Auditorium
Bergamo
piazza Liberta'
035 363087 FAX 035 341255

Davide Ferrario
dal 7/3/2007 al 8/4/2007
da martedi' a venerdi' 16,30-19,30, sabato e domenica 11,30-19,30

Segnalato da

Marzia Milanesi



approfondimenti

Davide Ferrario



 
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7/3/2007

Davide Ferrario

Auditorium, Bergamo

La mostra, in occasione di Bergamo Film Meeting 2007, comprende 70 immagini a colori scattate dal regista nel carcere milanese di San Vittore. Molteplici i temi affrontati: la religione, il sesso, il desiderio di viaggio, la misurazione del tempo che passa.


comunicato stampa

Foto da galera. Capolavori di inconsapevoli artisti del XX secolo

In occasione di Bergamo Film Meeting

In occasione dell’edizione 2007 di Bergamo Film Meeting nella bellissima sede di Porta Sant’Agostino a Bergamo Alta, sarà presentata la mostra “Foto da galera” del regista Davide Ferrario, dedicata agli spazi interni al carcere di San Vittore a Milano.

La mostra comprende 70 immagini a colori che il regista ha realizzato nel 2002 all’interno del carcere. Lo sguardo dell’autore ha indagato gli spazi del quarto e del quinto raggio del carcere, vuoti in attesa di ristrutturazione, raccontando, attraverso le scritte dei detenuti e le immagini incollate sui muri nel tempo, storie personali, desideri, pensieri, ricordi, momenti di vita e di attesa. Le immagini toccano alcuni temi fondamentali quali la religione, il sesso, il desiderio di viaggio, la misurazione del tempo che passa.

Si tratta di un lavoro dedicato a un tema, quello della detenzione, nascosto nelle pieghe della società, ma che riguarda la collettività tutta. Le immagini di Ferrario esposte a Bergamo intendono far emergere un aspetto poco conosciuto della nostra società e costituiscono un invito a riflettere secondo nuovi punti di vista.
Il catalogo della mostra, pubblicato da Mazzotta Editore (112 pagine, 125 fotografie a colori, prezzo 25,00 euro), comprende scritti di Davide Ferrario.

Davide Ferrario (Casalmaggiore 1956) ha iniziato a occuparsi di cinema come critico e distributore per la Cooperativa Laboratorio 80 di Bergamo. Nel 1985 ha scritto la sceneggiatura di “45° parallelo” di Attilio Concari. Ha esordito alla regia nel 1989 con “La fine della notte” seguito da “Anime fiammeggianti” (1994), “Tutti giù per terra” (1997), ”Guardami” (1999), “Dopo mezzanotte” (2004) e “Se devo essere sincera” (2004). È noto anche per il suo impegno politico: nel 2001 gira “Strade di Genova”, una ricostruzione delle giornate del G8.

Dentro

Davide Ferrario

Durante l’estate del 2002, la direzione di San Vittore diede il via alla ristrutturazione del quarto e del quinto raggio del carcere. In quel momento erano occupati da più di ottocento detenuti, contro una capienza prevista di cinquecento. Si trattava di detenuti “giudiziari”, vale a dire con condanna non definitiva o in attesa di giudizio. Le intenzioni di questo enorme trasloco erano ispirate a principi positivi: trasformare una struttura ottocentesca fatiscente e malsana in un carcere moderno, con celle a bassa capienza e servizi igienici decenti (per “servizi igienici” a San Vittore si intende un unico locale largo un metro e venti e lungo cinque, che serve contemporaneamente da cucina, gabinetto e doccia). In pratica, lo spostamento dei detenuti diventò un esodo forzato nel quale i carcerati furono costretti, da un giorno all’altro, a sbaraccare le loro esistenze quotidiane per trasferirsi temporaneamente in altri istituti, spesso perdendo per un po’ i contatti con la famiglia. I due piani dei raggi rimasero vuoti e silenziosi. Chiesi alla direzione di poterli visitare.

