Villa Manzoni
Lecco
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Bruno Cassinari
dal 17/12/2004 al 6/3/2005
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Dino Spreafico




 
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17/12/2004

Bruno Cassinari

Villa Manzoni, Lecco

Oli Bronzi Disegni 1935-1992. Retrospettiva. In mostra opere come La Madre (1936), Casa sulla collina (1946), Il Priore di Graveglia (1948), Il cappello verde dello stesso anno. A cura di Anna Caterina Bellati. ''Cassinari ha preso una via che lo ha condotto a insistere sul rapporto spaziale fra gli esseri, sulle geometrie che dirigono i gesti e la collocazione degli uomini nel mondo, sull'inutile e meraviglioso fatto di essere vivi''. R. De Grada


comunicato stampa

Oli Bronzi Disegni 1935-1992

Curatore: Anna Caterina Bellati
Presentazione: professor Raffaele De Grada

Oltre il sogno di Corrente
Si tratta di pittura. E di scultura, quelle vere. Un’esistenza intera dedicata al medesimo insistente progetto: cogliere attraverso il colore e il movimento il senso del reale, il significato delle cose, il limite tra ciò che all’uomo è concesso di capire e ciò che gli sfugge. Della vita, del suo essere nel mondo, del tempo e dello spazio. Bruno Cassinari è tra gli artisti italiani cresciuti nella culla di Brera sotto l’ala protettrice di Aldo Carpi, quello che più di ogni altro ha studiato gli esseri viventi nella loro fragile pienezza, capaci di dare la vita ad altri esseri uguali a sé, ma incapaci di contrastare la propria finitudine. Una creatività prorompente ha segnato tutta la sua storia e una ricerca inesausta del segno sublime, quello che contiene la forza, la precisione e insieme l’orgoglio di chi è artista nel sangue. Anche un suo amico che talvolta mi ha parlato di lui, Ennio Morlotti, possedeva quella medesima qualità di determinazione, di fierezza e di impegno. Ma Morlotti sviluppò un’altra strada, l’Informale e una volta incamminata lungo i sentieri segreti della natura, la sua pittura è diventata studio chimico delle leggi che governano fisicamente l’accadere della vita.
Cassinari ha preso una via diversa che lo ha condotto a insistere maggiormente sul rapporto spaziale fra gli esseri, sulle geometrie che dirigono i gesti e la collocazione degli uomini nel mondo, sull’inutile e meraviglioso fatto di essere vivi, forse persino sui loro pensieri. Un altro suo compagno di scuola, Trento Longaretti, raccontandomi qualche settimana fa della loro amicizia e degli anni ruggenti dell’Accademia, non a caso ravvisa proprio nelle madri uno dei temi fondamentali, se non “il tema” del lavoro di Cassinari. Quell’interrogarsi sul perché e il come la progenie umana continui imperterrita il proprio cammino; quel riflettere sulla magica possibilità concessa alle donne di contenere nel proprio ventre il segreto della vita. Seme della continuità. Mentre il seme dal quale è germogliato il sentimento della pittura (e anni dopo quello della scultura) di Cassinari è stata la frequentazione di Brera. Morlotti, Filippini, Longaretti, Ajmone, Dova, Francese, Peverelli, Treccani, Chighine, Birolli e Cassinari hanno partecipato a una grande occasione, un preciso momento storico nel quale si imponeva una scelta: o militare sotto la grigia egida del fascismo o essere contro. Loro erano contro. I giovani artisti che in quel tempo studiavano all’Accademia sentirono forte il compito di denunciare la violenza abbattutasi sull’intera Europa. A sostenerli erano il bisogno di ribellarsi e la necessità imperativa di sperimentare non solo forme e tecniche, ma idee nuove. Il valore di questo impegno corale consisteva nel recuperare una dignità per sé e per l’arte sottomessa e debole davanti al potere. Nel quartiere di Brera nascevano sodalizi e progetti che avrebbero investito come un vento fortissimo almeno i tre decenni successivi della storia dell’arte italiana e non solo.
Di quel crogiolo attento alle problematiche emergenti nella cultura europea qui interessa seguire il percorso di Cassinari e Morlotti negli anni compresi fra il 1940 e la fine della guerra. Entrambi attratti da tutto quello che sapeva di nuovo proseguirono - benché in maniera differente - sulla via tracciata da Picasso e in special modo quello che aveva fatto sventolare la bandiera di Guernica. Morlotti ne aveva acquistato alcune riproduzioni a Parigi e le aveva poi regalate agli amici. Nell’ambiente pulsante dell’Accademia avevano subito prodotto un terremoto. Per Cassinari e Morlotti le nuove possibilità aperte dal Cubismo nel rapporto spazio/luce/forma furono lo strumento attraverso il quale misurare il proprio futuro. Erano amici