Quattro amici ammirati dalla grandezza di Virginia Woolf le dedicano una mostra. Un indagine sulle case dove Virginia ha vissuto. Idea letteraria di Giuseppe Bilotta, modelli di Checco Moroso, sculture di Giuseppe Manigrasso, manifesto grafico di Salvatore Pica.
Bilotta, Manigrasso, Moroso, Pica
Quattro amici avvolti e coinvolti dalla grandezza di Virginia Woolf le dedicano una mostra alla memoria. I nostri 4 hanno pensato di far conoscere ai propri seguaci le case dove Virginia ha vissuto, sia a Londra che fuori Londra.
La scultura di Giuseppe Manigrasso
Tra le opere d’arte che ritraggono Virginia Woolf - dipinti, schizzi, fotografie, etc. - vi e' anche un busto in bronzo eseguito da Stephen Tomlin, nel 1931. Per questo scultore Virginia poso' quattro volte. Come racconta Quentin Bell nella biografia scritta suilla zia scrittrice, Virginia, “dopo quattro brevi sedute, fini' coll’arrendersi". Il dovere recarsi allo studio di Tomlin camminando per strade polverose e il posare a lungo per un artista insopportabile e nemmeno molto puntuale, ridussero Virginia in uno “stato di collera e di disperazione". Liberata da quel tormento, lascio' il povero Tomlin desolato con la scultura abbozzata e, come aggiunge Quentin Bell, “senza speranza di riuscire mai a portarla a una soddisfacente conclusione".
Paradossalmente, l’opera, incompiuta come e', assicura a Tomlin l’immortalita'. Benche' l’immagine di Virginia appaia piu' vecchia e “piu' arcigna di quanto fosse", il busto sprigiona una forza indubbia della personalita' della scrittrice. Isolata nella sua grandezza, i suoi occhi vuoti scrutano nel vuoto qualcosa che le sfugge e la costerna. L’immagine, tuttavia, conclude Bell, “e' molto piu' simile a lei di qualunque fotografia".
E’ vero. La scultura di Giuseppe Manigrasso che si aggiunge (non so se ad altre che sono state prodotte dopo quella di Tomlin, negli ultimi sette decenni trascorsi), raffigura Virginia piu' giovane, di profilo, con una espressione tra l’allucinato o l’ispirato. Da pensatrice o profetessa.
Prendo ad osservarla. Giuseppe la modella con tocchi veloci e armoniosi delle sue mani, la plasma a suo modo, l’anima col soffio ardente dell’ispirazione: il suo operare rapido e preciso sembra un rito che si compie in silenzio, segretamente, lontano da occhi indiscreti. E’ come assistere ad una nascita che si annuncia col crisma d’una eccezione senza pari. E’ un genio che nasce? Si. E ha il volto di una donna grande. E Giuseppe lo fa nascere, gli da forma, facendo ricorso alle sovrane facolta' del suo spirito che crea e domina le materie, le espressioni, le regole caduche del tempo. Virginia, figura tra realta' e sogno, e' creata. E’ davanti a me. Con l’alta dignita' conferita da Giuseppe ai suoi lineamenti insieme con l’eleganza dell’acconciatura dei capelli e del nodo che chiude il colletto della camicia.
L’interpretazione e' giusta. Calzante e convincente col modulo e lo stile adottati. (Una certa allusione al rango sociale - l’alta societa' - cui Virginia appartiene e', in qualche modo, percettibile nel lavoro, ma non disturba. E’ resa con naturalezza. Direi di piu'. Essa sembra implicitamente sottintendere che non e' il ceto che conta ma la qualita' umana. Appunto. Che in Virginia eccelle. Doppiamente. Come donna e come artista). Pertanto l’opera vive e respira nella luce con la sua potenza incantatoria. Che, in parte e' rivelata, in parte e' celata. La parte celata e' dovuta alla sua postura. Che, ad arte, Giuseppe ha progettato per preparare, si direbbe, l’osservatore ad una graduale conoscenza della sua creatura. Se, posizionata com’e' col solo occhio visibile attrae non poco, vista di prospetto mostra un volto diverso. Che, a vederlo, suscita l’interrogativo: e' questo il volto vero di Virginia che Manigrasso, con la sua veggenza di artista, e' riuscito a cogliere e a rappresentare in un raptus stupefacente?