Entrando, un pomeriggio di settembre, la sensazione che provai fu quella della scomparsa repentina di un popolo colpito da un cataclisma. In mezzo al corridoio erano buttate masserizie destinate al macero, stracci, casse, sedie, vestiti intrisi di umidità. Le celle erano deserte, i letti a castello di ferro, nudi, senza materassi. Restavano i muri. Quelli non c’era stato né tempo né ragione di ripulirli. E i muri raccontavano un sacco di storie. Agli scrostamenti “naturali” portati dal tempo si sovrapponevano i graffiti, le scritte, i disegni, i collages, le invocazioni di generazioni di uomini sofferenti che erano passati di lì. Molte celle offrivano ingegnosi riciclaggi di pacchetti vuoti di sigarette e di pasta che andavano a formare l’arredamento personale di ogni letto, l’ultimo residuo di privacy nel sovraffollamento. Sopra tutto, adesso, regnava il silenzio e l’immobilità. Sembrava davvero che un diluvio senza nome avesse cristallizzato lì i segni di una civiltà intera, facendo piazza pulita degli esseri che l’avevano prodotta.

Non sono un fotografo professionista. Ma il bisogno di fissare le immagini di quei muri mi prese immediatamente, quasi con angoscia. In quel luogo abbandonato sentivo che il carcere parlava con un unico, strisciante mormorio prodotto dalla sovrapposizione di mille e mille esistenze senza una faccia. Non stavo ascoltando Tino, Marcelo, Vincenzo, Kenya, Marco o una delle mie conoscenze di San Vittore, ciascuno con il suo volto, la sua storia e i suoi guai, ma comunque con un rapporto personale con me. No, qui c’era il senso arcano della galera, del dolore e della ribalderia dei suoi abitanti.

Mi organizzai, chiesi il permesso di fotografare. Non mi portai dietro altro che la macchina. Non una lampada o un riflesso. Passai nei raggi abbandonati tutta una giornata, dalle nove di mattina fino a che non ci fu più luce per scattare. Due giorni dopo l’impresa a cui era stato assegnato l’appalto per la ristrutturazione prese possesso dei locali. I muri che vedete in queste pagine scomparvero sotto le inevitabilmente giuste richieste della modernità e della decenza.

Avevo cominciato a frequentare San Vittore due anni prima. Ero stato invitato a tenere una lezione al corso di montaggio e ripresa televisiva che la Regione organizza in carcere più o meno ogni anno. In treno, la mattina, pensavo a tutti i preconcetti, i luoghi comuni e le posizioni “politicamente corrette” che conoscevo a proposito dell’universo carcerario. Cercavo di prepararmi culturalmente all’esperienza.

Oggi, con molte altre visite dietro le spalle e il bel badge da volontario (sono un “articolo 17”, secondo la terminologia lì in uso), continuo a visitare la galera per due ragioni. La prima sono i detenuti con cui, in questi anni, ho costruito un rapporto umano. (Mi sono arrovellato a lungo su queste parole, lettore, senza trovarne di migliori. In che modo si può stabilire un “rapporto umano” tra un libero e un carcerato, senza cadere in pietismi pelosi e rimanendo ben consapevole della colpa che ha originato la pena? Eppure...) La seconda ragione, che è in qualche modo già anche una risposta a questa domanda, è che il carcere serve a me. è una sensazione che mi si è insinuata dentro fin dalle prime volte: un po’ romanticheggiante, all’inizio, poi via via sempre più chiara e lucida. Per un “regolare” (altro curioso termine del gergo) frequentare la galera dà la misura reale della vita. Lontano dalla “libertà” dell’Occidente consumista, la prigione ti sbatte davanti i tragici paradossi dell’umanità. è – come la malattia – una condizione estrema in cui sei costretto a tirar fuori il meglio e il peggio di te, senza consolazioni ideologiche o la facile pretesa di “voltar pagina”, senza quel delirio di libero arbitrio (il più delle volte fasullo) su cui si basa tutta la nostra vita quotidiana.

Auditorium, Piazza della Libertà

No, non penso affatto che in galera si stia bene (anzi) o che i detenuti siano più saggi di noi. Ma so che il dolore insegna. E dato che il dolore, fisico e morale, è il fantasma più aborrito dalla modernità, sono quelli che stanno in carcere che ci aiutano a capire meglio la nostra vita. E, forse, in questo processo, anch’io posso fare per loro qualcosa che non sia un pietistico “portare conforto”.