davvero. Dividevano ogni cosa: la miseria di quei giorni, le modelle, la donna di servizio che riordinava le stanze di entrambi nella medesima strada, via San Tomaso, appena dietro la chiesa, le notti in giro per Brera. E si mettevano alla prova come pazzi sugli stessi temi: la Natura morta, i Nudi, il Paesaggio. L’altro compagno di studi e di idee con il quale condividevano esperienze, scoperte e brevi vacanze a Gropparello è Ernesto Treccani. La cifra di quel sodalizio si chiama “Corrente”. Nonostante gli eventi funesti di quegli anni, le basi gettate all’interno di quel movimento costituiranno una sorta di ponte che li terrà insieme e consapevoli benché la guerra o la vita stessa li costringano a un certo punto a separarsi. Scriveva Treccani anni dopo: “Corrente” fu di per sé un movimento contraddittorio e in esso confluirono fermenti diversi e anche contrastanti; entro la comune opposizione al fascismo vi erano tra di noi delle differenze, non soltanto di età e di temperamento, ma di propositi e di prospettiva e questo è significativo per quel che è accaduto negli anni successivi. In “Corrente” si possono distinguere due momenti abbastanza diversi e con caratteri e accentuazioni particolari. Il secondo movimento di “Corrente”, per esempio, al quale presi parte come pittore assieme a Cassinari, a Morlotti, a Vedova e a Guttuso (erano gli anni della “Bottega di Corrente” e della galleria al primo piano di Via Spiga) aveva della pittura una concezione morale e civile che si differenziava notevolmente dalle prime manifestazioni antinovecentiste che oggi si è soliti chiamare con il nome di “Corrente”. (Da: Il movimento di Corrente, 1950). A un certo punto della guerra Cassinari e Morlotti si rifugiano a Mondonico, una frazione di Olgiate Molgora, oggi in provincia di Lecco. Quelle colline già santuario di Emilio Gola e quindi luogo privilegiato della pittura brianzola, penso a Donato Frisia e a Riccardo Brambilla, offrono ai due giovani artisti una pausa serena all’ombra del torrente Molgora e delle morbide pieghe della Val Curone. In Morlotti l’attrazione per quei luoghi sarà profonda e inesauribile. L’Adda, il suo fiume, costituirà per sempre una palestra dove misurare la forza della materia e la potenza del colore; mentre Cassinari condividerà quell’esperienza più su un piano affettivo che non artistico. Lui era nato altrove, a Gropparello e i suoi Paesaggi sono specialmente legati alle colline del piacentino verso le quali l’artista provava d’istinto un sentimento tenero e partecipato. Di ritorno da quella specie di pausa dell’anima, quando sia Ennio che Bruno parteciperanno alla Mostra di Corrente, a proposito dei primi lavori di Cassinari dedicati alla terra d’origine Vittorini riconobbe in quella pittura un “bisogno di frugare, scavare nel mondo, sudando anche sangue stesso, per strappargli grida di colore. […] Mai un pittore giovane dei nostri tempi è stato fin dal principio così deciso nel bisogno di ottenere dal colore un risultato di profondità. E mai è stato fin dal principio così efficace, così intero. Gli ultimi Paesaggi di Cassinari sono opere che già possono prendere posto nella storia dell’arte contemporanea”. Per entrambi la terra natale costituisce un approccio alla pittura quasi religioso e il paesaggio di Mondonico per Morlotti come quello di Gropparello per Cassinari, diventa luogo interiore, sito delle proprie origini, posto della memoria futura. Non per caso tutti e due ritorneranno, in momenti diversi, sul motivo del ‘posto dove si è nati’. Lì la natura è quella conosciuta e riconoscibile per abitudine filiale. Dopo i mesi di Mondonico rubati alla guerra, Cassinari e Morlotti lavoreranno sul paesaggio-colore e sulla natura-colore in forma e con metodi diversi. L’anno successivo partecipano ancora insieme al IV Premio Bergamo esponendo, fra l’altro, un paesaggio a testa. Si tratta di un Mondonico per Morlotti e de Il ruscello verde per Cassinari, dipinti nei quali la scelta delle tonalità degli ocra, delle terre, dei verdi dichiarano come il lecchese con le prime larghe spatolate dense e materiche si stia preparando all’Informale, mentre l’amico piacentino utilizza tonalità più calme e un’impaginazione del dipinto che già lo spinge verso quella geometrizzazione del mondo che diventerà con gli anni il suo carattere dominante. La loro pittura procede affiancata. Dopo la Brianza vanno a Gropparello dove li raggiunge Ernesto Treccani. Di quei momenti preziosi lascia tracce nei suoi appunti: “Ancora una volta nell’oasi del giardino splendente, la sera, con un bicchiere di vino davanti, guardo la notte, i girasoli e la luna bassa, scambiando poche