Il Giardino del colore. Opere 1974-2006. L’indagine di Paolo Pianigiani e' un'operazione sistematica rivolta all'analisi della qualita' emozionale del segno.
Il Giardino del colore. Opere 1974-2006
L’indagine di Paolo Pianigiani e' volta alla qualita' assoluta e non al segno: e'
il segno che s’instaura nella sua originarieta' lungo l’indagine di Pianigiani,
sino al paradiso, l’altro nome del giardino del colore e del tempo. Un’opera che
giunge alla formula, al dogma, alla cifra, alla qualita' senza l’intento di dover
sollevare lembi d’informulato, come molti informali tentano di fare.
Paolo Pianigiani nasce e cresce artisticamente tra informali, astratti e
concettuali e lo testimoniano i suoi scritti d’arte, come quelli su Luigi Boni e
su Pietro Dorazio, ma integra queste lezioni e la cifra della sua opera non e'
decifrabile tornando (operazione per altro impossibile) alle sue sorgenti. Il
ri-nascimento e' la seconda nascita di cui ci parlano i miti greci e quelli
moderni, tra i piu' recenti quelli inventati da Armando Verdiglione e da Giuseppe
Pontiggia. Ecco, le opere di Paolo Pianigiani ciascuna volta rinascono
originarie, fonti inesauribili, ben oltre la funzione di decoro per il tempo di
una stagione, partecipando alla celebrazione della vita, non della morte, come
si puo' trarre dalla lezione di Felice Naalin.
Paolo Pianigiani non ha bisogno di risalire all’archetipo della dimensione
espressiva che si schiude, agli ordini dell’algebrista Martin Heidegger, che
tanti esecutori geometristi delle sue teorie ha trovato e trova in vari scorci
di secolo. Non ha la vanita' di dire le cose che ancora non ci sono perche' il suo
operare artistico e' una dimensione del dire. Paolo Pianigiani, per quanto abbia
composto e componga rare opere, e' da leggere con liberta' e leggerezza nel suo
mito del gerundio: dicendo, operando, facendo, dipingendo, costruendo. E
certamente, per ciascuno, rimane insondabile il dove la pittura fa vortice e,
nel suo originario valore di produzione, il tono dell’incontro e' la sua cifra,
in rinnovata meraviglia.
Nel giardino del colore di Paolo Pianigiani l’albero e' di vita. Il segno di vita
e' l’albero, la logica. Lo zero e' la radice, inestirpabile, pena di rompere l’uno
in due qualora lo si tirasse. L’uno e' il tronco. Transfinito e' la chioma, i rami
e le foglie. La terra e' il due, l’apertura, la zolla. Il cielo e' il dieci. Il
paradiso e' l’altra faccia del numero, l’aritmetica. Quindi non c’e' piu' chi possa
credere che le tessere di un mosaico monocromo indichino l’attuale sfacelo sul
quale occorrerebbe aprire gli occhi come la sola possibilita' di rinnovamento,
come pensava Samuel Beckett. La monocromia e' il pretesto per indicare il segno
nella sua elementarieta'. Segno di vita: zero, uno e transfinito.
Paolo Pianigiani producendo un’opera, ossia inventando, introduce un senso che
prima non esisteva. Il lettore, piu' che lo spettatore, rischia appunto leggendo
l’apparir del vero di imbattersi nella verita' come effetto, in una distanza
infinita dal pericolo d’incappare in esperienze di verita' sopite, avvertite come
una minaccia. L’opera di Paolo Pianigiani produce un’effettiva trasformazione,
come quella cercata e trovata da Francis Bacon. Questa e' l’influenza artistica,
che non e' mai plagio, contaminazione, infezione, telepathos.
Una materica perlustrazione del giardino, peraltro insondabile, offre l’infinita
tessitura del labirinto; e nel suo disegno preciso, dove ogni tratto e'
insostituibile, conta il cielo che lo sovrasta, leggero, senza piu' i presagi
invocati dall’angelo di Klee, il cui sguardo e' rivolto all’indietro.
