Associazione Niepce
Alberobello (BA)
via Pola 15
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Alberobello Fotografia 2000
dal 10/11/2000 al 3/12/2000
080 4323291
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Associazione Niepce




 
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10/11/2000

Alberobello Fotografia 2000

Associazione Niepce, Alberobello (BA)

Non c'è più differenza tra la visione del cinema e quella della fotografia. Resta solo la consapevolezza di uno sguardo che supera la contemplazione e si fa immagine. I tempi si dilatano, i simboli si dissolvono e le storie si disperdono nel silenzio che penetra direttamente nell'emulsione della pellicola.


comunicato stampa

L'incontro con la visione.

Nel film "Una strana coppia di suoceri" di Arthur Hiller c'è uno scambio di battute tra i due protagonisti che potrebbe riassumere tutto il dibattito e l'interesse che si è tentato di raccogliere all'interno di questa Vª edizione di "Alberobello Fotografia 2000", dedicata al rapporto fra cinema e fotografia.

Perter Falk nel film interpreta la parte di un agente segreto ed è costretto a raccontare un sacco di bugie. Si incontra con Alan Arkin, che interpreta la parte di suo suocero, un tranquillo e pacifico dentista. Le bugie dell'agente segreto sono davvero imbarazzanti, una poi è davvero grossa. Ad un certo punto dichiara di aver assistito di persona ad una scena agghiacciante: "..una serie di mosche giganti che rapisce bambini".

Il suocero dentista, sarcastico e infastidito, mette in dubbio e si sente preso in giro. Ma a sostenere la "butade" interviene la moglie: "Ma certo caro, non ricordi che in quell'occasione delle mosche giganti scattasti anche quelle bellissime foto che poi non vennero". E così via. Si potrebbe andare avanti con molti altri esempi e ricercare la sottile linea rossa che lega o slega, a secondo dei punti di vista, cinema e fotografia.

Il primo è finzione, sempre e comunque, la seconda è verità, prova, documento, anche quando, appunto, la fotografia non esiste. Come dire, basta il semplice riferimento allo scatto, per dare certezza e credibilità all'evento. Ma il rapporto fra cinema e fotografia non si riduce certamente nella diatriba tra vero e falso. In questo senso, il contributo di alcuni esponenti dell'arte moderna e contemporanea è servito a dare le giuste misure all'interno di un dibattito che altrimenti rischierebbe di restare aperto all'infinito.

Ma anche qui il rischio di andare fuori tema è alto. Cinema d'autore, videoartisti, sperimentatori, videomaker, non troveranno spazio d'azione in una rassegna che vuole invece privilegiare la tematica della visione. Quindi, ciò che più ci interessa è approfondire quel rapporto che trova la sua ragione d'essere in una dimensione capace di trasformare la visione in "commozione della visione".

Così nasce una programmazione composta da 40 foto di Marilyn Monroe: il suo Mito indimenticabile, la sua morbidezza, la sua imprevedibile tristezza, la sua fotogenia, la sua allegria e quello sguardo vacuo, fisso nell'obiettivo. Qui, davanti al suo volto e al suo corpo, cinema e fotografia si fondono in onore di una penetrante nostalgia. Marilyn è lo spunto per una discesa verso l'idea di quel vuoto di cui, chissà perché, spesso si sente la necessità. Al quel mito ne segue un altro. Quello della Magnum.

La gloriosa agenzia, presenza ormai tradizionale nelle precedenti edizioni del festival,con una selezione di 50 stampe racconta il suo punto di vista sul cinema a partire dagli anni cinquanta, mettendo in evidenza le esperienze e la passione verso il cinema di molti fotografi ed in particolare di Capa e di Cartier-Bresson.

Quindi non solo back-stage, non solo foto di scena. I fotografi, in questo festival, sono protagonisti della visione alla stregua dei registi e dei direttori della fotografia. Quel che emerge è una particolare sensibilità del vedere. Quella capacità di raccontare le cose perché ti appartengono e sono lì, pronte ad uscire con naturalezza e semplicità e non perché c'è qualcuno che ti chiede di farlo.