parole con l’amico Cassinari. Anche qui, in quest’ora, la campagna è profonda (tanto verde nel buio) come cento chilometri più in là, oltre la Cisa, sulla collina di Gropparello. Parrebbe che il mondo fosse soltanto campagna, ma se scartiamo questa notte e il mio pensiero che si figura tutto quel verde, la realtà è un’altra. La realtà degli oggetti allineati, disseminati, inerti, rotolanti”. E altrove Treccani annota ancora: “A Gropparello da Cassinari. Da Piacenza in bicicletta con Ennio (Morlotti n.d.r.), il grano è maturo. Visto un paesaggio bellissimo, un cielo azzurro disteso, un gruppo di case, il piano giallo di grano. Tre rapporti esattissimi. (...) Negli ultimi quadri di Bruno (una quindicina tra paesaggi e nature morte) c’è molta libertà e ricchezza di pittura; il colore insiste ancora sopra una gamma un poco molle, viola e verde e verde veronese. Bruno avverte una crisi in cui sente l’inutilità di una vita da consumare nella compiacenza del dolore e del peccato”. (6 giugno 1943; da: Arte per amore, Feltrinelli, 1978) Amici che parlano di amici. Tutti artisti, tutti impegnati politicamente, tutti in procinto di delineare il proprio percorso definitivo. A Gropparello Cassinari si recherà di frequente punteggiando con le sue colline i periodi di malinconia, i ritorni al grembo materno, gli stacchi nella costruzione della sua personalità artistica. Mentre a Mondonico Morlotti tornerà una seconda volta nel 1946, insieme alla giovane moglie Anna e da lì prenderà il via la seconda stagione dei Dossi, preludio agli Adda carnosi e pieni degli anni Cinquanta. Cassinari in quell’anno è inquieto e cambia spesso orizzonte: è a Milano quasi di passaggio e ancora nel piacentino, ma già con Parigi nella testa dove andrà nel 1947 e ci resterà per un anno, fino alla scoperta di Antibes e all’amicizia con Picasso. Solo allora Cassinari ricondurrà la sua matrice cubista a una sorta di ordine geometrico che negli anni Cinquanta evolverà verso quella tavolozza di colori quasi a smalto che faranno della sua arte un monumento al colore per il colore. Risulta quasi paradossale, ma proprio quando Cassinari comincia a frequentare Picasso e ad avere libero accesso ai suoi lavori ha inizio il distacco dal picassismo, del quale il piacentino salva la concezione dello spazio inteso come movimento. Ma i colori gessosi e muti scompaiono, sostituiti dal piacere della narrazione; la pittura si fa racconto, aprendosi a suggestioni mediterranee e trovando un cammino autonomo rispetto al suo passato e alle sollecitazioni dell’astrattismo che sta prendendo piede in Europa. Nei suoi dipinti invece il paesaggio, gli animali e in particolare la figura umana assumono un ruolo da protagonisti dello spazio fisico nel quale sono collocati. La grazia della composizione diventa importantissima, l’impaginazione dei dipinti è sostenuta da un colore forte e libero in cui l’accento lirico impone un rimando alla grande pittura rinascimentale, ma ridefinita da uno spazio del tutto nuovo, in cui ogni cosa si muove in cerchio, insieme a tutto ciò che con lei ruota nell’universo. La disciplina della struttura di ogni opera celebra l’emozione di un incontro sempre rinnovato e sempre diverso con i propri soggetti. Ritmati tra la natura morta, la figura femminile e il mare d’Antibes.
La grande attitudine poetica di Cassinari con l’andare del tempo si sviluppa nella direzione del gesto-colore che delimita l’ambito dello sguardo. Nel lavoro degli anni Cinquanta lo spiccato senso plastico che aveva accomunato la sua forma pittorica a quella degli amici di Corrente assume un virtuosismo appassionato che prima non c’era. Le forme, pur scomponendosi in aree architettonicamente definite hanno addosso la liquidità del colore che scivola sul segno e mescola i confini reali delle cose. La connotazione dell’oggetto perde d’importanza. Così il mare può trasformarsi in una sorta di natura morta; il volto di una donna ha molti occhi, ma sempre lo stesso sguardo fisso mentre il mondo le gira attorno, un cavallo galoppa oltre i confini del disegno che lo imprigiona, ma le sue zampe sono bloccate eternamente in quel movimento di fuga.
Oltre il sogno di Corrente alla fine Cassinari trova una patria di sua esclusiva appartenenza in cui ciò che ha appreso durante gli anni di Brera resta come perenne monumento alla storia dell’arte italiana e per certi versi europea, ma declinato in un insistente, talvolta ossessivo ritorno al proprio cuore. Gropparello, la madre, Picasso, il mare. In un’onda lunga che dopo oltre dodici anni dalla sua scomparsa lascia nelle orecchie un rumore leggero. Come una morbida carezza.
Anna Caterina Bellati


