Galleria De' Foscherari
Bologna
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Gianni Piacentino
dal 21/1/2005 al 22/3/2005
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Galleria de Foscherari




 
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21/1/2005

Gianni Piacentino

Galleria De' Foscherari, Bologna

''Gli elementi di design grafico e industriale che Piacentino utilizza nelle sue opere piu' recenti possono essere interpretati come un tentativo del 'modernismo' di sanare la contrapposizione tra arte e design, sottomettendoli a una forma che segua una logica funzionale. L'atteggiamento di Piacentino invita a porci delle domande e a rivedere le nostre aspettative sul ruolo e l'immagine della bellezza, della politica e della critica.''Saul Ostrow


comunicato stampa

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Nel 2004 scrissi una presentazione per il catalogo della mostra di Gianni Piacentino alla Galleria Esso di New York. Quel saggio esaminava le affinità fra le opere di Piacentino degli ultimi trent’anni e le varie istanze di mercificazione, paternità e l’estremo modernismo che avevano finito per circoscrivere l’arte contemporanea. Quello scritto legava il lavoro di Piacentino alle opere di John McCracken, Richard Artschwager, Scott Burton, Sal Scarpitta, Panamarenko e Alighiero e Boetti, artisti che inserivano la loro arte nelle incongruenze della vita quotidiana invece di conformarsi al razionalismo dell’industria e della scienza. Questo approccio faceva apparire le loro opere iconoclastiche e bizzarre mentre senza saperlo dietro a questa facciata di eccentricità tali artisti davano il via all’ironia e alla riappropriazione della vita di tutti i giorni tipiche del Post-modernismo.

Oggi, grazie alla critica post-modernista degli anni ottanta e all’attuale indagine su cosa sia “contemporaneo”, si pensa che la Pop Art e il Minimalismo abbiano contribuito a ricollegare l’arte a una complessa rete di questioni sociali, estetiche e politiche. In questa ottica, nuova e approfondita, il Minimalismo non viene più visto come una strategia finale e la Pop Art non viene più considerata come un semplice riflesso della cultura di massa. Al contrario, si crede che abbiano reso chiare le condizioni della società industriale e gli effetti che questa ha sulle nostre vite su un piano estetico, operativo e concettuale. Nel mio saggio precedente dimostravo che questa comprensione della complessa natura della relazione tra la cultura e le sue radici industriali erano state implicite nel lavoro di questo artista fin dalla fine degli anni ’60. Ciò lo ha portato ad amalgamare minimalismo e cultura di massa, con l’aggiunta di “alto” design, portando il suo lavoro ad un livello che trascendeva le istanze della storia dell’arte e della cultura di massa rappresentative della politica degli anni 60. A guardarlo adesso si nota come il lavoro eterogeneo di Piacentino affrontasse esplicitamente questioni di funzionalità, paternità e mercificazione in un modo che non sarebbe risultato ovvio fino agli anni novanta con l’avvento della critica al Minimalismo e alla Pop Art.

Di conseguenza, inquadrando le opere di Piacentino fra Pop Art e Minimalismo, Il mio intento è questa volta di sottolineare come il suo lavoro abbia affrontato i temi più ampi della separazione storica fra arte e design e dell’attuale assottigliarsi di questa demarcazione. In breve dalla fine della Rivoluzione Industriale la separazione tra arte e design, nata durante il Rinascimento, è divenuta una contrapposizione estetica e concettuale. Il contrasto fra le due correnti nasceva dalla convinzione che le tecniche e i risultati di artigiani altamente qualificati fossero differenti per qualità e funzionalità dalle opere dell’artista; esse racchiudevano strutture narrative molto complesse e un contenuto estetico altamente sviluppato, anche se non necessariamente raffinato. In altre parole, anche se l’arte richiede abilità tecnica, capacità di progettazione ed effetto decorativo, il suo scopo ultimo è di trascendere tutto questo.

