Efesto. Le sculture in mostra sono oggetti veri, spazio trasformato in masse sensibili. Le incudini, utensili ormai scomparsi dal nostro mondo visivo e dalla nostra esperienza contingente, diventano una presenza evocata.
La persistenza di un dio
Hephaisto, Efesto, l’Illustre storpio o, più semplicemente, il suo significato “il fuoco”.
Un nome proprio per definire un’installazione, ma anche un ciclo di opere, con cui Gianpiero Colombo vuole parlarci della sua personale idea di una archeologia che obbligatoriamente si occupa del passato recuperando però alla cultura collettiva, in modo più o meno palese, gli oggetti e i mestieri trascurati dal quotidiano contemporaneo.
Efesto è un Dio tra i tanti, non l’unico, dalla vita complicata, dai molti amori, dalle vendette atroci e ridicole; compensa la zoppia e il nanismo, di cui è afflitto dalla nascita, con l’ingegno e l’abilità manuale. Usa il ferro e il fuoco per “fabbricare” oggetti e macchine. Si parla di lui per parlare della vita degli uomini, altrettanto complicata e imprevedibile, ma reale e aperta al destino e alle molte vie che la percorrono. Le sue disavventure si trasfigurano nelle forme e nelle costruzioni erette a prototipi delle esperienze umane passate: una memoria che si fa simbolo e archetipo condiviso, per poi ritornare quella memoria personale indispensabile a sostenere una conoscenza pratica e concreta del mondo, mediata dalla fisicità della materia più che dall’astrattezza del pensiero. Attraverso un fare che chiede e richiede una manualità paziente e controllata, lontana dai ritmi frenetici in cui siamo immersi e vicina piuttosto ai modi tradizionali della forgiatura del metallo,
Gianpiero Colombo conduce una ricerca attraverso le stratificazioni del tempo, reali o artificiose che siano, ponendo le sue opere in bilico tra un’immagine moderno-popolare e un contenuto rispettoso della tradizione storiografica. Nel suo lavoro si concretizzano una presa d'atto freddamente determinata verso l'oggetto, mai sottoposto nella sua sostanza a pesanti trasformazioni mimetiche, e una sensibilità per la storia emozionale comune di cui non si vuole la perdita o la cancellazione. Le sue sculture sono oggetti veri, spazio trasformato in masse durevoli e sensibili. Gli incudini, utensili ormai scomparsi dal nostro mondo visivo e dalla nostra esperienza contingente, diventano una presenza evocata, volumi quasi trasparenti nel loro solo tangibile profilo metallico, ma pure parte di progetti per stranianti e incombenti collocazioni aeree. Il loro corpo può appiattirsi in profili bidimensionali, che si impilano decrescendo via via di misura dal basso verso l’alto sulla superficie di quadri a parete, oppure agglomerarsi in coaguli sintetici di resina plastica rimanendo, in tutte le situazioni, sempre se stesso e contemporaneamente un segno ripetuto e pregnante.
Gli dei non sono morti, sembra dirci l’artista, sono solo assopiti o nascosti e le forme che hanno da sempre rivestito i loro miti, come oggetti attributivi o come connotati essenziali, continuano la loro vita in un perpetuo travestimento, indifferenti agli anni e ai secoli che trascorrono, pronti a riproporsi, cercati o non voluti, nelle occasioni più imprevedibili delle esistenze terrene. Fabrizio Parachini
Inaugurazione ore 17
Spazio Cesare da Sesto
Piazza Mazzini (Palazzo Comunale) - Sesto Calende (VA)
Orario: da mercoledì a venerdì dalle 17.00 alle 19.00; sabato e festivi dalle 10.30 alle 12.30 e dalle 17.00 alle 19.00.
Ingresso libero