Fedele ricordo di Bruno Cassinari
L’avventura cominciò nel 1935, nello studio milanese di Renato Birolli in Piazzale Susa con Sassu, Guttuso e Luigi Grosso, ci interrogavamo sul futuro: “Che faremo domani?”. Birolli allora frequentava con rispetto e anche ammirazione lo studio di Carlo Carrà in via Pascoli, ma non ne era affatto un allievo.
La sua fantasia, animata da un colore veneto (Birolli di Verona), non sopportava di rinchiudersi nello schema chiaroscurale della pittura del Novecento vincente, preferiva esaltare l’aspetto strano dei circhi di periferia coi loro variopinti clown e l’aria limpida delle domeniche di festa (La Nuova Ecumene, Domenica delle Palme, il ricordo di una festa in Sicilia dove egli si era recato per trovare il suo amico Guttuso). Birolli aveva una gran voglia di gioia, di celebrazione decorativa come quella dei maestri del Quattrocento veneto. Nella sua opera non vi era alcuna traccia di quella sofferenza espressionistica che poi a torto gli è stata attribuita.
Voglio chiamare avventura questo incontro di artisti e critici (ricordo bene Sandro Bini, cultore di Birolli, che morì sotto un bombardamento nel 1944). Essa si concretizzò quasi subito in quel movimento artistico che, dalla rivista, è stato chiamato Corrente e che, sulla prima spinta di Birolli, Sassu e Guttuso si nutrì di due artisti straordinari, Bruno Cassinari e Ennio Morlotti. Giova confermare che esso fu un movimento che ruppe con l’idealismo concettuale, più o meno neoclassico, del Novecento milanese.
È bene ricordare quegli anni determinanti dell’anteguerra prima che la riscoperta dell’arte francese, specialmente di Picasso, nel dopoguerra, trascinasse alla trasformazione del gusto.
Si capì subito che Cassinari non era un seguace di Birolli, era un personaggio nuovo che si affacciava sulla scena italiana. La sua sensorialità (più che semplice sensibilità) lo teneva al disotto dell’idealismo di Birolli, ma nello stesso tempo la carica umana di Cassinari lo poneva al di sopra della prima fase di Corrente, sciogliendo la rigidità dei principi estetici del primo Birolli. Io sono stato testimone di questa dialettica in progresso che manteneva un legame, ma anche separava, il carattere di questi amici artisti. Fin da principio, appena Cassinari era uscito dall’Accademia di Brera dove con Morlotti era iscritto alla scuola di Aldo Carpi, il pittore aveva superato il senso decorativo della prima fase birolliana per comporre figure veramente umane intorno alle quali si concentravano oggetti e fondi dipinti in funzione rappresentativa.
L’arte di Cassinari è stata fin da principio salutata dal successo che ha toccato un vertice importante con il Premio alla Biennale Veneziana del 1952, quando Bruno era ancora giovane, successo che poi si è confermato internazionalmente con una grande mostra alla Kunsthalle di Darmstadt e poi con tutta una serie di “antologiche” che si sono concluse con quella che la sua città Piacenza gli ha dedicato, curata da Gian Alberto Dell’Acqua, con 67 opere di pittura e scultura e numerosi disegni.
Ma se abbiamo insistito sugli esordi di questo artista, fortunato fin da principio, da quando vinse il primo premio nazionale ai Littoriali della Pittura (1939) e ottenne un premio importante nel famoso Premio Bergamo del 1942, è per segnalare l’originalità di questo artista fin dagli inizi.
In questa mostra di Lecco rivediamo opere come La Madre (1936), Casa sulla collina (1946), Il Priore di Graveglia (1948), Il cappello verde dello stesso anno. Viene a mente che Cassinari fu presentato per la prima volta non da un critico ma da un letterato del livello di Elio Vittorini che vide nel giovanissimo pittore uno che “scavava il mondo per strappargli grida di colore” e concludeva che “una grazia gli ha perforato le mani”.
Ebbene oggi, a dodici anni dalla sua morte, si ritorna lì: Cassinari, dotato di quella grazia, ha percorso la sua vita inventandosi, rinnovandosi in una lunga collana di immagini colorate che si distinguono nella storia dell’arte del XX secolo per averci donato momenti di felicità in mezzo al pianto e alle tragedie del secolo. Cassinari ha saputo sollevarsi sopra di esse per restituirci la felicità del vivere.
Quando vidi i primi quadri di Cassinari, che allora aveva già il suo studio in Via San Tomaso, fui colpito da quella sua capacità di cesellare il colore di una “natura morta” cosicché i frutti di un arancio tagliato, un limone, una pera, brillavano di una luce intensa e piacevole, incastonate nei ramagi di una coperta, senza chiaroscuro tonale. Abituati al chiaroscuro novecentesco, che dava il senso di una perenne penitenza, quelle immagini mi sembravano una vittoria della luce sull’ombra.
