S'inaugura, presso lo spazio promozionale della'Associazione Juliet, una mostra di Marco Neri. La mostra e' curata da Roberto Vidali, in collaborazione con la galleria Fabjbasaglia di Rimini.
S'inaugura, giovedì 14 settembre, dalle ore 18 alle 21, presso lo spazio promozionale della'Associazione Juliet (via Madonna del Mare 6, Trieste) una mostra di Marco Neri.
Accostare il lavoro di Marco Neri e saperne cogliere la valenza significa fare un minimo di conto mentale con le regole che vigono, ormai molto generalmente, nel mondo dell'arte contemporanea. A voler riassumere brevemente tali regole, potremmo parlare della tacita, generalizzata e quasi indiscussa decisione ad accogliere la rappresentazione di un mondo spiegato per frammenti o, come fanno gli inglesi, non a caso protagonisti del recente fin de siècle visuale, per gags, per giustapposizione di frattaglie di vita quotidiana, incuranti o persino tese a evitare la possibilità di significare alcunché di serio, spesso accumulate con cinica maestria - black (o slick) humour - secondo le norme di un subdolo sub-design: "trovatielle" che riescono a strappare sorrisi compiaciuti a platee in scarpe da ginnastica e tirabaci.
All'opposto, Neri sembra provare un'istintiva spinta a rifiutare certi modi, ma essendo impossibilitato per ragioni epocali a produrre arte che sia arte più di un tanto (nel senso che, siamo seri, seri non si può essere veramente), risale la china affidandosi a un istinto che, anziché portarlo a svolazzare qua e là in cerca di idee da impollinare, lo vede costretto a b(a)loccarsi davanti al ricordo di una visione più salda, più italica. Una visione più vicina, nonostante i soggetti, alla fissità di certa pittura metafisica che proprio dalle sue parti - nelle piazze di Ferrara, riprodotte dal Pictor Optimus come cartoline eidetiche - trovò modo di mettersi perfettamente a fuoco. È quindi, il suo, un lavoro che chiede di essere guardato anche di riflesso, nel riflesso della figurazione odierna - c'è forse pittore d'oggi che possa reclamare un'esclusiva di pensiero e immagine, quando le immagini prodotte sono già state viste, prima che da lui, da cento altri come lui? - zeppa di riferimenti ai media, alla cultura popolare, all'altrui. Di riflesso a tale attitudine, Neri, si diceva, porta con sé la capacità di isolare delle forme, di cose e persone, che ritaglia ed estrapola, quasi, dal loro contesto, di modo da evitare una interpretazione che sia nel contempo dispersione dell'attenzione. Una lettura che non tiri in ballo troppo facilmente questioni di costume, sociologie spicciole, freudianismi da manuale di corso superiore, e che ingarbugli oltre il lecito l'immaginario di chi guarda.
L'autore, infatti, mira ad altro. Prendiamo i suoi paesaggi: sono scorci di mari e palazzi ritagliati, rimontati quasi per artificio, sinonimi più che simboli, che si dispongono sulla tela in modo rigorosamente artefatto, un po' come gli interni di cartone di Thomas Demand, altro abile artifex dell'immagine contemporanea. A differenza di quest'ultimo, comunque, qui ci si sbarazza di goniometro e righello, e di forbici e lametta si fa uso per ritagliare scorci di un'immagine mentale che non è tanto "progettata" quanto trasposta, risultato dell'intenzione di costruire un'opera che non si trastulli con le meccaniche della percezione ma che si faccia deposito di un congruo strato di rimandi. La visione più italica (cui si è già fatto menzione) si riassume quindi nella possibilità , conferita all'immagine, di sintetizzare un vasto deposito di rimandi micro e macrocosmici - memorie personali e memorie collettive - attaccando ai codici della rappresentazione visiva attuale piccole appendici, note a margine che ricordano le fonti, creano rimandi, consentono collegamenti. Senza istituire grandi fratture, Neri si stacca quindi dal mondano e illustra, senza troppo metter mano al sentimento, cose e persone che hanno catturato non solo il suo sguardo ma anche il suo affetto, quadretti visivi come il sole che illumina la facciata pulita e austera di un palazzo in stile Novecento. Così sono i ritratti, una piccola galleria di volti che si intuisce subito essere di amici della vita e dell'immaginazione - Enzo Ferrari, papà delle rosse di Maranello, di Romagna, d'Italia, del mondo (dei motori) - volti che riassumono insieme una condizione degli uomini e della pittura, attori e cinepresa, mescolando gli elementi di questa e di quella. I volti sono tutto sommato i soliti, gente pensosa perché preoccupata di vivere nel modo giusto, il bianco e nero è proprio da film, e la dice lunga sul ruolo dei nostri protagonisti, la tecnica è tradizionale, tempera su tela come quei frescanti - contastorie di un dì. Sono elementi solo apparentemente contrastanti, in realtà conseguenti, tappe diverse di uno stesso pensiero che ricorre nella storia; una sintesi che si oppone al sincretismo di quanti raggrumano cose di gente e luoghi che non c'entrano nel melting pot della propria testa, spiegandosi la possibilità di spiegare il mondo in quattro e quattr'otto tramite l'adesione a un modo che, non essendo più di nessuno, si immagina essere di tutti. A essere italiani, quindi, a volte c'è gusto; altroché incapacità di parlare la lingua di tutti (e di nessuno): quell'inglese dell'arte che una volta chiamavamo esperanto, finché non ci si è accorti della verità .
La mostra, curata da Roberto Vidali, in collaborazione con la galleria Fabjbasaglia di Rimini, chiuderà il 31 ottobre; orario di visita il martedì dalle 18 alle 21 o su appuntamento.