Non e' facile leggere l’arte moderna, in particolare l’opera di Paolo Pianigiani.
C’e' chi si chiede se sia ancora necessario descrivere con precisione
l’alternanza tra sensibilita' e intelleggibile che da' vita all’opera.
L’inintelleggibilita' dell’opera moderna - come assolutamente moderna e' quella di
Paolo Pianigiani - serve forse a intaccare la facile intelleggibilita' della
produzione di massa?
Il giardino del colore di Paolo Pianigiani spinge il sentire e il pensare ad
attrarsi e a respingersi, instaurando un dispositivo che poggiando su piani
diversi ma non inconciliabili, si spalanca su una terra incognita da mappare. Ma
la mappa non ricopre la cosa da mappare. Nessuna conoscenza del giardino del
colore di Paolo Pianigiani: nessun comitato elitario della comunita' degli
interpreti puo' limitare l’interpretazione delle sue opere.
Il colore e la spirale. L’oro di Colombo e la striscia di Moebius. Il frutto
dell’albero e il giardino. Nel giardino del colore di Pianigiani l’albero e'
originario. La sua radice inestirpabile. Occorre viaggiare nel giardino del
colore sino a confrontarsi con il limite e la frontiera del tempo, di passo in
passo, di piede in piede, a conferma dell’insensatezza di qualsiasi limitazione
e di qualsiasi affronto.
Il paradiso, l’altro nome del giardino, e' intriso di tranquillita', anche dal
nero al nero su una pagina di colore nero, come nel Labirinto nero, dove il nero
e' colore, come in Pierre Soulage e in Luigi Terrini.
La pittura di Paolo Pianigiani torna nel lettore come pensiero, e l’influenza
artistica, oltre le fantasie di plagio, scioglie la lingua dei litiganti, quella
degli anti-artisti, sospingendola verso l’interrogazione libera, non fondante.
La lingua doppia della normalita' (e dell’anormalita' come suo limite umanissimo)
si scioglie in infinite stringhe che vanno a intessere la trama autentica della
vita. Anche dal bianco al bianco sopra una pagina bianca, come in Labirinto
bianco, al di la' dell’impossibile quadratura del cerchio inseguita da Malevich,
e non solo.
Paolo Pianigiani inizia a tracciare un segno verso il suo destino abduttivo, che
non ha nulla della predestinazione logica, adorata dai piu', i dipingitori
riproduttori postmoderni del medesimo. Originario il suo tracciato, piuttosto
che andare verso la sua origine, che e' solo un ricordo di copertura.
I sentieri del labirinto si biforcano, si moltiplicano, la complessita' pare
darsi come un terribile groviglio, le immagini della foresta e del deserto
cercano di minare la terra, ma il giardino del piacere e' indistruttibile, in
esso nessun percorso puo' darsi per scontato o prevedibile. Giardino instabile,
nel senso di non istituzionale, che nessuno potra' mai coltivare come un suo
orticello, nemmeno quello alla francese fantasticato per la psicanalisi da
Lacan. Giardino dove l’utile e il superfluo non si escudono. Giardino
dell’inesclusione.
Il colore in Paolo Pianigiani convoca il lettore a togliersi i panni del giorno
e come Machiavelli, nella lettera a Vettori, induce, verso sera, a vestirsi dei
panni del lusso per entrare nelle antiche corti a parlare con i classici.
Certamente, Paolo Pianigiani conversa con i classici piu' recenti, da Luigi Boni
a Yves Klein, da Marcel Duchamp a Piero Dorazio; anche perche' i classici non
recenti sono quelli che hanno costruito le citta' e i paesaggi della Toscana e
poi del pianeta, da Giotto a Leonardo, da Masaccio a Fattori, da Pontormo a
Panichi.
Si tratta con l’opera di Paolo Pianigiani di un’esperienza completamente
affidata alla crescita, al cominciamento, all’autorita', al lievito, allo zero,
al seme, al ritorno dell’inidentico, al nome: si staglia dal caos della vita una
striscia assolata di felicita', come l’ha chiamata Kafka, fatta di sentieri e di
bordi. Tra i sentieri: il filo della vita. Tra i bordi: la corda del tempo.
