Il sessantenne protagonista del video cerca di colmare la sensazione di una mancanza, non sappiamo se emotiva o lavorativa, maneggiando casse di plastica rosse, verdi e gialle, apparentemente senza un obiettivo preciso o una logica comprensibile. A cura di Barbara Fassler.
Legoland
A cura di Barbara Fässler
CHI HA PERSO IL FILO, RIORDINA I SUOI TASSELLI
“Tempo non c'è tempo sempre più in affanno
inseguo il nostro tempo vuoto di senso senso di vuoto
E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto”
Franco Battiato
Parlare del vuoto non è mai un esercizio facile: al contrario significa descrivere qualcosa che non c’è ma che, nel contempo, si impone con pesante insistenza. Questo paradosso è stato elaborato fin dall’antichità, con posizioni contrastanti: per Aristotele il vuoto era impossibile poiché in caso contrario, venendo meno la resistenza, la velocità dei corpi sarebbe diventata infinita. Nell’universo di Democrito, invece, l’esistenza di uno spazio vuoto è condizione indispensabile per il moto eterno degli atomi, a loro volta immutabili. L’idea di vuoto, tuttavia, non si limita all’assenza di materia, ma si estende, sul piano esistenziale ed emotivo, a quella di un’assenza affettiva, della mancanza di una persona, degli stati d’animo provocati da un abbandono.
Ed è proprio qui che il lavoro artistico di Lucia Leuci, per quanto possa apparire eclettico, trova il suo filo conduttore, la sua motivazione di fondo. Il senso di vuoto, che Franco Battiato associa al “vuoto di senso”, è difficilmente accettabile, l’”horror vacui”, di cui soffriva già Aristotele, è inevitabile e provoca per naturale istinto di sopravvivenza una disperata reazione, che può essere espressa in vario modo, come dimostrano le opere presentate da a+mbookstore.
Ad esempio il sessantenne del video “Legoland” cerca di colmare la sensazione di una mancanza – non sappiamo se emotiva o lavorativa –, maneggiando casse di plastica rosse, verdi e gialle, apparentemente senza un obiettivo preciso o una logica comprensibile. Prima sposta gli oggetti di plastica colorata, poi li impila fino a creare delle vere e proprie torri e, alla fine, fungono da contenitori per le ghiande, raccolte da terra con cura e attenzione. Il personaggio crea pazientemente un ordine, che rimane, tuttavia, privo di criteri, disegna una griglia, che risulta priva di regolarità. È come se il nostro protagonista tentasse disperatamente di riordinare i tasselli della sua vita. Anche i tre cani, che attraversano il quadro nelle due direzioni, annusando con sospetto qua e là e dissolvendosi al bordo dell’immagine, sottolineano la fragilità strutturale ed esistenziale con il loro passaggio fuggitivo e con la loro presenza inquieta.
Dalla cornice del filmato, un paesaggio pittoresco che ritrae una enorme quercia al centro di un prato fiorito, emana l’idea di una calma eterna, di un luogo rassicurante, che è sempre esistito e che rimarrà assolutamente invariato. Questo spazio idilliaco, ma immobile, meraviglioso, ma immutabile, bellissimo, ma privo di stimoli, sembra, al contrario, produrre un senso di tormento, che innesca attività senza senso, movimenti senza varietà, mosse senza motivo. I gesti ossessivi e ripetitivi del personaggio, agiti con profonda concentrazione e ferma serietà, sono accompagnati da una melanconia pesante e da una tristezza rassegnata. Anche se l’associazione al gioco del lego, suggerita dal titolo, corrisponde ai materiali e ai colori delle casse e all’attività di costruzione senza obiettivi e regole prefissate, l’apparenza non deve ingannarci. Infatti guardando meglio la scena, manca un elemento fondamentale, che contraddistingue il principio del gioco: la leggerezza ludica. L’aspetto tragico e pesante di questa opera evoca piuttosto Don Chisciotte, che combatte contro i mulini a vento, Sisifo, che cerca inutilmente di far salire il sasso o Vladimir ed Estragon che aspettano Godot, eternamente e, ahimè in vano.
Nel trittico fotografico “Teseo immemore riprese il mare”, Arianna, figlia del re di Creta Minosse, invece, sembra colta in un attimo di fermo immagine, in cui medita, seduta sulla spiaggia dell’isola, fissando l’acqua del mare, incapace di reagire all’abbandono subito.
Questa opera, melanconica anch’essa, illustra nella sua poetica le parole di Ovidio1: “Forsennata Arianna vagava per spiagge non note, dove la breve Nasso è battuta dal mare, (…) con i piedi nudi e sciolti i bei capelli d’oro: (…) Teseo crudele chiamava, bagnandosi le gote d’immeritato pianto.”. Le tre riprese del mare sembrano svolgere un ruolo simile a quello del paesaggio con la quercia al centro: più che la bellezza naturale, evidenziano il vuoto affettivo provocato dal tradimento e sofferto brutalmente dalla fanciulla. Il filo che Arianna, innamorata di Teseo, gli aveva donato per ritrovare la via d’uscita dal labirinto in cui aveva ucciso il Minotauro, naviga ora nelle acque basse. Nella foto centrale, il filo, ormai inutile, si avvolge addirittura attorno ai piedi nudi, legandoli e anziché rappresentare la salvezza, diviene metafora dello stato di prigionia involontario, in cui Arianna è precipitata all’improvviso.
In entrambe le opere Lucia Leuci fa uso di un linguaggio implicito, in cui il non-detto traspare dal sottofondo di ciò che ci è dato da vedere. Il vuoto inesprimibile si riempie di desideri sfrenati, che risuonano in un urlo proveniente dal fondo dell’anima. Grido abissale, che ricorda le parole che Kafka rivolse all’irraggiungibile e amatissima Milena2: “...tremo sotto l’eruzione, mi torturo fino alla follia, ma che cosa sia, non so… È un’eruzione e passerà ed è passato in parte, ma le forze che lo innescano, tremano continuamente dentro di me, prima e dopo...”.
Barbara Fässler, aprile 2007
1 Ovidio, “Ars amatoria” [libro primo]
2 Franz Kafka, “Briefe an Milena”, Fischer, 1986 (trad. Barbara Fässler)
Inaugurazione ore 19
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via Tadino, 30 - Milano
Orario: da martedì a sabato dalle 11,00 alle 13,00 e dalle 15,30 alle 19,30
Ingresso libero