L'artista sudafricano Mikhael Subotzky presenta una serie di fotografie sul carcere della sua citta', Beaufort West. Il recente lavoro video My breath, che Victor Alimpiev ha dedicato al noto artista concettuale moscovita Andrey Monastyrsky, e' uno studio sulle condizioni del parlare e del canto.
Come molte piccole città sudafricane, Beaufort West è ancora estremamente emarginata. Le tranquille vie della città sono raccolte attorno alla strada principale e le piccole villette sono tuttora abitate quasi esclusivamente da bianchi. Essi trascorrono le giornate senza rendersi conto di cosa succede in periferia dove vive la maggior parte della popolazione.
Anche il carcere locale si trova sulla strada principale ed è ciò che ha colpito l’attenzione di Mikhael Subotzky: “Sono stato attirato da Beaufort West perchè il suo carcere si trova, incredibilmente, su una rotatoria nel centro della città, nel bel mezzo della statale N1.” spiega Subotzky. “La maggior parte delle prigioni sudafricane è nascosta nelle periferie delle nostre città e metropoli. Sono rimasto colpito da questa immagine di un carcere al centro della città.”
La posizione del penitenziario non è casuale. Molti dei primi bianchi che vivevano in queste zone sono stati esiliati qui quasi duecento anni fa, in quello che era il più remoto avamposto della colonia britannica. In queste terre sperdute dei Karoo, i bianchi emarginati si scontrarono con le frange delle due civilizzazioni indigene dell’Africa del sud: la banda dei Xhosa, che erano sfuggiti alla guerra andando verso est, e i gruppi nomadi dei KoiSan.
Nessuno stato moderno è tranquillo se nel suo territorio vivono persone senza leggi. Fu stabilito quindi che la città di Beaufort West portasse l’ordine pubblico nella regione del Karoo Centrale. Tra i suoi primi edifici nacquero le fondamenta di uno Stato: la pretura, il palazzo di giustizia, la chiesa e il carcere. Quindi il fatto che la prigione si trovi proprio al centro della strada principale è una testimonianza delle origini di Beaufort West; è la traccia delle sua civilizzazione: una tetra sentinella dell’ordine stabilito.
Oggi la principale funzione del carcere è sicuramente molto più squallida di allora. Ospita gli abitanti di Beaufort West che, sconfitti dalla disoccupazione prolungata e dall’alcol, hanno aggredito i familiari o derubato i vicini. E così, sembrerebbe che tutti i disoccupati si trascinino sulla strada principale, alcuni per cercare di spacciare ciò che possono vendere, altri per passare il tempo nelle celle, ascoltando le migliaia di automobili che costeggiano la prigione prima di proseguire per la loro strada.
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Il lavoro più recente My breath del 2007, che Alimpiev ha dedicato al noto artista concettuale moscovita Andrey Monastyrsky, è uno studio sulle condizioni del parlare e del canto. Vediamo in primo piano due visi femminili, che , guancia a guancia, guardano l’uno oltre l’altro. Cantano un duetto in modo calmo e concentrato. A prima vista sembra un classico esercizio di canto. Nel corso della performance, comunque, il canto si trasforma in una idiosincratica analisi del respiro, respirare e parlare.
“Ascolta! Correggi il tuo respiro!” canta una cantante in russo “Io inspiro un po’, espiro un po’, è con me. E’ con me! Il mio respiro.” Con un ritmo più veloce cantano sul modo di respirare: “Aspetta fino a che il tono scompare…trattieni…(…) e quindi espira…” La gestualità del canto – la bocca aperta, gli occhi spalancati, l’ondeggiare della parte superiore del corpo – sono seguite continuamente per cinque minuti e mezzo dalle telecamere che ruotano attorno alle teste delle due donne mentre cantano. I primi piani sulle parti del corpo che producono il suono e che lo ascoltano, bocca ed orecchio, enfatizzano questo, come fa il conscio brusio di sottofondo della stanza.
Il testo cantato riassume l’esercizio respiratorio di un attore: “Ora prova a ricordare. Come è chiamato questo espirare?” La “canzone” finisce con un ritornello quasi una preghiera: “Va bene! Fallo aspettare. E’ con te! E’ con te. Non aver paura. Non va da nessuna parte. E’ con te.”
Il cantare con ritmi diversi, talvolta più forte talvolta più piano, ricorda i canti liturgici, la cui solenne presentazione e l’enfasi nel quinto e nel quarto intervallo, lo rendono idiosincratico. Questo viene enfatizzato dal significato etimologico del titolo: la parola russa “dykhanye” significa “alito”, “respiro”, “respirazione” e anche “brezza”. E’ associato alla parola russa “dukh”, che sta per “spirito”, “umore”ma anche “respiro”. Questa corrispondenza con l’antica connessione fra “respiro e “pneuma” (dal greco), che possono essere tradotti entrambi come “spirito”, “aspirazione”, “brezza” e anche “turbinio”, “alito di vento” o “pressione”. Questa connessione etimologica è rilevante.
Roland Barthes una volta ha descritto la connessione tra “respiro” e “spirito”con le seguenti parole: “Il respiro è il pneuma, l’anima riempendosi o svuotandosi, e qualsiasi arte della respirazione è pari ad un’ arte segretamente mistica”. Una possibile interpretazione di questo lavoro come una liturgia, stabilisce anche il doppio significato del titolo dell’opera. Un aspetto essenzialmente estetico in My breath è l’autoreferenzialità, che è riflessa in entrambi i testi delle cantanti e nei movimenti fisici della respirazione durante il canto.
Inaugurazione 1 dicembre 2007
Studio La Citta
via Dietro Filippini 2 - Verona
Orario: da martedì a sabato ore 9-13 e 15.30-19.30
Ingresso libero