Lunghe striscie di colore sino alla luce dell’intendimento imprevisto. Nastri
che procedono dal vento indotti dal colore, dissipanti la credenza nell’idea
delle cose che passano, che sostano un momento e poi lasciano il vuoto. Idea
data per racchiusa nei colori.
Il corpo e la scena che si combinano nel giardino artistico, nonche' culturale e
scientifico, di Paolo Pianigiani, restano inimmaginabili; eppure sembra che
tutto sia preparato per accogliere finalmente l’inatteso, l’inespresso,
l’imprevisto. La qualita' come effetto. La cifra della vita, che non ha nulla a
che vedere con la presunta decifrabilita'.
Il giardino del colore sancisce l’indecifrabilita', l’incodificabilita',
l’insignificabilita' della vita. Il giardino del colore di Paolo Pianigiani non e'
un cerchio immenso di cui un limitato settore spetterebbe a ognuno...
Ciascun gesto da' luogo a curve capaci di assumere tratti diversi, stagliate su
scenari apparentemente immobili e tuttavia capaci d’essere all’improvviso
squassati da sconvolgenti scosse. Un pandemonio artistico in grado di confluire
in un coerente dispositivo, che e' “compositivo", secondo una precisa direzione.
Striscie sulle quali passare da un’idea a un’altra, una serie molto complessa.
La terra e' un accumularsi di superfici monocromatiche o soltanto intrise di
ombre leggere. Un’alleanza di pellicole che distoglie la pelle dal destino
genealogico. Il film della terra, che non fa piu' pensare alla pelle dell’uroboro
che divorando la propria coda cambia di pelle. Questo e' il canone della
mutazione occidentale, anche per l’arte.
La terra in cui dimoriamo, fatta di inferno e di superno, di labirinto e di
giardino, e' una compagine di strisce irregolari, che sorreggono tenui curve.
Alessandro, l’algebrista di Aristotele, il suo esecutore testamentario in vita,
non potrebbe tagliare il nodo di Paolo Pianigiani.
La ricerca di una forma - precipua della critica formalista - tra le spirali del
labirinto occulta il cielo dell’opera che ci sovrasta. Nel giardino del colore
di Paolo Pianigiani rientrano anni e secoli di giardini. Il giardino del colore
ha la sua altra faccia nel giardino del tempo, da giorno a giorno e da notte a
notte, nel variare del crepuscolo, quando l’ombra sta alle nostre spalle.
Possiamo chiamare tale complessita' con il termine di pluralita' oggettuale del
mondo, senza togliere lo sbocco alla semplicita' e cosi' consegnarsi alla
complicazione?
La striscia trovata, ossia inventata, da Paolo Pianigiani e' irriducibile all’uso
di un materiale da recupero, e' il tracciato del segno, dallo zero all’infinito.
Senza piu' sistema, nemmeno quello morfologico dinamico caro all’epistemologia.
Senza piu' dicotomia morfologica di un’essenza di base, che dovrebbe permettere
di distinguere il bene dal male e invece amputa la vita, il giardino, il
piacere.
L’opera mette in luce un giardino del colore che e' molto di piu' di uno spazio
segnico, dove i critici eserciterebbero l’ermeneutica. In altri termini, il
giardino esige il labirinto, l’antico groviglio, la selva oscura, la parola vera
e propria, sovente illeggibile ai piu'.
La superficie dell’opera e' una serie ritmata di superfici e ciascuna superficie,
segnatamente quella delle stringhe, s’illumina di rilievi che conferiscono una
pausazione al racconto che emerge per il lettore ignoto.
La superficie delle opere di Pianigiani ha maggior rilievo della profondita'
delle parole degli archeologi del senso e dei semiologi del non senso.
