In mostra le opere di un pittore "che usa la tela come supporto per scolpire con il pennello una realta' fatata. Una sorta di paesaggio incantato, dove le case si accatastano una sull'altra in equilibrio instabile o emergono da piatte lagune immerse in un silenzio irreale". (A. Redaelli)
Matthias Brandes è un pittore anomalo. Un pittore che usa la tela come supporto per
scolpire con il pennello una realtà fatata. Una sorta di paesaggio incantato, dove
le case si accatastano una sull'altra in equilibrio instabile o emergono da piatte
lagune immerse in un silenzio irreale. Ciò che salta maggiormente all'occhio, di
quelle costruzioni volute come geometrie perfette, è la materia scabra e ruvida di
cui sono composte. Una materia raffinatissima che Brandes ottiene usando tempera
all'uovo grassa, senza acqua, mescolata con il colore ad olio. Le superfici pietrose
e irregolari attraggono lo spettatore verso il quadro, ipnotizzandolo, sfidandolo al
gesto - impossibile da trattenere - di sfiorare la tela per sperimentarne la
consistenza. Perché al primo sguardo è davvero difficile accettare l'dea che l'opera
abbia solo due dimensioni, che quello spigolo vivo di muro, quel tetto appuntito,
quel cipresso acuminato non svettino fuori dalla superficie.
La coscienza di quello
che l'opera rappresenta si acquisisce solo in un secondo momento. Quando quella
prima esigenza di contatto fisico è stata soddisfatta. Solo allora si riesce a
separarsi dal quadro, a percorrere quei due o tre passi all'indietro che permettono
di contemplare l'opera nel suo insieme. E se ne coglie la commovente poesia. Perché
su quell'isolotto brullo, che si immagina essere la cima di una montagna o uno
scoglio al centro di un mare immenso, le case sono così strette l'una all'altra da
aver perso la consueta posizione eretta? Perché sulle facciate lisce e spoglie si
apre solo qualche sporadica finestra cieca, murata su un interno che forse non è che
un unico blocco di materia? Perché a quei solidi pietrosi, inamovibili, si
contrappone la consistenza rarefatta di un cielo limpido, dove l'aria sembra essere
fatta di una sostanza diversa da quella che noi abitualmente respiriamo?
Non esistono risposte concrete a queste domande, perché la pittura di Matthias
Brandes è tutta nel suo impatto immediato, nelle emozioni che fa risuonare dentro di
noi toccando le nostre corde più profonde.
E' una pittura che incanta proprio per
quel suo non fornire né cercare spiegazioni. La sua logica - se una logica vi si può
trovare - è quella che presiede i sogni. Forse, si potrebbe azzardare, quella delle
libere associazioni freudiane. Forse tutto comincia con quella costruzione vista di
scorcio, l'unica diritta dell'intera composizione, e dalle sue quattro finestre ad
arco cieche. A questa si appoggiano l'edificio basso e quadrangolare, completamente
steso a terra (il tetto rosso è laterale), e anche l'altro, con un oblò sulla
facciata. Da lì è tutto un susseguirsi di solidi geometrici addossati l'uno
all'altro come nel gioco del domino, poi un cipresso, una cupola, un altro tetto. La
sensazione è la medesima, sia che quelle case mantengano un se pur minimo grado di
realtà perché adagiate su una roccia o sulla superficie calma dell'acqua, sia che si
rivelino gli elementi di una natura morta appoggiata su un tavolo dalla tovaglia
immacolata. Resta invariata l'essenza di quel loro essere al tempo stesso vere e
sognate; solide, granitiche, eppure così leggere da librarsi in volo. Immerse in un
silenzio talmente assoluto da far pensare all'assenza d'aria, un sottovuoto che,
lungi dall'essere inquietante, dona a quegli scorci di paesaggio la grazia della
perfezione. Reminiscenze immediate del primo Rinascimento, della ricercata armonia
di volumi di Piero della Francesca, saltano all'occhio al primo sguardo, ma come
stemperate da una sensibilità che accomuna Brandes alle inquietudini di De Chirico e
agli enigmi di Carrà, agli equilibri di Sironi e alle atmosfere oniriche del
surrealismo. Eppure nessuna di queste associazioni è del tutto corretta. E nessuna
può vivere senza le altre. Scorrono tutte insieme sotto la pelle del quadro e ne
emergono in un'armonia perfetta e riconoscibile che tutte le ricorda e al tempo
stesso tutte le rinnega, in una realtà altra, senza tempo e attualissima.
Matthias Brandes è un artista meditativo, lentissimo e meticoloso, che soffre la
creazione di ogni singolo quadro pagandola con dubbi e insicurezze, ripensamenti e
indecisioni che appaiono inimmaginabili a chi si trovi davanti la perfetta e
appagata tranquillità del risultato finale. Scrivere dei suoi dipinti - come
inevitabilmente richiede la critica - come di un unico lavoro indistinto, dunque,
insinua lo spiacevole sospetto di commettere un tradimento. E nel profondo della sua
anima l'artista considera un tradimento del proprio lavoro anche il momento della
mostra. Ognuna delle sue creature, cesellata in ore e ore di lavoro, pennellata dopo
pennellata, notte insonne dopo notte insonne, è lì, appesa al muro, affiancata a
tutte le altre come se fossero meri fotogrammi dello stesso film. A ognuna lo
spettatore non potrà dedicare più di qualche minuto, distraendosi, rischiando che
l'occhio vaghi da un quadro all'altro, che la mente sia chiamata a rispondere a una
domanda, a un pezzo di conversazione. Che cosa potrà mai cogliere di tutto quello
che il dipinto è? Eppure il pittore dipinge per gli altri, non potrebbe mai
sopportare di tenere tutto quel tumulto di emozioni solo per sé. Dipinge per far
conoscere il suo lavoro, per raccontare il suo mondo sognato fatto di case nelle
quali è impossibile entrare e di cieli talmente limpidi che le nuvole appaiono solo
un pretesto per intingere il pennello in un altro colore. Ma va bene così. Anche se
di quel sogno resterà attaccato a chi lo guarda solo un piccolo brandello, l'opera
sarà compiuta. Il pittore saprà di avere fatto il suo dovere.
Alessandra Redaelli
Inaugurazione Sabato 3 maggio ore 18.00
Galleria Polin
vicolo San Pancrazio, 20 Treviso
ingresso libero