Gli elementi di design grafico e industriale che Piacentino utilizza nelle sue opere più recenti possono essere interpretati come un tentativo del “modernismo” di sanare la contrapposizione tra arte e design, sottomettendoli a una forma che segua una logica funzionale. Questa concezione tende a unificare arte e design scegliendo o di eliminare del tutto la necessità dell’arte o rendendo arte e design una cosa sola, come nella visione utopica nata agli inizi del 900 che auspicava la creazione di un mondo più suggestivo da un punto di vista estetico.
Indipendentemente dalla scelta fatta, le arti visive sarebbero dovute diventare il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo della società; l’artista sarebbe stato trasformato in un tecnico e ricercatore e il suo studio in un laboratorio di ricerca. Alla fine degli anni 30, il graphic designer Paul Rand sostenne una tesi simile negli Stati Uniti. Rand basava le sue idee su una risposta data da Aristotele a Platone in cui egli sosteneva che l’arte è (moralmente) buona in quanto capace di farci conoscere le “cose più alte” nella vita

Migliorando la qualità della vita quotidiana, si pensava che artisti e designers potessero contribuire a riordinare i campi della vita domestica, sociale e culturale. Di conseguenza si pensava che artisti e designers avessero un ruolo di eguale importanza al fine di realizzare tale scopo. La diffusione di questo punto di vista spinse gli artisti a esplorare le regole del design e della produzione industriale e tridimensionale. A loro volta, i designers applicarono ai loro prodotti le dissertazioni estetiche e concettuali dell’ arte dì avanguardia. Di conseguenza, nonostante la concezione diffusa che vedeva arte e design come opposti fra loro in quanto racchiusi in situazioni diverse, i due finirono per unirsi nella ricerca del rapporto fra segno materiale e costruzione del significato. Questa visione fu espressa al Bauhaus e nella filosofia produzionistica del Costruttivismo che, posto di fronte a prodotti di largo consumo progettati male, cercò di migliorare il gusto della gente comune e di accrescere il desiderio di beni di alta qualità.

Ciò nonostante, quando verso la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 la Pop Art e il Minimalismo iniziarono ad affermarsi come stili particolari essi furono interpretati come una risposta piuttosto cinica alla tradizione modernista e come una critica alla società industriale, invece di essere visti nel contesto della discussione modernista sul rapporto tra arte e design. Il Minimalismo fu visto come un’espressione di essenzialismo Platonico visto attraverso una estetica industriale, mentre la Pop Art venne interpretata come il riflesso della cultura di massa e del materialismo volgare della società contemporanea. Invece di essere viste come un tentativo di abbracciare e redimere le qualità della cultura di massa, vennero considerate come una critica distruttiva. Di conseguenza i critici conservatori bocciarono le opere degli artisti minimalisti e pop giudicandole una ripresa dell’anti-arte e dell’anti-estetismo promossi dal DADA e dal Costruttivismo. Dal canto loro i sostenitori della Pop Art e del Minimalismo sostennero con convinzione che questi movimenti erano realmente progressisti in quanto sfidavano la condizione e la natura dell’opera d’arte stessa. Così la Pop Art e il Minimalismo vennero sostenuti non solo perché affrontavano le banalità della cultura di massa, ma anche per l’utilizzo di tecniche industriali, come critica dell’ originalità e dell’ unicità dell’opera d’arte. Quest’ultima idea portò alla produzione di multipli e di posters d’ arte che rappresentarono un ulteriore passo verso il declino delle forme d’arte e dei mestieri tradizionali, nonché della concezione dell’ artista come “creatore d’arte”. In questo contesto Andy Warhol, Donald Judd, Frank Stella, Sol LeWitt e altri ancora modellarono un nuovo ruolo dell’artista come progettista, supervisore o lavoratore.

Pertanto, mentre la scultura negli anni 60 assumeva nuove espressioni, essa finì per trasformarsi in tutto quanto non fosse pittura. Ciò portò alla creazione di nuovi oggetti eterogenei che rafforzarono il rapporto fra arte e design da un punto di vista sia estetico che di rappresentazione. Un esempio è l’adozione da parte di Piacentino sia di materiali industriali sia di regole estetiche e di produzione nel corso della sua lunga carriera. I dipinti a pannelli momocromi di Piacentino e le forme geometriche lineari, tridimensionali e architettoniche divennero così la soluzione ai problemi ereditati dalle generazioni precedenti di artisti moderni. Di conseguenza, per spingersi oltre, Piacentino scelse di rendere esplicito quel lato della tradizione modernista che era stato a lungo represso, ossia la convinzione che arte commerciale e design industriale fossero in realtà l’espressione più vera dei valori della società contemporanea.