La prima cosa che ti colpisce, dentro, è che in galera ci finiscono solo i poveracci. Certo, lo sai perché l’hai letto e perché lo intuisci. Ma il fatto è che lo si vede con l’immediatezza e la forza di un’immagine. Basta guardare i volti di quelli che incontri nei corridoi, o dietro le sbarre. Dei venti ucraini dell’altro giorno, ammanettati l’uno in fila all’altro. Reato? Furto di kilowatt. Si erano attaccati a un palo dell’ENEL per alimentare la stufetta e il fornello della casa abbandonata in cui vivevano.

Il concetto di “rifiuti della società” qui assume un significato letterale: si tratta di quelli che la società rifiuta. Tolta una percentuale fisiologica di veri criminali, il carcere serve a togliere daInaugurazione: giovedì 8 marzo ore 18 lla strada un problema sociale, a chiuderlo in una stanza e a buttare via la chiave, senza tentare di risolverlo. Esattamente come, una volta chiuso il sacco dell’immondizia, ci disinteressiamo della fine che fa. (Naturalmente la cronaca ci dimostra che il “problema immondizia” ci torna indietro come un boomerang: e così anche quello della devianza.)

La galera è tremenda non tanto nella limitazione della libertà, quanto nella privazione della dignità umana. Io comprendo che la società esiga, da chi commette un crimine, un “risarcimento”. Non posso, per esempio, difendere la vittima di uno stupro e pensare insieme che lo stupratore non meriti una punizione. Ma la punizione, se si limita al carcere così com’è, non solo è inutile, perché non serve a recuperare nessuno, ma è stupida, perché si mette sullo stesso piano del delinquente. Questo lo vediamo bene in tutte le società che prevedono la pena capitale, dalla Cina agli Stati Uniti, dove peraltro la delinquenza non diminuisce certo in rapporto alla durezza delle pene.

Se la detenzione è una punizione comprensibile, quello che nessun codice o nessuna legge prevede sono le condizioni di abbrutimento che il carcere genera. La privazione della libertà si trasforma presto in privazione degli affetti, dei sentimenti, delle relazioni, dei pensieri, delle speranze. In queste condizioni parlare di “recupero” del detenuto è ridicolo. Il carcere, questo carcere, non esiste che per giustificare se stesso (i primi a dirlo sono quelli che le dirigono, le prigioni).
Il detenuto diventa una specie di naufrago in balia di forze autoritarie e oscure. Non è un caso che, ai tempi di Tangentopoli, tanti borghesi imprigionati abbiano tentato il suicidio (talvolta riuscendoci, come Gabriele Cagliari). Il carcere spazza via le finzioni e le ipocrisie benpensanti: resti solo con te stesso. E certe volte si tratta di un peso insopportabile. Perciò, mai come oggi è stato vero, come si scriveva nei romanzi d’appendice, che in carcere “si langue”.

Quel giorno di luglio del 2002 tutto questo mi è sembrato all’improvviso prendere forma sui muri di San Vittore. Confesso di non aver mai avuto il coraggio di fotografare la faccia di un detenuto: mi sembrava che l’esposizione del dolore personale fosse un ulteriore furto, un’altra beffa. Ma le donnine di carta stracciate, le liste della spesa, i messaggi scritti a se stessi, le improbabili carte geografiche annerite con l’accendino raccontavano le storie dei loro autori meglio di qualunque immagine neorealista. Alla fine, per un momento, su quei muri stava impressa non solo la disperazione, ma anche la speranza.

Catalogo Edizioni Gabriele Mazzotta (pagine 112, illustrazioni 128 di cui 124 a colori, Euro 25,00)

Ufficio stampa Edizioni Gabriele Mazzotta
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Ufficio stampa Davide Ferrario
Marzia Milanesi - Comunicazione per il Cinema
Tel./fax 030 398767 – Cell. 348 3144360
marziamil@intelligenza.it

Inaugurazione: giovedì 8 marzo ore 18

Auditorium
Piazza della Libertà - Bergamo Alta
Orari: da martedì a venerdì 16,30-19,30, sabato e domenica 11,30-19,30
Ingresso gratuito

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