Lembi di paradiso, le striscie procedono dalla liberta' e non si aggrovigliano
come un fascio di tensioni incapaci di trovare una fenditura che le porti a
liberazione.
E sebbene per ognuno la luce si fatta anche di piccoli lampi e grandi cantonate,
nel giardino del colore di Paolo Pianigiani si respira l’aria originaria, quella
che non pesa, non soggetta com’e' a nessuna gravita'.
Il gesto artistico di Paolo Pianigiani favorisce la mimesi e l’influenza: non il
mimetismo, non la presunta influenza tra umani, temuta e voluta da ogni teoria
politica.
La “voglia" che prende come un demone del meriggio lo spettatore che guarda le
opere di Paolo Pianigiani e' un modo figurativo di dire quello che noi ci
troviamo a dire in una torsione linguistica inevitabile.
Nella costruzione dell’opera e' singolare e triale il colore insituabile che
punta e contrappunta, da una variazione all’altra dello sfumato, l’itinerario
che porta all’orto dell’aurora. Come l’artista auspicato dal poeta Flavio
Ermini, Paolo Pianigiani inventa “un vero e tangibile giardino".
Il monocromatismo indica l’insostituibilita' del colore. L’acromatopsia e' l’altra
faccia dell’ipercromatopsia. Gli illuminati di Dio e gli oscurati del diavolo
sono categorie della gnosi, dello smarrimento che garantisce di ritornare sempre
al punto di partenza.
Il monocromatismo di cui, secondo alcuni, soffriamo nella vita implica che ci
identifichiamo con esso e questo apre l’autostrada al pluricromatismo che e' la
visione a colori dei piu', non dei migliori, sebbene, come diceva Nietzsche,
anche il migliore ha da essere superato.
Tolto il colore dal giardino, rimane l’orto dell’incuria, dove gli umani trovano
che amore e sesso sono anch’essi vittime del monocromatismo e l’Altro viene
vissuto come strumento che riconfermi il monocromatismo come ideologia dell’uomo
a una dimensione.
I labirinti e i giardini di Paolo Pianigiani si sottraggono a ogni possibile
planimetria, geometria, cosmometria che riduca gli umani al paragone della scala
sociale, alla conflittualita' genealogica, quella che ha trovato in Shakespeare
l’enunciatore di un paradosso, mai rilevato come tale da nessun matematico e
nemmeno da nessun letterato, quello del conflitto non tra due differenti ma tra
due eguali. Romeo e Giulietta e' la storia questa vicenda. Ma il filo, la
striscia, la stringa, lo spago, la corda, non si rompono mai. Questione di
itinerario, non di predestinazione.
La bellezza delle figure che abitano l’indelimitabile giardino, non richiede che
quasi si frantumino nella luce. Sono figure e forme dell’ascolto. I bianchi, i
rosa, i blu, i neri di Paolo Pianigiani entrano nella narrazione originale,
nella memoria in atto, non ricordano l’opera di un alchimista intento a fermare
con le sue formule magiche il colore, come il linguaggio facile direbbe di
chiunque. Per un aspetto, il monocromatismo artificiale e artistico di Paolo
Pianigiani mette in discussione la cromatologia dominante, quella dei cromati e
degli acromati. Quella dell’acromatognosia e della cromatognosia: sempre la
teoria della conoscenza. Discromatismo? Anomalia visiva, forse il primo passo in
direzione del colore come condizione di vita. Visione cromatica? Visione
acromatica? Chi vede il colore? Monocromatismo come monoteisno, senza piu' teismo
ne' ateismo.
Il giardino del colore e' quello dell’inconoscenza, dove l’interlocutore resta
incognito.
Come credere che nella serie dei labirinti sembri venir fuori il bisogno di una
ricerca di armonia di tipo geometrico? Non e' attribuibile nemmeno all’ultimo
Kandinskij.
