Sculture. "Nell'attivita' di Andreoli ha un ruolo centrale il fuoco. In alchimia, esso e' l'elemento trasformativo per eccellenza: arde e cuoce con l'intensita' e la durata necessarie alla trasformazione della materia". Roberto Gelini.
Sculture
Al termine del film Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel, la protagonista, senza un soldo e dopo aver speso l’intera – considerevole – somma vinta a una lotteria francese, per cucinare e deliziare gli abitanti di un esiguo villaggio danese dove ha trovato rifugio e lavoro, in risposta ai sorpresi e pur spontanei commenti delle due ospiti, incredule e incapaci di spiegarsi come ella avesse potuto privarsi di una tale fortuna - per rimanere, infine e di nuovo, povera, sintetizza con questa risposta - al contempo senso di una esistenza e chiosa del film, la verità della sua azione: «Un artista non è mai povero».
Approfitto - ricordando uno dei miei film preferiti - per evocare alcune delle caratteristiche che più facilmente vengono alla mente a chi abbia avuto, abbia o avrà la fortuna di avvicinare Nando Andreoli al lavoro… Non aggiungendo altro a «lavoro», giacché Nando è in ogni istante in fermento: i suoi occhi, le sue mani, la sua immaginazione…, il suo palato, la sua perizia, la sua cordialità e il suo stile non vengono meno neanche durante il sonno - che infatti è spesso ricco di esperienze al limite del credibile quanto i momenti desti - né quando cucina - non ripetendo mai due volte uno stesso piatto.
Prima di ogni discorso o immagine concernenti il suo operare, e la sua opera, vorrei dunque avvicinarlo con una sua caratterizzazione attraversata e interessata da alcune interessanti e peculiari tonalità conoscitive, comunicative e affettive di cui la sintesi di Babette ci ha offerto un emblema così preciso: ricorderei allora la spontaneità, la naturalezza e la curiosità con cui non solo Andreoli guarda ogni cosa che lo attornia, anche la più incrostata di senso comune, ma anche avvicina ognuna delle persone che incontra, dal bimbo in fasce all’ingegnere, dal fabbro all’architetto, dalla figlia allo sconosciuto mai visto prima, sempre con rispetto e apertura sinceri; e poi l’esperienza mai sazia, e pure vulcanica, legata a un rapporto quasi alchemico, se non magico, coi molti materiali con cui lavora; l’estrema cura del particolare e del generale insieme; la forza e il tatto, in ogni senso. E quello che più conta, in queste e in altre qualità che sorvolo, è che sono effettive, reali, mai forzate né eccessive, ma vissute e gratuite, veraci.
Non per niente, del resto, una delle poche massime che più spesso ama ricordarmi è quella che viene dalla Lettera sull’arte di Picasso: «Mi si prende di solito come un ricercatore. Io non cerco, io trovo». Ricordo che la prima volta che me la fece notare come rispondente in pieno alla sua condotta, e direi perfino alla sua dimensione vitale, la trovai a dir poco enigmatica, anche se apparentemente semplice. Ma poi, pian piano, si chiarì da sé rivelandosi una chiave del suo incontro non solo con le cose e le persone, ma soprattutto coi diversi materiali che via via utilizza. E talvolta, ancor più sorprendentemente, coi personaggi e gli eventi dei suoi sogni. Le cose, in fondo, le persone, gli eventi, le forme e i colori, i suoni, gli odori, le figure e i sogni sono già tutti qui presenti, da sempre e per sempre: la questione sta nell’apertura e nella disponibilità, oltre che nella responsabilità, di saperli e volerli vedere, scorgere, indovinare, scegliere, seguire. Come scriveva Charles Baudelaire:
La natura è un tempio dove colonne vive
Lasciano a volte uscire confuse parole;
l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
che l’osservano con sguardi familiari.
Come echi lunghi che da lontano si fondono
In una tenebrosa e profonda unità
Vasta quanto la notte e quanto la luce,
i profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Ci sono profumi freschi come carni infantili,
dolci come oboi, verdi come praterie
e altri corrotti, ricchi e trionfanti,
che hanno l’espansione delle cose infinite,
come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso
che cantano gli abbandoni dello spirito e dei sensi.