Cassinari, prima che da pittore, aveva studiato da orafo. Aveva forse trasferito il gusto del cesello sulla tela colorata? Il colore di Cassinari era diverso anche da quello degli amici di Corrente, non il rosso ossessivo di Sassu, non quello drammatico di Guttuso, non quello chiarista, di alta decorazione, di Birolli.
Perché? Come si spiega?
Non si tratta soltanto di un fatto formale né di disposizione naturale di temperamento. Ammesso che nel movimento di Corrente si manifestasse un indirizzo generale verso il realismo, ciò non voleva dire che ciascun artista non scegliesse la sua particolare “realtà” nell’ambito di questa cultura. Cassinari, per quanto antifascista, per quanto alieno ai rumori di guerra (sono noti i suoi continui tentativi di evitare il servizio militare) manifestava la sua reazione alle sciagure del fascismo e della guerra dipingendo quella Pietà (1942) che è una chiara immagine del dolore nell’accoglienza del Cristo morto in un dolce manto di colore verde.
Più che alla agitazione per un mondo nuovo Cassinari si sentiva disposto a recuperare la verità, fuori dalla retorica formalista, del mondo contadino, la bellezza di un fiore sul chiarore di una sedia impagliata, il faccino pulito di una ragazzina di paese come Rosetta. Il massimo della cruenza per Cassinari era un Bue squartato, ma non così tragico come quello dipinto da Mafai in quegli stessi anni, visto invece con quella ammorbidita dolcezza con cui per Pasqua, nelle macellerie di paese, si presentavano queste povere bestie squartate tutte infiocchettate di carte colorate.
D’altra parte, nella sua forte ritrattistica del tempo, il colore di Cassinari si modula di grigi, marroni, bianchi luminosi. Dopo La Madre, che si staglia come monumento perenne nell’immaginario di Cassinari, ecco il Ritratto di vecchia signora con la sua armonia di grigi e di bianchi. È del 1943.
Dopo la fine della guerra Cassinari, come il suo amico Morlotti e il giovane Treccani, fu coinvolto in un vortice, di cui al momento non ebbe forse neppure coscienza. La rivista Il ’45, promossa da Elio Vittorini, che intendeva rilanciare la cultura italiana umiliata e cancellata dalla guerra, sul piano europeo, lo ebbe tra i collaboratori; poi tutte le vicende che portarono alla Nuova Secessione e al Fronte Nuovo delle Arti e alla successiva rottura del medesimo; infine il viaggio a Parigi con Morlotti e la “scoperta” di Picasso.
Dovrei dire “riscoperta” perché Picasso è stato famoso come maestro del Cubismo, ai primi del secolo, ammiratissimo poi dai pittori del Novecento (ne riporto una testimonianza personale). E la generazione successiva, la mia, conosceva benissimo Picasso.
Si trattò dunque non di una scoperta ma di una “riscoperta”. E tra il formalismo cubista e quello neoclassicista del Novecento, fu sollevato sull’altare dell’arte il Picasso che aveva fuso la forma cubista con i contenuti tragici e assillanti di Guernica, la cittadina spagnola che fu la prima a subire la distruzione ad opera dei micidiali bombardieri dell’aviazione nazista al servizio dell’esponente massimo della reazione fascista, il generale Franco. Il grande pannello di Guernica, esposto nel padiglione della Repubblica spagnola nell’Esposizione Universale di Parigi del 1937 diventò subito il simbolo della barbarie nazifascista, ma molti non capirono quel “simbolo” che sarebbe presto ritornato realtà, nella pratica delle distruzioni che i nuovi strumenti di guerra, quelli aerei, caratterizzarono la seconda guerra mondiale.
Il pannello di Guernica era rimasto nascosto per tutti gli anni di guerra e dell’occupazione tedesca dell’Europa, fu riesposto al pubblico nel primo dopoguerra. Il viaggio a Parigi dei nostri giovani artisti fu come un pellegrinaggio alla Mecca, essi riportarono in Italia il culto di Guernica come fosse la reliquia di un santo.
Anche Cassinari fu toccato dalla magia picassiana, ma non in senso religioso, nel culto di Guernica. Fu incantato invece dai dolci riposi picassiani sulle coste del Mediterraneo, tanto che dal 1949 Cassinari stabilisce temporaneamente un soggiorno ad Antibes, vicino alla villa di Picasso.