La nuova pittura di Paolo Pianigiani e' il proseguimento della ricerca, in una
distanza infinita da coloro che ricercano una nuova pittura. Il giardino del
colore promuove l’inatteso nell’evento pittorico e in quello segnico. Dallo zero
alla cifra, attraverso il flusso del segno e il suo influsso. La fluenza e
l’influenza, l’incubo degli umani. Tra la notte e il giorno. La striscia di
felicita' e' quella della verita' indrogologica e insemiotizzabile, che non ha piu'
bisogno di spingere l’oscuro a dirsi e il nascosto a manifestarsi perche' e' gia'
l’assenza di nascondimento. Il fiume che scorre nel giardino di Paolo Pianigiani
non ha piu' debiti con quello greco ne' con quello cinese ne' con quello indiano.
Non e' fiume della morte della parola, perche' sorge dall’albero della vita.
L’albero dell’inconoscenza.
Striscia, stringa, curva, banda, nastro, non linea di fondo, non linea di
partito. Nessuno spartiacque. Nessuno incluso e nessuno escluso nella
federazione degli artisti. Senza piu' casa dell’essere ne' casa dell’avere: il
giardino non e' una comoda e sicura abitazione. Eppure quando c’imbattiamo nel
giardino del colore di Paolo Pianigiani la sensazione e' quella della
tranquillita'. Dall’inquietudine alla tranquillita' sulla superficie operano
ondulazioni di nastri che non si differenziano cromaticamente, senza per questo
esprimere una potenzialita' amorfa, ossia una circolarita' che e' l’abbaglio e la
cantonata di Nietzsche, l’eterno ritorno.
Il giardino di Paolo Pianigiani non e' reversibile, non e' il frutto della
variabilita' di una stessa struttura morfologica. Si tratta di un giardino che
non diverra' mai polvere, ossia le opere di Pianigiani appartengono a cio' che
resta.
Nessuna prolessi e nessuna metessi dell’opera nel giardino del colore di Paolo
Pianigiani; come artista non contende i suoi passi al segno gia' tracciato e
nemmeno al segno non ancora tracciato. Dipingendo le cose si scrivono, restano.
Un monocromatismo che rivela luci e ombre volte a dissipare la presunta
opposizione tra interiore ed esteriore, come nella banda di Moeubius? Pianigiani
non ha bisogno dei paradossi della topologia: le torsioni delle sue strisce
procedono dal paradosso, dalla contraddizione senza quindi approdarvi. Il suo
approdo e' il giardino. Non l’inferno. Anche nel senso che il suo inferno non e'
infernale. Inferno e superno. Labirinto e giardino. Pittura originaria, senza
religiosita'.
Nell’ultima produzione artistica di Paolo Pianigiani ci sono dipinti
monocromatici e anche altri svincolati dallo strumento retorico e pittorico del
monocromatismo. E permane l’onirico, e quindi anche l’ipotesi per cui nei sogni
ci sarebbe un monocolore dominante che ne influenzerebbe l’intero tono e le sue
sfumature. Tale colore onirico e' certamente un richiamo al reale originario.
Mentre poggia altrove, nel fantasma, l’idea che la notte non abbia colori, che i
sogni siano monocromatici. Il giorno ha i colori, la fantasia e' policromatica?
Il colore e' condizione del giardino, non e' un mezzo di comunicazione per
giungere ai nostri sensi e scatenare delle emozioni, delle sensazioni diverse da
persona a persona, in un caleidoscopio personale e introspettivo oppure sociale
e estrospettivo.
In una serie di opere il monocromatismo trova terreno per un’anticonvenzionale
rappresentazione pittorica? Se cosi' fosse consacrerebbe le convenzioni, che si
porrebbero come limite l’opera anticonvenzionale, accettandola senza leggerla,
come nel caso della beffa del ready-made di Marcel Duchamp. Mentre Sandro Trotti
ha esperimentato striscie e monocromatismo, ma e' tentato ancora dall’armonia;
per lui il nudo femminile e' sempre la chiave di volta della pittura perche' e' un
rapporto armonico tra linee curve e rette, un rapporto di grande armonia, mentre
la striscia e il monocromatismo di Paolo Pianigiani procedono da
armonia-inarmonia come ossimoro della vita, per un palinsesto non piu' circolare.
