Mostra dedicata ai lavori recenti dell'artista, in cui si evidenzia la dualita' del suo modo di procedere accostando il gigantismo di un’unica opera e il 'brulichio' di tante minuziose osservazioni sul mondo attraverso piccoli disegni. Vengono presentati un'opera di grande formato che da' il titolo alla mostra stessa, 'Calice di Venere', una scultura di figura umana con testa di leopardo a grandezza naturale e un ciclo unitario di 30 disegni elaborati negli ultimi 2 anni.
Calice di Venere
A cura di Francesco Moschini e Gabriel Vaduva
Si inaugura lunedi' 20 febbraio, presso la galleria A.A.M. Architettura Arte Moderna,
una mostra dedicata a Felice Levini. Nella mostra dedicata ai lavori recenti
dell’artista, si segnala immediatamente la dualita' del suo modo di procedere in quel
suo accostare il gigantismo, se non l’esasperazione dimensionale di un’unica opera e
il “brulichio" di tante minuziose osservazioni sul mondo attraverso tanti piccoli
disegni. Vengono infatti presentati un’opera di grande formato che da' il titolo alla
mostra stessa, “Calice di Venere", una scultura di figura umana con testa di
leopardo a grandezza naturale e un ciclo unitario di 30 disegni elaborati negli
ultimi due anni. L’opera di grandi dimensioni, nella sua appena evocata spazialita'
prospettica da esili tratti di cucitura soltanto “imbastita", si dilata
immediatamente in uno spazio smisuratamente grande, se non cosmico. Ma la stessa
opera sottolinea la propria ricercata ambiguita' attraverso una piccola finestra da
cui occhieggiano un globo, una scia luminosa e una figura riversa agli anelli. Ed e'
proprio quest’opera a fornire la chiave di lettura del complesso universo poetico di
Felice Levini, in quel suo oscillare tra memoria, storia e tensione all’ignoto,
appena indicati da ambigue e depistanti presenze inquietanti. La colta citazione tra
“curva e piega" passa dalla dimensione di pura speculazione matematico-filosofica a
quella scientifica della costruzione a “filo di ferro" della figura che si apre a
calice, quasi attualissimo omaggio alle costruzioni dell’umanista Luca Pacioli. Tra
una vera e propria "disseminazione" di numeri che, quasi gettati tra cielo e terra,
“inghirlandano" la scena cosmica appena stabilizzata dall’irrompere come fosse
un’astronave, di una vuota scacchiera, relitto di improbabili partite mai giocate,
si stagliano, con la propria duplicita', due efebici profili o, piuttosto, uno come
doppio dell’altro, a indicare la bellezza come classicita' a fondamento di ogni
presagio e attesa di futuro. La terribilita' della scultura antropomorfica con gli
accesi e fulminanti occhi della testa di leopardo e le inquietanti mani tatuate, se
ci costringe ad allertarci contro i possibili agguati dei significati nascosti
dell’intero percorso espositivo, ci invita, allo stesso tempo, ad assumere la
quotidianita' prevista da quell’apparente normalita' della figura stessa: un invito a
lasciarsi semplicemente attraversare fiduciosi da quegli accadimenti, da quelle
figure ma soprattutto da quello stratificarsi di associazioni iconiche tra le piu'
disparate, improbabili ed impensabili. Come in veri e propri ritrovati “atlanti
metafisici" vediamo cosi' confrontarsi tuffatori e lumache, cavalieri e farfalle,
navi e scacchiere, locomotive e profili generati dal fumo, trapezisti ed alberi,
squali e personaggi, il tutto con una puntigliosita' di realizzazione ed un
virtuosismo che sottolineano la distanza di Felice Levini dalla strada praticata
solitamente dalle avanguardie, da quelle storiche del primo Novecento a quelle piu'
recenti, che e' sempre stata quella di un fare disinvolto, disincantato e disinibito
in nome di una sempre perseguita “trascurabilita'" dell’oggetto artistico. C’e' in
tutti questi lavori recenti una grande continuita' con l’intero itinerario artistico
dell’autore sin dai tempi in cui, appena agli inizi del proprio lavoro, puntava sul
ricorso ad un’accentuata bidimensionalita' contrapposta a pochi elementi in aggetto
tridimensionali. Anche le sue pareti con insistite e fitte decorazioni “puntiniste"
dai toni bruniti a ridosso delle quali a volte si stagliava qualche reale presenza
umana, si ritrovano ora riecheggiate sotto forma di drappi, di campiture continue
appena interrotte da stranianti presenze di oggetti, di animali o di figure. C’e' lo
stesso ricorso al gusto del paradosso, del gioco dissacrante, con un’ironia a volte
velata di appena percepibile malinconia. Il tutto pero' si presenta senza nostalgia
di “Paradisi Perduti", ma soltanto con una esibita predilezione per l’artificialita'
delle situazioni presentate. Evanescenti sfumati prampoliniani si contrappongono ad
elementari costruzioni geometriche, a rievocare universi infantili, cosi come
squillanti accensioni cromatiche si confrontano con i piu' tenui toni del segno a
matita. Ed e' proprio questo “dualismo" a segnare e a uniformare l’attuale ricerca
di Levini, che si presenta con questo suo continuo oscillare tra universi
contrapposti: icone fluttuanti, in vuoti abissali, ma sempre in formazione unitaria
e compatta, in una sorta di coazione a ripetere, ma nella loro riproposta serialita'
ridotte a “figurine" come fossero stampigliate con un gesto di pura impressione
meccanica. Allo stesso modo si confrontano le frantumazioni insistite, sotto forma
di lacerti, di brandelli, con la propensione unitaria di certe visioni totalizzanti,
a volte forzatamente ricondotte all’unita' con veri e propri cartigli barocchi o con
punti colorati che si riunificano, attraverso dei tratti, come costellazioni in un
cielo stellato. Cosi come la fissita' ieratica di certe immagini, quali il
personaggio “squoiato", michelangiolescamente e mollemente riverso su se stesso,
che si impongono con una voluta centralita' in campi cromatici tesi come sudari,
posti al centro dell’opera, viene messa in crisi dagli squilibri indotti da
enigmatiche aste-traiettorie che difficilmente indicano direzioni o altri percorsi,
ma piuttosto rinviano tautologicamente a se stesse e a null’altro. Anche il tema
dell’appeso, mutuato dal repertorio dei tarocchi, trova un opposto riferimento in
quegli scatti improvvisi di figure che sembrano “obliquamente" uscire, se non voler
fuggire, dal campo visivo, quali i piccoli animali che ogni tanto compaiano. A
rendere poi il tutto piu' paradossale, ma su un tono di divertita leggerezza, se non
di compiaciuta ironia dissacratoria, contribuisce infine l’insistito ricorso da
parte dell’artista a indicazioni scritte, attraverso i titoli dati alle opere
stesse, che cercano di sviare ulteriormente ogni univoca, rassicurante e
consolatoria linea interpretativa, instaurando cosi' un sottile filo di continuita'
con i “numi tutelari", i veri maestri segreti di Levini come Marcel Duchamp, Man Ray
e infine Giorgio De Chirico.
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