In sede critica retrospettiva bisogna fare un passo avanti per capire il passaggio di Cassinari in quegli anni che ci portano in pieno alla sua stagione felice degli anni Cinquanta. Nel libro pubblicato dal Milione nel 1950, definivo l’arte di Cassinari: “Strappare al contingente un barlume di vita, tanto bella, che fugge o che si corrompe lasciando l’amaro, per accrescere il grande popolo dell’arte di un nuovo esemplare. Questa umanità monumentale, ma sanguigna, sostenuta di stile ma mai stilizzata, vive in paesaggi semplificati, in mezzo ad oggetti assaporati, in quei paesaggi e in quelle nature morte che Cassinari non contamina mai con le sue figure. Perché uno dei due elementi diventerebbe occasionale rispetto all’altro, quindi estraneo al mondo fantastico di Cassinari; e bisogna invece ricostruirlo validamente, centimetro per centimetro, perché viva eterno. Questo importa a Cassinari”.
Mi sembra che questa sia la chiave per spiegarci il progresso di Cassinari fino al periodo di Antibes e oltre, fino alla fine del suo percorso. Partendo da un dato di natura, i paesaggi, le nature morte, le figure (nudi e ritratti) si compongono in un insieme “astratto-concreto” (per usare una definizione di Lionello Venturi), creando un universo in cui tutti gli elementi, che a sé stanti non andrebbero oltre il significato naturalistico, tutti insieme, perdendo la loro specifica identità figurativa, creano un’armonia superiore che trasfigura un porto in una natura morta, un nudo in un paesaggio, un ritratto in una metafisica composizione.
Gli elementi formali del cubismo sono adoperati da Cassinari con spigliata naturalezza perché egli fino all’ultimo non ha accettato la valenza formalistica, astratta, del cubismo. In tal senso egli è stato sempre deciso. In una intervista con Toti Scialoja aveva affermato: “La mia pittura non potrà mai essere astratta nel senso che essa non potrà essere staccata dalla realtà delle sensazioni, né avulsa dalla gioia e dalla presenza delle cose”.
Quasi per timore di perdere il suo senso del reale, dopo i successi degli anni Cinquanta, Cassinari si accosta alla scultura, a incominciare dagli anni Sessanta. Fin da giovanissimo Cassinari si era cimentato nella scultura, i ritratti della madre, di Enrica, che hanno una valenza monumentale che ci riporta ai ritratti dell’antico ellenismo.
Poi c’è un salto, Cassinari riprende a modellare dopo il 1960. Dapprima risorge come un’icona il volto della vecchia madre, poi all’improvviso c’è un salto di stile, guizzano come uscissero dal chiuso di una stalla i suoi cavalli, s’impennano nel canto acuto i suoi galli, si arroccano nella loro agile potenza le sue capre, le sue mucche.
Lo stile della sua scultura non si differenzia molto da quello della sua pittura, è vibrante, eccitante, moderno, come la scoperta di un oggetto in una vetrina illuminata. È come se Cassinari estraesse da un contesto pittorico questi suoi animali per presentarli nella loro massima vitalità, un fiotto di animazione, un desiderio di dare concretezza ai suoi dolcissimi sogni. Confrontando i quadri di Cassinari con tutti gli incastri di colore che danno loro un aspetto di astrazione con le sue sculture dello stesso periodo, si può pensare che il pittore abbia voluto dimostrare di non aver mai perduto nell’astrazione il senso del reale oggettivo e di continuare così quel romanzo della natura che egli aveva iniziato sulle colline di Gropparello, sui fiumi di Brianza e sul mare di Antibes.
In sede retrospettiva, in occasione di questa bella mostra di Lecco, mi piace di chiarire senza indulgere nel frasario critico, che dagli anni Sessanta in poi la pittura e la scultura di Cassinari corrispondono insieme alla volontà dell’artista di narrare la vita secondo la sensibilità del momento, ora il sogno, ora la concretezza dell’immagine. E alla base di tutto sta il disegno, che qui è assai largamente rappresentato anche nelle tecniche colorate.
Cassinari è stato sempre un grande e continuo disegnatore; fin da quando l’ho conosciuto negli anni Trenta Cassinari disegnava, disegnava. Non sapeva neppure lui se l’immagine disegnata gli servisse per una pittura o per una scultura. C’era il bisogno di concretizzare un’immagine, perché Cassinari è sempre partito dalla realtà e non è mai stato un artista “astratto” nel senso che questo aggettivo ha preso nel nostro tempo.
Questa mostra che il Comune di Lecco gli dedica sta qui per confermarlo e mi fa piacere, come suo fedele compagno di strada, di confermarlo.
Raffaele De Grada
Ottobre 2004