Sulle “molteplicita'" di Virginia, molto e' stato scritto. A me preme aggiungere che l’intensita' e la serieta' dei propositi scultorei di Manigrasso celano una straordinaria proprieta' formale, dove la forza non e' mai ostentata, ma presente dentro un equilibrio, una precisa misura, che non viene mai meno qualunque sia il tema trattato.
I modelli di Checco Moroso
L’aspirazione ad una bellezza ideale e il senso della forma e, quindi, quello della “proporzione", sono in Checco particolarmente motivati e coltivati: gli agevolano il perseguimento degli ideali e l’attuazione dei piani.
Probabilmente per tali ragioni i modelli delle case di Virginia che egli ha magistralmente realizzato hanno qualcosa in piu': il potere di commuovere. All’istante. Soprattutto artisti, poeti e animi sensibili. Muovono dal cuore e puntano al cuore. Come i piu' grandi pensieri. La maestria che li modella con semplici cartoni splendidamente colorati di rosa e beige e' dovuta, senza troppo esagerare, ad uno stato particolare di grazia in cui Checco ha operato, quando l’idea del progetto lo ha folgorato e infervorato ad un tempo. Munito delle foto dei disegni di Leonard Mc Dermid si e' messo subito all’opera tra luglio e agosto scorsi dando forma ai suoi prodotti con un ritmo esecutivo esaltante che non scende mai di tono. Eccoli' li', appena ultimati, davanti a me. Li osservo. Convincono a tal punto che sembra che Checco li abbia creati esclusivamente col suo talento immaginativo e il suo gusto senza ricorrere a schizzi preparatori o altri studii. Indubbiamente ha tenuto sotto occhio i disegni di Mc Dermid per un orientamento di tipo formale, ma l’esecuzione di ogni modello e' opera sua e ascrivibile a suo merito.
E’ chiaro che tutti i modelli muovono dalla tradizione classica (intendendo con questa parola la necessaria lezione di grandi opere del passato), per arrivare, senza rotture polemiche, ad una personale sintesi interpretativa. Il loro equilibrio materiale e tonale e' perfetto. Commuove. Lascia negli occhi e nel cuore il segno della perfezione. Gli elementi architettonici variano secondo il loro ordine e il loro stile. Tale varieta' non crea confusione. Tutt’altro. Essa e' positiva. Nel senso che offre una dimostrazione di potenza realizzativa riscontrabile nella modellazione della intera serie. Che affascina il fruitore raffinato di prima acchito e probabilmente anche il fruitore meno esigente. Gli oggetti abitati dalla bellezza sono infallibili: nessuno sfugge alla loro seduzione. Al “coup de foudre" che spesso nasce tra le parti.
Di cio' e' consapevole Checco che sa proporzionare l’esteticita' di ogni modello. Adeguatamente. Senza eccezione. Sempre con la stessa intensita'. A colpo sicuro. Ne consegue che ogni modello affascini sia in gruppo che isolatamente. La finezza che lo distingue e' pari alla finezza che distingue gli altri: e' come se una corrente di energia passi da un modello all’altro. Lo sguardo, tuttavia, continua a passare dall’uno all’altro ammirando la fattura armoniosa di questo o quel dettaglio.
Se la casa di Brunswwick Square Bloomsbury, coi i suoi due comignoli sul tetto che sembrano due piccoli torrioni di guardia, si lascia apprezzare per le gronde, gli architravi, le finestre, i balconi con ringhiere, l’ingresso con arco a tutto sesto con scala esterna e finestrelle sottostanti protetti da una inferriata simmetrica mirabilmente retta, la casa di Clifford’s Inn, a tre piani, coi suoi cernierati finestroni, ha tutta l’aria di un convoglio che misteriosamente e' fermo in quel posto dove lo si vede per una qualche misteriosa ragione.