Tre giovani scultori si presentarono una di queste mattine al mio studio per chieder consiglio a me, di tanto più anziano, intorno a un problema per loro novissimo; che se era unico nella sua generalità per tutti e tre, variava tuttavia, nella sua particolare applicazione, per ciascuno d’essi.
Si trattava della lavorazione artistica del marmo – che è quanto dire dello scolpire; perché codesti giovani, usciti tutt’e tre da una delle principali nostre Accademie di Belle Arti, e licenziati con onore, si accorgevano ora, sul punto di intraprendere la loro ardua carriera d’arte, che non sapevano quello che è pure il fondamento essenziale dell’arte nostra, e che avrebbe dovuto essere pertanto la base e il centro di tutto l’insegnamento loro impartito nella Regia Accademia. Difficile a credersi: fra tanti corsi – prospettiva, disegno, ornato, anatomia, copia dai gessi, copia dal vero, storia dell’arte, modellazione, storia antica, ecc. – che erano stati loro impartiti, uno era stato del tutto dimenticato, l’arte di lavorare il marmo. Nessuno si era curato di insegnare a questi futuri scultori questa piccola cosa: scolpire.
Non c’è voluto molto, dopo quanto sopra ricordato e soprattutto con tra le mani quello che lui stesso chiama “manuale di scultura”, a cercare di leggere il senso di un’esperienza espositiva come quella che Nando Andreoli intende qui chiamare a raccolta come in una vera e propria vendemmia, a fruttificare il lavoro di una stagione prima che ne cominci un’altra. Le parole appena citate sono quelle che inaugurano L’arte del marmo di Adolfo Wildt, del 1921, che è certamente uno di quei sicuri riferimenti – sempre a portata di mano nel suo laboratorio - a cui questo poliedrico artista torna con più frequenza e fiducia non appena si presentino problemi pratici o… anche solo la necessità del confronto con un Maestro.
Ma se è soprattutto, esplicitamente, un’utilità schiettamente pratica - del libretto di Wildt - a interessarlo, colpisce che proprio lo spirito che ne caratterizza ogni riga sia con ogni probabilità quanto di più tacitamente condiviso dal Nostro: che è poi uno spirito del tutto in sintonia con quello che ha fatto - e fa - convergere, in questa raccolta una vera e propria messe di apporti non soltanto espositivi, ma sostanzialmente percettivi, tecnico-sperimentali ed euristici. Quasi che Andreoli, più che a un riconoscimento, o a un’affermazione, nei confronti di estimatori e spettatori, sia interessato ad un aperto confronto - con gli stessi – e a un dialogo verbale, immaginale, manuale e concreto sulla base di una comune esperienza sul campo. E più che a un risultato finale sia interessato - nello stesso contesto - al processo creativo – e alchemico, anche… - indipendentemente da dove tale processo possa condurre.
Nell’attività di Andreoli ha un ruolo centrale il fuoco: in alchimia, il fuoco è l’elemento trasformativo per eccellenza: arde e cuoce con l’intensità e la durata necessarie alla trasformazione della materia. Come arde e cuoce – gioia e dolore – la passione dell’artista, fino a trovare un proprio equilibrio e una propria misura interna. «L’alchimista e l’artista – scriveva Arturo Schwarz - condividono la stessa ambizione: fare per conoscere, conoscere per trasformare. Se stessi e il mondo. Alchimia e arte aspirano a essere sistema di conoscenza e strumento di trasmutazione». Una conoscenza, lo sottolineiamo, nel doppio senso (dal francese co-naissance) di nascere-insieme di artista e opera e dunque anche di azione effettiva, decisione, realtà operativa nel dominio dell’esser vivo e partecipe. Non sono poche le persone che hanno avuto modo d’incontrare Nando alle prese col fuoco, intorno a fantasmagorici spiedi da lui stesso costruiti o nel laboratorio di un fabbro, nella sua fucina, ovvero cucina domestica, fino al brindisi con un calice d’Inferno o di Sforzato della Valtellina. E chiunque sa che nei suoi occhi brilla sempre una fiamma sicura e confortante, radiosa e rasserenante.