Bruno, un principe a Brera
Parlare di Bruno Cassinari è, per me, dire di un fratello maggiore che mi voleva sempre più legato alla qualità del mestiere, perché mi stimava o perché lui stesso voleva perdersi nel mare della pittura per una ragione di vita.
Nella cittadella inquieta di Brera che si presentava come depositaria tradizionale dell’arte, Bruno era il principe perché il fascino dei suoi dipinti traboccanti di un colore sontuoso, vario e ricco che mi ricordava la grande pittura veneta, erano un sigillo per tutti. Letterati e poeti li amavano, incantati dalla tavolozza di verdi, viola, bruni che animavano l’opera: ne parlavano Quasimodo, Gatto e molti altri; Vittorini poi mi ha detto della emozione provata nel vedere la piccola tela di una “Deposizione”, nello studio di Bruno, parecchie volte in occasione dei nostri incontri.
Morlotti, di ritorno da Mondonico e Gropparello, dove era stato con Cassinari a dipingere, mi diceva che non riusciva a capire come, dipingendo di prima stesura, Bruno riuscisse a farti sentire l’umidità delle erbe e degli alberi nei suoi paesaggi.
Facilità forse, ma anche amore profondo e tenero verso la natura e la pittura che si congiungevano.
Quando Cassinari era fuori Milano, ad Antibes o a Parigi, mi scriveva spesso chiedendomi di andare nel suo studio a vedere se tutto era tranquillo e se la vecchia Maria che ne aveva la custodia stava bene.
A Parigi, dove lui si era trasferito per breve tempo, c’incontrammo: vedemmo, ovviamente, chilometri di pittura. Lui sempre più vivace e attento perché aveva l’arte nel sangue che lo spingeva fatalmente nel grande mare del quale dicevo prima.
Giuseppe Ajmone
Romagnano Sesia, 20 novembre 2004

Inaugurazione: sabato 18 dicembre 2004, ore 18

sedi:
Villa Manzoni • da martedì a domenica 9.30 - 17.30 • lunedì, Natale e Capodanno chiuso
Torre Viscontea • da martedì a domenica 10.30 - 12.30 / 14.30 - 18.30 • lunedì, Natale e Capodanno chiuso
nei giorni 19 - 23 - 24 - 30 - 31 dicembre e 2 - 6 - 7 - 8 - 9 gennaio 2005 Torre Viscontea apertura fino alle 23.00

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