Invece, l’enfasi sul nudo di donna di Trotti ha la stessa materia dello
strip-tease della verita', un aspetto dell’ontologia che e' sempre fondamentale.
La decisione di quali colori utilizzare per la realizzazione delle opere sembra
spesso affidata all’istinto e alla propria sensibilita'. Ma e' da sfatare il mito
diffuso della soggettivita'. Il colore e' condizione e non e' condizionano ne'
condizionabile. Questo per dire che non c’e' in Pianigiani nessun uso estetico e
nessun uso comunicativo dei colori. Inoltre il colore non e' una variabile
grafica a disposizione di un algebrista o di un geometrista. Risulta impossibile
scegliere un colore, non c’e' nessuna facolta' cromatica. E Paolo Pianigiani non e'
tentato dall’algebra e dalla geometria. Non c’e' formula algebrica produttiva ne'
cliche' geometrico riproduttivo (gli esempi reperibili nei contemporanei sono
legione) nel giardino di Paolo Pianigiani, che non si piega all’agroalimentare
artistico (coltivare il proprio orticello o latifondo per sopravvivere).
Troppo pressapochismo e approssimazione travestiti da gusto e sensibilita' sono
stati gli elementi guida di un certo modo molto diffuso dell’arte astratta,
informale, concettuale... non classificabile come figurativa. Ma non e' cosa da
sradicare, nemmeno con un corretto uso dei colori, fondato sulla conoscenza a
fondo della teoria stessa dei colori.
Non appare piu' evidente in Paolo Pianigiani una condizione legata al dibattito
post-bellico tra figurazione e astrattismo, che era il cibo degli artisti che ha
frequentato da giovane. Non induge in figurazioni o in non-figurazioni o in
astrattismi. La provocazione puo' giungere anche in luoghi non deputati,
convenzionalmente, all’arte: una bobina di fibra plastica diviene l’odradeck di
Kafka, il rocchetto del gioco del piccolo Hans narrato e reinventato da Freud,
il nodo borromeo di Lacan.
L’interlocuzione e la risposta di Pianigiani non sono rivolte a determinate
modalita' della struttura formale, non si fondano su un rovello critico attorno
alla figurazione, non sorgono dall’arte informale giunta sino al drammatico o
tragico sentire, divenuto slogan politico. L’opera di Pianigiani resta
propriamente non figurativa, non astratta: ne' formale ne' informale.
Allora, come sorge? Come cresce? Come varia? Nasce e rinasce come un gesto
arbitrario, libero, felice: senza piu' padrini ne' madrine che possano assegnargli
un destino. Oggi Paolo Pianigiani si trova fra monocromatismo e insinuati cenni
di colore. Le variazioni non appartengono a un sistema logico formale, la sua
ricerca trova le proprie soluzioni in una ulteriore e diversa forza espressiva
rispetto alle precedenti manifestazioni.
La rilevazione insostanziale e immentale che deve essere fatta per la ricerca e
per le soluzioni di Pianigiani e' che, entro questo incessante processo, la
logica e la struttura non sono determinati una volta per tutte, come avviene in
alcuni dei casi piu' esemplari contemporanei, dove l’angosciosa inarticolazione
dello spazio dice l’implacabile immutabilita' d’una condizione umana, e al tempo
stesso ne propone, entro i propri grumi e grovigli, l’indecifrabilita'. Non c’e'
questo umanesimo sconfitto in Pianigiani, e non perche' l’indecifrabilita' lasci
il posto alla decifrazione (giunta ai limiti dell’interpretazione con Umberto
Eco e alla semiosi infinita con Jacques Derrida), bensi' per il suo approdo al
giardino, alla sua qualita': cifra che non sara' mai comune.
La vicenda di Pianigiani si presenta dunque come una incessante elaborazione del
segno, svincolata dal dover essere una risposta allo svariare e al mutare, entro
la dialettica storica e culturale. Nessun debito con l’ontologia, ossia con il
possibilismo e l’impossibilismo circolari, quelli di una condizione esistenziale
entro una mutabilita'-immutabilita' categorica.