A prima vista il lavoro di Piacentino, con il suo stile raffinato, non sembra particolarmente critico o teso al confronto. Eppure l’aspettarsi una critica rivelatrice è di per sé una conseguenza della nostra assuefazione all’ironia, al cinismo e allo stile anti-estetico tipico dell’avanguardia storica, sempre pronta a farci sapere quando un artista andava contro al gusto borghese. Invece l’atteggiamento di Piacentino ci invita a porci delle domande e a rivedere le nostre aspettative sul ruolo e l’immagine della bellezza, della politica e della critica. Abbracciando apertamente non solo il design ma anche la sua qualità quasi decorativa, l’autore sembra riconsiderare le origini del modernismo nel contesto della promessa dinamica dell’età della macchina. In questa prospettiva i suoi recenti loghi, i trofei, i pannelli smaltati e le forme cromate che sembrano quasi far parte di un qualcosa (?) continuano a far riferimento al funzionalismo e alla qualità istituzionalmente banale del design grafico e industriale. Piacentino fa propri gli obiettivi del modernismo rifiutando la duplicità che ne ha causato l’inerzia, la standardizzazione e il materialismo riduttivo. Di conseguenza, il suo lavoro opera tra sfera pubblica e privata, dando voce ad un nichilismo sovversivo che riflette su se stesso. Ciò esprime l’idea che il design è un’attività simbolica e non semplice valorizzazione, moda o abbellimento.

Quasi a chiudere il cerchio, Piacentino ha iniziato a ricollegarsi al suo passato minimalista. Il suo immaginario presenta sempre più elementi stilizzati rendendo più ambigua la contrapposizione fra arte e design, tra prodotto e decorazione. Come per Jorge Pardo, Jim Isserman e Andrea Zittel, esponenti della nuova generazione di artisti, l’interesse di Piacentino per il design non è solo una questione di gusto ma mostra anche come ogni periodo crei una firma riconoscibile che codifica e progetta i propri valori e i propri standard. Di conseguenza i lavori che ne derivano assumono il formato tradizionale della pittura, anche se l’elemento di design e la composizione – che ricordano quelli dei posters – creano prototipi di design e di articoli promozionali. Piacentino non mescola i limiti tra queste due pratiche ma a suo modo le smonta, scoprendo i messaggi compositi che nascono da quanto viene incluso ed escluso da ognuna di queste due pratiche. Di conseguenza l’oggetto enigmatico che ne risulta pone domande su cosa potrebbe differenziare i prodotti dell’arte e del design da un punto di vista funzionale e concettuale.

Distinguendo sia le affinità sia le distinzioni che potrebbero esser fatte fra arte e design, le opere più recenti di Piacentino – come quelle esposte in questa mostra – spiegano che tale differenziazione non è solamente una questione di contesto o di funzione sociale. La natura indeterminata del suo lavoro, come anche il design non funzionale o quello realmente appropriato, mostra come gli stessi principi tendano verso fini che si possono considerare nettamente diversi fra loro. Perciò gli “elementi grafici” e la stilizzazione che usa non sono semplici mezzi al servizio della promozione commerciale, anche se vi fanno riferimento, ma in realtà si affermano come una forza estetica e spesso enigmatica nascosta dietro a quanto c’è di familiare e piacevole. In questo modo il design non viene considerato alla stregua di un’attività supplementare, ma come un modo per rappresentare visivamente un insieme di idee e prospettive che possono essere assunte come cruciali per i tecnici dello stile e del design. In quest’ottica gli elementi di design che egli utilizza sono venati di una nostalgia che ricorda il periodo ottimista in cui le macchine producevano oggetti dalle superfici brillanti e luccicanti con la promessa di un futuro migliore per far fronte all’incertezza economica. Forse riconoscendo questa situazione Piacentino continua ad oscillare tra la creazione di oggetti che aspirano a rappresentare metaforicamente il loro passaggio da oggetto a simbolo e la creazione di oggetti che rappresentano semplicemente se stessi. L’artista lascia palesemente a chi osserva il compito di mediare tra queste due proposte.
Saul Ostrow

Opening 22 Gennaio 2004 ore 18,30

Galleria De' Foscherari
Via Castiglione 2/b 40124 Bologna, Italia
Orario:Dal Lunedì al Sabato: 10:00-12:30/ 16:00-19:30. Domenica su appuntamento.

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Michele Sambin
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