Digital computer graphic. Personale. "Dalla seconda meta' degli anni 50, si afferma, quel movimento noto come New Dada, meglio conosciuto come Pop Art, nella cui linea si collocano le opere in mostra."
Ciò che è popolare
di Dario Giugliano
Dalla seconda metà degli anni ’50, si affermò, negli Stati Uniti, per dilagare ovunque, come fenomeno di costume, oltre che d’arte, quel movimento noto come New Dada, meglio conosciuto come Pop Art, nella cui linea le opere in mostra di Maria Laura Matthey chiaramente si collocano. Fin da subito, ci si chiese se quelle opere, così manifestamente ammiccanti ai simboli del pantheon dell’universo mediatico, avessero, nelle intenzioni di chi le produceva, una qualche carica critica. Come tutte le domande stupide, che spesso la critica d’arte si pone e pone alle opere, anche questa ha una sua legittimità, non foss’altro che per il fatto che ciò che è stupido è proprio del senso comune, quindi di quel senso tipicamente appartenente alla massa, cioè al cosiddetto popolo e, di conseguenza, nulla apparirebbe più legittimo che porre una domanda “popolare” a una forma d’arte che manifestamente a esso finisce per richiamarsi. È evidente che ogni opera dice sempre altro, rispetto a quello che un autore ha inteso dire, quindi è altrettanto evidente che quelle opere potevano contenere pure una carica critico-eversiva, nei confronti della società che le produceva, al di là o meno delle intenzioni degli autori.
Certamente, quello che mi colpiva in quelle opere e mi colpisce in queste, presenti in mostra, di Maria Laura Matthey, è una sorta di nichilismo irriducibile o di identità palese di simulacro, che traspare dalla superficie delle opere stesse. Una sorta di elogio della superficie, come direbbe Valery (“quel che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle”), è insieme causa ed effetto di una idea di fondo: l’assenza di una trascendenza. La vita è qui e ora e appartiene a chi la vive, cioè al popolo, da sempre. Non sembri retorica; quello che si vuol evidenziare con proposizioni come le precedenti è che se c’è un’esistenza, questa va autenticamente ricercato nell’atto stesso, cioè nella sua pratica, che è sempre accadimento quotidiano, feriale, lontano quindi dai fasti inarrivabili di una aristocrazia del vivere, che, invece, da sempre, ai suoi massimi livelli, è stata in simbiosi con ciò che era più volgare, nel senso letterale del termine. L’arte, e, in una misura ancor più determinante, l’arte cosiddetta popolare, ha sempre perseguito questo atteggiamento, apparentemente fornendo opere che sublimassero quanto c’è di più caduco: l’esistenza stessa. La levigatezza formale, l’essere immediatamente accattivante e affascinante di queste opere di Matthey, cosa altro vorrebbero dire se non che non c’è nulla da dire, perché non c’è una Verità, che non sia nel vivere, profondamente, intensamente, vale a dire, vivere la nostra vita sulla nostra stessa pelle?
http://www.marialauramatthey.com
Inaugurazione 8 febbraio 2008
PicaGallery
vico Vetriera, 16 - Napoli
Ingresso libero