The Time of Cruel Miracle Is Not Over. Nonostante la concretezza dei materiali utilizzati, le sue strutture con il tempo hanno perso materialita' e i suoi progetti spesso combinano video, fotografia, disegno, performance ed opere site-specific.
Nella sua arte, Zuzanna Janin comincia da ciò a cui si sente piu’ vicina e scopre l’ignoto ed il non-ovvio. Cerca di carpire l’essenza della propria identità, concentrandosi sull’ulteriore, l’in mezzo, l’in lavorazione.
Bilancia visibile ed invisibile, privato e pubblico, tra emozioni e riflessioni. Senza mai, comunque, sfociare nell’ovvietà.
Nei primi anni ’90, cominciò con Covers (1990-2005) di seta, che erano sia un tentativo di descrivere il mondo circostanze che rimasugli di coperture d’arredo, sia il loro modo di conciliare il mistero degli oggetti. Da allora, la combinazione di protezione fisica e simbolica diventerà un filone importante del lavoro dell’artista. Le covers sono anche metafora di ambivalenza – un’emanazione di oggetti la cui fisicità è stata ridotta al minimo. Il prossimo passo saranno sculture fatte di filo metallico. Nonostante la concretezza dei materiali utilizzati, le strutture a cielo aperto guidano attraverso la perdità di materialità. L’artista le colloca in una proiezione video, cercando riflessi, ombre, ripetizioni. Invitando lo spettatore a co-creare l’installazione ed entrare nel lavoro. Lo spettatore è sospeso nell’incertezza tra la concretezza della sua propria corporalità e la natura effimera del lavoro.
Queste sperimentazioni guidarono Janin attraverso la scoperta del corpo come rivestimento dell’essere umano. La dialettica di interno ed esterno, di pelle e scheletro, del permanente e del temporaneo, ritorna in sculture di filo d’ottone in forma di corpi. Un enorme sproporzionato Heart (2001) e Skull (1998) di filo non è solo un memento ma anche un omaggio al corpo, il piu’ misterioso degli involucri.
Janin dispone gli scheletri d’ottone in zucchero filato e trascina lo spettatore in un gioco: la co-creazione, ed allo stesso tempo il consumo dell’arte. La strategia, largamente impiegata dall’artista, dell’abbraccio e dell’appropriazione, è qui portata all’estremo. Janin entra nel ventunesimo secolo con progetti globali combinanti video, net art, scultura, fotografia, disegno, collage, installazioni ed opere site-specific. Semanticamente, va sempre più in là, camminando sul terreno della non-ovvietà dell’arte.
Nell’azione I’ve Seen My Own Death (2003), Janin decide di compiere un gesto controverso e pericoloso: una simulazione, che oltrepassi i limiti prestabiliti dell’arte, della propria assenza ed un’osservazione del "mondo senza di me". Il progetto, che presenta, tra le altre cose, il funerale immaginario dell’artista, diventa un’inedita situazione sulla scena artistica polacca. È un polittico, costituito da diversi elementi, strutturati attorno a un doppio lavoro video (Ceremony/Games and Masonry; 2003). L’opera espone emozioni, la facilità con cui soccombiamo alla manipolazione dei media, così come la nostra incapacità di entrare nel discorso della morte, la sua standardizzazione e il modo in cui sia confinata in cronache banali. Janin ha creato un suo personale trattato riguardo alla morte ed alla sua negazione nella cultura europea contemporanea. Il collegamento tra i lavori è il video Seven Deaths (2003/2006) riguardo un’ improvvisa – e perciò altamente attrattiva – morte, intrecciata alla dance macabre di una figura nuda appena visibile. Janin recita qui se stessa, creando l’occasione per un gioco col tempo, possibile solo in arte.
Nel progetto In-Between (2005-2006) l’artista mostra persone che hanno giocato un ruolo importante anche nei suoi lavori precedenti: i membri della sua famiglia. La famiglia è per lei una struttura complessa in cui difficili relazioni sono dominate da potenti emozioni nascoste, dal timore per le persone amate. L'idea di struttura continua nel video From Here to There (2005-2006), pellicola poetica sulla costruzione e demolizione di case, e una serie di sculture-oggetti sotto il nome comune di Passigraphy (2006). A servire da linguaggio universale è qui l'abito, l'elemento di modernità piu' suscettibile di cambiamento. Nonostante la sua democratizzazione, il simbolismo dell'abito rimane chiaro, e l'artista lo sfrutta vestendo cinque poltrone con differenti costumi (liberale-intellettuale, mohair, commerciale, clericale e militare). Sedendosi su di una delle poltrone, il destinatario definisce il suo posto nella struttura sociale, ma, diversamente dalla realtà, può cambiare posto velocemente. Passigraphy provoca anche una riflessione sulla convenzionalità dei ruoli, il confondersi dei confini e la posizione e libertà dell'individuo nella macchina statale e sociale.
Agnieszka Rayzacher
Inaugurazione 17 Maggio 2008 ore 18.30
Federico Bianchi Gallery
Via Serbelloni 15 (20064) Gorgonzola - Milano
orari: mar / ven 15:00-19:30 sab 10:30-19:30