Ma seguiamo, più nello specifico e da presso, il lavoro di Andreoli. Prendendo spunto da alcune riflessioni del filosofo francese Gilles Deleuze, tenteremo di forgiarne e temprarne alcune idee che sembrano adattarsi così bene al processo creativo del Nostro. Ora, se parlando di «concetti» comprendiamo abbastanza… distintamente di cosa stiamo parlando, proviamo a immaginarci i corrispettivi di ciò che proviamo e di ciò che percepiamo: avremo così gli «affetti» e i «percetti». Gli affetti, in particolare, consistono precisamente in accordi affettivi - consonanti o dissonanti - pur non essendo propriamente né sentimenti né affezioni, eccedendo cioè la forza di chi li attraversa; i percetti, per parte loro, che non sono propriamente percezioni, sono anch’essi indipendenti da chi li prova. «Sensazioni, percetti e affetti sono esseri che esistono di per sé ed eccedono ogni vissuto. L’opera d’arte è un essere di sensazione e nient’altro: esiste in sé.
L’artista crea blocchi di percetti e di affetti, ma la sola legge della creazione è che il composto debba sostenersi da solo. “Stare in piedi da sé” non vuol dire avere un alto e un basso, né stare diritti, ma soltanto l’atto per cui il composto di sensazioni creato si conserva in se stesso. Si scolpisce, si compone, si dipinge, si scrive con sensazioni, si scolpiscono, si compongono, si dipingono, si scrivono sensazioni». Le sensazioni – in quanto percetti – non sono percezioni che rinviano a un oggetto particolare, non sono copie di modelli: se assomigliano a qualcosa, è per una somiglianza prodotta dai loro stessi mezzi, come il sorriso sulla tela è fatto esclusivamente di colori, di pennellate giustapposte o sovrapposte, interposte … trovate, intraviste, sfiorate.
Il sorriso d’olio, il lampo di colore, la testa di ceramica, il gesto di terracotta, lo slancio di metallo, la preparazione della tela, la scelta del metallo e della sua forma, la modulazione della cottura che segue la modellazione dell’argilla: sempre così diversi - come l’azione che li lavora - i materiali, capaci di durare, prendono già parte alla sensazione.
Ma a durare veramente, a conservarsi non è propriamente il materiale, che costituisce soltanto come la condizione di fatto - e prima o poi si consumerà, disperdendosi - ma il percetto o l’affetto. E’ la materia a diventare espressiva: è l’affetto a essere metallico, cristallino, plasmabile e la sensazione non è colorata, ma colorante. L’artista, lavorando il materiale, strappa e modula il percetto dalle percezioni, l’affetto dalle affezioni, e crea un puro essere di sensazione, un blocco di sensazioni. Liberando la vita laddove è prigioniera, o almeno provandoci in un combattimento sempre incerto fino alla fine. Se lo scrittore torce il linguaggio, lo fa vibrare, lo condensa, lo fende, lo scultore cerca risonanze nel metallo, facendolo cantare, rilucere, ritmandolo, facendolo saltare, duellare, volare per creare un blocco di sensazioni, un monumento.
E il monumento sorge in una casa, un cortile, una fonte… La casa, insomma, partecipa di tutto questo divenire: è essa stessa vita, vita inorganica delle cose… è la casa-sensazione, la fonte-sensazione, il cortile-sensazione. Che si apre a sua volta sull’universo, sul cosmo, campitura, vuoto colorato, infinito monocromo dell’eterno.
Blocco di sensazioni, monumento, stanza, casa, villaggio, mondo: la differenza sta solo nelle proporzioni, perché il lavoro in atto è sempre il medesimo che sintetizza un’apparizione fulminea in un foglio bianco, che realizza le sculture in metallo e in terracotta, che anima il particolare di una stanza o un ambiente intero, che slancia un edificio o che chiama a raccolta una comunità. Il cerchio si chiude per ricominciare un altro giro, il ritornello prende il suo posto e comincia a risuonare: le forze insensibili rese sensibili dall’artista risuonano nel mondo ed egli è pronto per un altro lavoro: da un discreto particolare che incornicia una cappa da cucina a una componente strutturale di un locale, dal bozzetto su un foglio grande come il palmo d’una mano allo spiedo pantagruelico allestito in un paese del Trentino chiamato – guarda caso… Stravino, dalla serie di occhi di vetro incastonati nella cupola della chiesa di Bodio allo slancio d’un intero edificio, Villa Ojas, – non a caso dedicata alla salute - al cielo. Il lavoro di Andreoli è in ogni scala, ad ogni piano o livello di lavoro, sensazione di vitalità e di gratuità, di ricchezza e di energia creatrice. E’ sensazione della vita nel doppio senso – reversibile e compresente – di cura tanto nello scorgere quanto nel lasciar essere la vita da parte dell’artista.