Sul filo di questi svolgimenti, il suo percorso, dai labirinti ai giardini, si
spalanca sul futuro in atto. Dal pensiero critico di Walter Benjamin al gesto
critico di Mimmo Rotella s’impongo le immagini nel moderno, tra riproduzione e
riciclaggio: megalopoli, giornalismo, folla, pubblicita', pornografia, cinema,
fabbrica... A questo proposito, Paolo Pianigiani non cerca di rappresentare la
realta' postindustriale. La sua opera non e' specchio personale o sociale di
qualcosa, ma partecipa alla celebrazione dell’altra vita, quella che ciascuno
non piu' replicante inventa.
La tensione artistica di Paolo Pianigiani non e' verso l’intervento nel mondo,
non ha nessuna vocazione transitiva. Nessuna concessione, dunque, agli aspetti
auto-referenziali delle tendenze contemporanee che si definiscono come
analitiche. Non si tratta di una riflessione operativa sulle strutture di base
del proprio linguaggio pittorico, esibite nelle loro articolazioni formali, e
simultaneamente proiettata sull’orizzonte psicologico e culturale della vita
moderna o post-moderna nei punti critici del vissuto concreto dell’artista.
Ovvero non partecipa alla criticologia universitaria e giornalistica che scrive
in modo scontato e ripetitivo la stessa zuppa banale semplice comunitaria
all’insegna del parlare facile, del farsi capire da tutti, quando una sola
cucchiaiata di tale zuppa, come “orizzonte psicologico", blocca qualsiasi
digestione intellettuale. Puo' collocarsi Paolo Pianigiani nel solco degli anni
Trenta all’interno dei dibattiti e dei contrasti entro la costellazione
culturale e artistica che tra gli altri include a vario titolo Bataille,
Benjamin, Klossovski, Giacometti e Balthus, che germinano gli anni Quaranta e
Cinquanta negli States in riferimento al movimento culturale e artistico che tra
gli altri include a vario titolo Pollock, Hartung, De Kooning, e fiorisce
tardivamente ancora con Wharol e Basquiat? Si' e no. Leggere Paolo Pianigiani
richiede questa attraversata, ma senza “collocarlo". La collocazione e' sempre
convenzionale, anche nel conio “out-sider" dell’anticonvenzionalismo. Si tratta
proprio di inventarsi i mezzi per leggere l’arte, in questo caso l’opera di
Pianigiani.
Non ci sfugge la logica e la struttura della critica d’arte, e non solo. Proprio
perche' siamo in condizione di leggerla possiamo anche rispondere al piccolo
quesito di perche' talvolta, se non spesso, non sia in condizione di riconoscere
il talento di un autore non noto. Possiamo rispondere volgendo in domanda
l’affermazione del modello riproduttivo del semiologo che dice che pubblica solo
chi e' noto. Ma sarebbe troppo facile.
La stagione all’inferno di Rimbaud qualifica l’analisi della sua epoca: la
stagione infernale. La bellezza laida sulle sue ginocchia e' quella dell’epoca,
non quella che si staglia dalla sua stessa poesia. Monocromatismo? Nel senso di
non occuparsi d’altro che dell’originario, dell’autentico, dell’invenzione e del
gioco.
Il monocromatismo di Pianigiani non e' un ideale che ricorda quello di Yves
Klein. E non perche' il blu di Klein sia leggibile come la conquista del tutto,
dell’immenso universo che ci circonda. Monocromatismo non significa la distesa
infinita del campo spirituale. Lo spirituale e' senza spirito, e talvolta occlude
le vie del sangue, che dilaga nella retorica schizo e che appunto si blocca
nella retorica ossessiva. Il sogno di Klein: l’artista futuro non sara' forse
colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimera' un’immensa pittura,
cui manchera' ogni concetto di dimensione? Ma in Paolo Pianigiani non c’e' la
tentazione di Yves Klein di tuffarsi nel vuoto.