E' il caso della mostra dedicata al Giovanni Chiaramonte intitolata: "Ai confini del mare", riferendosi a Gela, in un capitoletto, quello finale, lo stesso Chiaramonte scrive un testo sulle proprie immagini e dice: "E qui sono sempre tornato, malgrado i morti ammazzati per le strade dalle faide mafiose, malgrado la scoperta del petrolio, malgrado i fatti e misfatti e le cronache vere e le fantasie che hanno fatto di Gela un'immagine dell'Inferno, un luogo comune del vergognoso meridione d'Italia.

Malgrado tutto questo e proprio per tutto questo, le trame sensibili che nella gioia e nel dolore tessono ogni giorno il presente del mondo, i percorsi dell'esistere quotidiano che cercano a ogni istante in me e attraverso me un destino vero e capace di dare senso e compimento alla vita qui mi hanno sempre riportato come alla terra del ritorno, come al luogo del necessario vedere dove lo sguardo, imparando l'attesa, comincia a conoscere l'infinito e ad amare l'eterno".

Non c'è più differenza tra la visione del cinema e quella della fotografia. Resta solo la consapevolezza di uno sguardo che supera la contemplazione e si fa immagine. I tempi si dilatano, i simboli si dissolvono e le storie si disperdono nel silenzio che penetra direttamente nell'emulsione della pellicola. Wim Wenders pare continuare lo stesso discorso di Chiaramonte. Nelle recente mostra milanese, organizzata per il Piccolo Teatro proprio da Chiaramonte, il regista tedesco, a proposito delle sue fotografie, dice: "Ero un pittore e il mio unico interesse era lo spazio; soprattutto paesaggi e città. Sono diventato un cineasta perché sentivo che, al dipingere mancava qualche cosa. Mancava tra un quadro e l'altro, come in ciascun quadro.

Pensavo che mancasse una nozione del tempo. Così quando ho cominciato a fare film, mi consideravo un pittore di spazi in cerca del tempo."

Due media, cinema e fotografia che, nati sotto lo stesso tetto, pensano all'inquadratura come all'elemento principale dell'agire e del comunicare, alla luce come elemento distintivo di carattere. Alla fine viene fuori quella commozione di cui si accennava all'inizio, quella passione per la vita, quel desiderio di riempire un vuoto, di dare un senso alla propria esistenza, di imparare a guardare.

E a questo proposito c'è un film che, in maniera magistrale, cerca di riportare equilibrio fra la finzione del cinema e il realismo della fotografia, tentando di riequilibrare le sorti: "Central do Brasil". E' la storia di una donna e di un bambino. La storia della continuità perpetua della vita, la storia di un incontro destinato a restare indimenticabile. La donna, dopo varie vicissitudini e contraddizioni, cerca di riportare il bambino alla casa del padre.

Lei e il bambino camminano e parlano: La donna chiede al bambino se madre avesse mai avuto una foto del padre. Il bambino risponde che si, ne aveva viste, ma poi qual folto si confondeva. La donna risponde: "..anch'io, a volte, dimentico la faccia di mio padre (pausa di silenzio) con questa merda delle fotografie uno è costretto a ricordare. E se non ne ha voglia."Il loro viaggio prosegue, finché arrivano in un paesino dove si faranno scattare delle fotografie. Le stesse che i due protagonisti guarderanno, simultaneamente, alla fine del film, in due luoghi diversi, con una nostalgia infinita nel cuore ed un desiderio di grande di ricordare, con una occhiata, in controluce, l'immagine di chi si ama.

Il film finisce con la separazione dei due protagonisti. Ognuno di loro ha finalmente trovato ciò che cercava. La scena finale li mostra in posti diversi e con un lieve e malinconico sorriso sulle labbra ognuno di loro guarda in controluce le diapositive con i loro rispettivi volti.

Inaugurazione:
sabato 11 novembre, ore 19.00.

Per informazioni piu' dettagliate:
Associazione Culturale Nicéphore Niépce - via Pola 15 - 70011 Alberobello (Bari) - Tel: 0804323291

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