Case Chiuse #02. Sono esposte lavori su carta di grandi dimensioni realizzate da Mondino nel 1961: il primo periodo parigino dell'artista. Le opere di Abbar costituiscono la cartografia del suo progetto fantapolitico Zato.
a cura di Paola Clerico
Le opere di Aldo Mondino (Torino, 1938-2005) in mostra in via Anfiteatro sono
state realizzate nel 1961 e appartengono al primo periodo parigino dell’artista.
Sono lavori su carta di grandi dimensioni, ricchi di colore e movimento, in cui si
risente ancora l’eco dell’estetica surrealista – in particolare l’influenza di Tancredi
di cui Aldo era assistente. Queste opere giovanili costituiscono il preludio delle
Tavole Anatomiche, presentate nel ’63 alla Galleria il Punto di Torino.
Le
Tavole Anatomich
e sono per Mondino metafore della crisi della società
contemporanea, descritta mediante gli organi del corpo umano; una sorta di
mappatura interna dell’organismo ottenuta attraverso un groviglio di rapide
pennellate colorate, dalle vibranti tonalità. È in questi primi lavori che Mondino
inizia a tradurre concetti astratti in simboli tangibili. Estraneo a qualsiasi
intento pedagogico, mai dogmatico o ideologico, Mondino, fin dagli inizi degli
anni ’60, coniuga la serietà dell’impegno politico e l’intenzione eversiva con la
leggerezza del gioco e dell’ironia. Agisce sempre in totale libertà, ma con
meditata consapevolezza, mosso dal profondo desiderio intellettuale di far
emergere la verità.
Anche i lavori di Tarek Abbar (Madrid, 1976) sono disegni su carta di grandi
dimensioni e costituiscono la cartografia del suo progetto fantapolitico ZATO.
Mappe tracciate con un minuzioso e ossessivo tratto d’inchiostro nero, alternato
ad alcune macchie di colore rosso, in cui edifici ed elementi paesaggistici non
identificabili si ripetono e si moltiplicano all’infinito. Come le tavole di Mondino,
si tratta di “opere prime”, poiché qui presentate al pubblico per la prima volta.
ZATO è una sigla russa, abbreviazione di “Closed Administrative Territorial
Formations”, usata per identificare città segrete sovietiche, centri di ricerche
spaziali e luoghi di fabbricazione di armi biologiche, chimiche e nucleari; abitati
senza nome, rintracciabili sulle mappe soltanto con il numero di chilometri che
le distanziava da una città vicina.
Tarek Abbar inserisce il gioco e ribalta la storia catapultandoci in un tempo non
determinato in cui il Giappone, anziché aprirsi all’Occidente, stringe relazioni
politiche e commerciali con la Russia. Assorbito dall’Unione Sovietica e sotto
la sua sfera d’influenza, l’arcipelago giapponese si trasforma in un concentrato
di ZATO e collettivi industriali: le mappe urbane di Abbar testimoniano
quest’immaginaria epoca Edo-Real-Socialista. In questi deliranti paesaggi
metropolitani, realizzati in stile Yamato-e e privi di reali riferimenti geografici,
l’alternanza straniante di prospettive aeree e frontali falsa le distanze e
confonde la certezza della visione.
Le opere di Aldo Mondino e di Tarek Abbar, seppur formalmente molto diverse,
s’incontrano e si compenetrano in via Anfiteatro nei comuni presupposti
concettuali che sottendono le loro rispettive ricerche: la seria e profonda
osservazione della realtà; l’amore per il viaggio inteso come ricerca dell’altrove;
l’impegno politico stemperato dall’approccio ludico e dalla sottile ironia; lo
sguardo puro che accoglie lo stupore e la meraviglia – tutto ciò che,
sintetizzando, può essere definito come arricchimento attraverso
l’immaginazione. Osservando le tavole anatomiche di Mondino e le mappe
immaginarie di Abbar, non ho potuto fare a meno di pensare a
Flatlandia
di
Edwin Abbott Abbott.
Di un simile arricchimento per mezzo della fantasia e dell’immaginazione ci parla
il reverendo Abbott, che descrive
Flatlandia
come uno Stato abitato soltanto
da figure geometriche piatte: rette, triangoli, quadrati e poligoni che si muovono
su un piano bidimensionale e vivono rigidamente ordinati in una soffocante
struttura. Non possono nemmeno concepire la terza dimensione né sono in grado
di ampliare la propria prospettiva di visione della realtà. Flatlandia è pertanto
la metafora della piattezza e del rigore della struttura sociale vittoriana,
raccontata con magistrale ironia.
Anche i paesaggi urbani di Abbar ci raccontano una piattezza, una
bidimensionalità che rimanda al tradizionale stile pittorico giapponese
Yamato-e. Eppure, per contrasto, essi evocano la tridimensionalità delle nostre
città, la complessità del mondo che ci circonda, la profondità di un’invenzione
ben studiata e calibrata. Allo stesso modo, le piatte Tavole anatomiche di
Mondino alludono al movimento e alla pluri-dimensionalità delle nostre
emozioni – alla stereoscopica conformazione del nostro mondo interiore.
Come Abbott, anche Abbar e Mondino criticano con ironia. Tarek deforma la
visione della nostra realtà attraverso una favola fanta-politica; Mondino, miope
per tutta la vita, non metterà mai gli occhiali. Attraverso i loro lavori – e la
carica immaginifica di uno sguardo “altro” – ci consentono di sognare, di
accedere a una straordinaria visione. E, per moltiplicare ulteriormente questa
visione, ho chiesto a Federico Florian di scrivere un racconto – una storia
sull’incontro di Abbar e Mondino nella Casa Chiusa di via Anfiteatro.
Paola Clerico
Case Chiuse#02 è stata realizzata in collaborazione con l’Archivio Aldo Mondino, Milano
Si ringrazia Luceplan per la sponsorizzazione tecnica
Opening: 7 aprile 2015
7 e 12 aprile 2015 dalle 10 alle 20
13 – 21 aprile 2015 dalle 9.30 alle 12
Ex-casa Cipelletti
via Anfiteatro, 9 20121 Milano
8-11 aprile 9.30 – 19.30