Prendiamo ad esempio la Scultura 1, sviluppo in terracotta del lampo fissato in copertina su un foglio. Tutt’intera, essa è il viso di un guerriero, come il suo sberleffo, o la posa per una foto segnaletica col naso grondante; considerata, invece, come mondo tripartito, essa si anima di vette protese al cielo, di fluidi sotterranei tremolanti e sinuosi, di stalattiti e stalagmiti. Ma è nella fantasia di un bambino che compare infine la strada che porta dalla propria capanna, laggiù, in riva al mare, a casa, lassù, sulla collina, tra le due vecchie querce… Tre mondi possibili a partire da una forma, per passare a tre forme realizzate a partire da un unico e al contempo molteplice mondo, quello iperfantastico di don Chisciotte: in acciaio e rame, circondato da un gregge di… pecore, a gessetto, e in un lungo… filo rosso di terracotta smaltata cogli occhi ormai diventati binocolo.
Siamo noi stessi a cominciare a girare guidati dalla curiosità intorno a Meridiana: perché da ogni prospettiva conosciamo una nuova persona, una nuova ombra, un nuovo sole… ogni giorno, come diceva Eraclito. Mentre la maschera Veneziana sembra emergere direttamente dalle acque della… lacuna, o la possiamo trovare ai bordi d’una calle la mattina dopo la baldoria carnevalesca.
L’apporto di Nando Andreoli, nelle sue più schiette intenzioni, è dunque variamente distribuito nello spazio di questa vendemmia espositiva: giova in ogni modo ricordare alcune importanti convinzioni che lo stesso Nando, ma anche chi scrive, intendono offrire al vaglio e alla sensibilità di spettatori e ammiratori: per quanto semplici, ci pare siano idee che vanno sempre più rimarcate, dati, soprattutto, i tempi - in ogni senso – correnti. L’importanza del fare quotidiano, ovvero la constatazione che il processo creativo e produttivo è costituito di infiniti passi quotidiani; il lavoro creativo, in sostanza, non finisce mai, pena la morte e l’atrofizzazione, se non la serializzazione; l’arte, per altro verso, passa per la materia di cui si avvale per esprimersi. Dice Baudelaire: «Più si vuole, meglio si vuole. Più si lavora, meglio si lavora, e più si vuol lavorare. Più si produce, e più si diventa fecondi. Solo servendosi del tempo si può dimenticarlo. Solo a poco a poco si fa tutto». Come non concludere, allora, se non colle parole con cui si chiude L’arte del marmo di Wildt, che sentiamo più che mai - e facciamo – idealmente nostre, augurandoci di trarne meno amare conclusioni?
Il giorno era ormai finito, e l’aria imbrunita mi toglieva ogni possibilità di rimettermi al lavoro. Sentivo in me, rimasto solo, una vaga malinconia, benché non mi paresse di aver speso la mia giornata inutilmente. E così riandando in me le cose discorse, mi ripetevo questo pensiero: Io sono stato qui a scervellarmi per spiegare a parole quest’ardua e appassionante lavorazione del marmo – e sarei pago se le mie parole fossero valse, non certo a insegnarla, che ben altro ci voglion che parole, ma ad inanimate quei tre volenterosi a cimentarvisi da sé. Ma non sarebbe conveniente con tanti danari si spendono nelle nostre Accademie in insegnamenti di dubbia efficacia, ci fosse almeno un aula dove un maestro di conosciuta perizia insegnasse nella pratica questa lavorazione del marmo – base e ragion prima di tutta l’arte scultoria? E perché non ci dev’essere proprio in questo nostro paese, patria e luogo già de’ più grandi Maestri di quest’arte, non solo, ma uno de’ più ricchi del mondo in bellissimi marmi? E ciò non è tanto più stravagante e alfine vergognoso, quando tali scuole sono pure a Londra, a Berlino, a Friburgo, paesi duri all’arte, scarsi di marmi e di artefici e orbi delle tradizioni di quest’arte?
E non sapeva darmi risposta. Roberto Gelini
Inaugurazione 28 aprile 2007
Liceo Artistico Statale Frattini
via Valverde, 2 - Varese