Della casa di Gordon Square, Bloomsabury, che fa pensare ad una governante impeccabile che si presenta all’appello del Sir da cui dipende, colpisce subito il balcone con parapetto, balaustrata, mensole, posto sul lato sinistro della facciata finemente eseguito, come finemente eseguiti sono i tre balconi centrali con ringhiere. E della Hogarth House che dire? Splendida come una Lady Ottoline Morrell, “che adora le arti" e se ne sta un po’ in disparte senza partecipare ad una accesa discussione tra i membri del gruppo di Bloomsbury, a casa di Virginia, Tavistock, Square, sono preso dalla perfetta linearita' delle gronde, dall’ingresso a doppio battente, dallo stipite e dalla recinzione ferrata. Monk’s House, a Rodmell, col suo tetto a schiena d’asino e i comignoli che dialogano a breve distanza tra loro, piace per la sua semplicita' strutturale: tipica casa di campagna comoda, sicura, tranquilla dove spendere tranquillamente il tempo nel lavoro e nel riposo. The Round House, invece, che sembra edificata per essere abitata da una fata, e' una vera e propria casa fiabesca: piccola, graziosa, col tetto esagonale con qualcosa di orientale nell’impostazione e un tetto spiovente. I muri esterni sono decorati con elementi geometrici vagamente incaici, mentre ingresso e finestrone laterale sono disegnati entrambi con arco scemo.
L’architettura e' per lo piu' di epoca vittoriana. Durante il lungo regno della Regina Vittoria l’urbanistica di Londra conobbe un grosso incremento. Sorsero nuovi quartieri residenziali. Numerosi edifici furono costruiti in tutta l’area urbana che si amplio' notevolmente. L’impero britannico ancora in piedi nella seconda meta' dell’Ottocento celebrava gli ultimi fasti della sua potenza coloniale rendendo Londra piu' grande e piu' bella.
Le case dove Virginia ha abitato risentono di questo respiro vittoriano; ma, la loro ricostruzione in miniatura, per cosi' dire, risente ancora piu' del puro sentimento “edificatorio"che Checco vi ha impresso sia col cuore che con la scienza. E’ innegabile.
I modelli di Checco ricordano che l’habitat e' lo specchio e il prolungamento non solo dell’esistenza di Virginia, ma anche della nostra in ogni luogo del mondo. In tal modo, essi fanno riscoprire il giusto rapporto tra un nostro modello interiore e l’ambiente circostante. E’ cosi'. A tale riscoperta contribuisce anche la plasticita' ad alta definizione che Checco sfoggia. Insuperabilmente. Dietro la quale, ovviamente, si avverte lo studio euclideo della forma portato a graduale perfezionamento nel tempo con un supporto matematico e prospettico neo-rinascimentale. Tali qualita', nel panorama dell’architettura moderna, assicurano un posto di spicco al linguaggio di Checco. Riconoscerne il valore significa che, immortalando nell’architettura la nostra relazione col cosmo, partecipiamo a un opera piu' grande.
Londra
Londra. Come una caput mundi? No. Per Virginia e' piu' semplicemente “the centre of things", il centro delle cose. Cio' non significa che sia solo un centro commerciale o sociale, ma il centro della vita stessa. Londra ha per lei, come osserva Moocroft Wilson, “un significato mistico; e' un simbolo di cio' che variamente lei puo' chiamare “vita", “verita'" o “realta'", una qualita' che cerca di ritrovare nella sua propria vita e trasferire nel lavoro". Londra, infatti, non solo le offre lo spunto necessario per scrivere i propri libri, ma anche il soggetto per essi. Nel diario scrive: “Londra perpetuamente attrae, stimola, ispira a scrivere una commedia, un racconto, un poema senza alcun problema, salvo quello di muovere le mie gambe attraverso le strade". La citta', dove si concentra e freme notte e giorno, la vita di milioni di individui, con le loro storie e le loro abitudini, con le loro speranze e le loro preoccupazioni, coi i loro aspetti sempre nuovi e sorprendenti, nelle strade e nelle piazze, nei parchi pubblici, nei battelli che vanno su e giu' per il Tamigi, nel metro', negli autobus rossi a due piani, e' per Virginia fonte inesauribile di stupore. “Londra e' un incanto" annota in un’altra pagina del diario. E in un’altra ancora: “esco e pongo il piede su magico tappeto giallo fulvo e mi trovo rapita via, nella bellezza, senza neppure alzare un dito. Uno stupore le notti, con tutti quei portici bianchi e i vasti cieli silenziosi. E la gente che sbuca dentro e fuori, leggermente, piacevolmente, come i conigli". (...) Giuseppe Bilotta
Immagine: scultura di Giuseppe Manigrasso
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