“Yves le Monochrome" indaga il colore originario, la condizione dell’itinerario.
I suoi dipinti, tele di ampie dimensioni, tendono verso qualcosa, come dichiaro'
lo stesso Klein, che non e' mai nato e mai morto, verso un valore assoluto. Ma la
monocromia, principio stilistico fondamentale dell’arte di Klein, fu l’inizio di
una ricerca universale, ossia circolare: e nel suo caso l’infarto smentisce tale
circolarita'.
La ricerca di un punto al di fuori degli eventi terreni e quotidiani? Questo e'
il colore come punto e contrappunto della vita. Il tentativo di raggiungere i
confini dell’infinito, l’idea del vuoto, dell’immateriale, dell’indefinibile?
Questo e' il tempo come schisi, come divisione che non sara' mai spartizione
sociale. Colore e tempo che sono specifici del giardino. Yves Klein intravede
quello che oggi e' il giardino del colore di Paolo Pianigiani.
Nel 1955 Yves Klein presento' un’opera monocroma al Salon des Realite's Nouvelles,
ma fu scartata dalla commissione esaminatrice, che consiglio' all’autore di
aggiungere un punto, una linea o un secondo colore. Tuttavia egli prosegui'
l’esperienza in atto, quella del colore come condizione di vita, non piu'
rappresentazione di “qualcosa" in se'. Il monocromatismo non e' monocolorismo di
campiture di colore potenziale.
L’arcobaleno che si staglia nel giardino di Paolo Pianigiani non s’inscrive in
un luogo geometrico e il suo cromatismo non prescinde dalla voce. L’arcobaleno e'
irriducibile al multicolorismo, non a caso diventato manifesto pubblicitario. Se
il colore dispone la trialita' del punto (quello cercato da Klein)
nell’arcobaleno la voce fuori dalla corale sociale di Pianigiani denota il punto
di astrazione del colore. Questa e' anche la lezione di Dante accolta da
Pianigiani: il sommo Poeta incontra il colore della voce quando si avvede di un
semplice sembiante.
Il cromatismo del sembiante si tripartisce fra il colore dello specchio quale
punto di distrazione, il colore dello sguardo quale punto di sottrazione e il
colore della voce quale punto di astrazione. La sensazione leggendo le opere
(non basta guardarle) di Pianigiani puo' essere quella d’inspecularita' sociale,
di stranianza personale, di vuoto impartecipabile.
Questo punto di caduta, punto di fuga, punto vuoto, inseguito da Klein e' il
colore stesso. La sua stessita' e' singolare e triale.
Nel giardino di Pianigiani il colore e' inconcettuale, impossibile anche
pensarlo, impossibile renderlo plurale o popolare, singolare o personale.
Insopportabile per ogni logia del Chroma. Nessun discorso sulla sfumatura, che
diverrebbe l’altro nome del narcisismo delle piccole differenze. Il paragone e'
delle arti, non tra Pianigiani e Klein, senza evitarne la lettura. E proprio
analizzando le loro opere risulta che persino la colorazione e' un ricordo e,
come tale, falso.
Il colorismo si scontra anche con lo schermo (Fontana taglia la tela non lo
schermo), che rimane inadeguato al colore, e con la meta, che mai raggiunge il
colore.
La lezione di Paolo Pianigiani richiede di riscrivere i dizionari: il colore
proviene dalla stessa radice di celare, nascondere, perche' nasconderebbe le
cose, o piuttosto e' la loro condizione? Senza colore le cose di dispongono al
bianco e nero, senza sfumato, in altri termini al dramma.
Occorre scriverlo? Oltre la cinerea acromia del passato, la pulviscolare
monocromia del presente e la fosforica policromia del futuro, il giardino del
colore di Paolo Pianigiani e' felice, senza piu' tragedia ne' dramma.
di Giancarlo Calciolari
Ristorante Enoteca Amleto
via Covergnino, 26 - Soave (VR)