Il teatro del silenzio. Nelle sue tele l'artista racconta la tensione che c'e' nell'assenza, quando il vuoto riempie di se' tutto lo spazio. Con una pittura di grande precisione geometrica, descrive scorci di lande deserte e sconfinate o interni abbandonati, su cui incombono pochi oggetti, relitti allo stesso tempo familiari e misteriosi.
a cura di Licia Spagnesi
Aron Reyr Sverrisson è nato e cresciuto a Reykjavik, e ha alle spalle
gli studi all'Accademia di Belle Arti della sua città e una breve
esperienza in quella di Roma. In linea con le tendenze dominanti nella
pittura nordeuropea contemporanea -da Michaël Borremans a Tim Eitel, a
Matthias Weischer- interpreta lo spirito del nostro tempo cogliendo
istanti epici della vita quotidiana.
Nelle sue tele l'artista islandese racconta la tensione che c'è
nell'assenza, quando il vuoto riempie di sé tutto lo spazio. Con una
pittura di grande pulizia formale e precisione geometrica, descrive
scorci di lande deserte e sconfinate o interni abbandonati, su cui
incombono pochi oggetti, relitti allo stesso tempo familiari e misteriosi.
L'atmosfera dei quadri è dominata da quel sentimento di solitudine colma
di presagio che è forse l'elemento di maggior fascino dell'opera. Una
solitudine che non è mai angosciante, un vuoto che non è mai spettrale.
Una solitudine che l'artista ha imparato a conoscere e ad amare fin da
bambino, a contatto con la natura immensa e selvaggia della sua terra. I
ritratti d'ambiente funzionano come piccoli teatri aperti al muto
dialogo delle cose. "Quando dipingo mi sento come un regista che
allestisce il set per le riprese e il quadro è una sorta di palcoscenico
per la mia coscienza", spiega Sverrisson. "Il mio intento è che lo
spettatore lo possa utilizzare a sua volta come teatro per i propri
ricordi e sentimenti". Con una pittura misurata ed essenziale, che evita
le descrizioni didascaliche, l'artista riesce a trasmettere a chi guarda
il quadro la sensazione di partecipare all'evento che descrive. Una
lampada e un tappeto tengono compagnia a un vecchio materasso, una scena
desolata cui, sulla parete, fa eco una veduta di un'area industriale
dismessa. Le impalcature tra gli edifici sembrano alludere a un ponte,
ancorché precario, tra due esistenze. Una fila di poltrone anni
Cinquanta in un'asettica sala d'aspetto evoca conversazioni forse mai
avvenute. Due tele bianche, appoggiate contro il muro screpolato, fanno
da contraltare al nero liquido della notte che penetra dalle finestre.
Lingue di ghiaccio scivolano fino al mare sotto l'azzurro di un cielo
smisurato. Sono scenari quotidiani e inaspettati, familiari e
inquietanti, sempre affascinanti, in cui l'uomo, invisibile, è come
sottinteso. Ne avvertiamo la presenza e ne immaginiamo l'esistenza,
perché sentiamo l'eco dei suoi passi, vediamo le tracce del suo
passaggio, gli oggetti che ha usato: il letto dove ha dormito, il
ritratto che ha sfiorato con lo sguardo, la radio che gli ha tenuto
compagnia, la finestra a cui si è affacciato. Ma lui, l'uomo, non c'è.
Sono i luoghi a parlare della sua vita, a raccontare i drammi, i sogni,
le speranze che ha nutrito. Sono le cose a tenere vivo il grande
edificio del ricordo. La stanza o il paesaggio non sono che la scusa, il
pretesto, la metafora, l'allegoria per imbrigliare e trattenere qualcosa
di inafferrabile: la coscienza, i pensieri, le emozioni. Spostando e
ricomponendo le tessere del suo mosaico personale, l'artista mette a
nudo la propria anima. Raccolti in cornici dagli angoli arrotondati, che
ricordano quelle delle vecchie fotografie o lo schermo del televisore, i
suoi interni e le sue vedute paiono venire dal passato, immediati come
flash. E insieme compongono una sorta di autobiografia per immagini,
ricreando l'atmosfera di precisi momenti e luoghi della vita
dell'artista, in cui lo spettatore è invitato a entrare e a curiosare, a
confrontarli con il proprio vissuto o a immaginare storie e personaggi.
Molto fa l'uso coraggioso degli accostamenti di colore, e la luce, che
cade dall'alto, come a teatro, o filtra da una finestra, ed esercita la
sua azione morbida sulla povertà degli ambienti, rivestendoli di una
grazia inaspettata. Così si compie la metamorfosi del quotidiano, che,
rischiarato dalla luce, si carica di mistero. Proprio come avviene a
teatro.
Inaugurazione 31 maggio 2008
Duetart Gallery
vicolo Santa Chiara 4 - Varese
Orari: dal martedì al sabato dalle ore 15.30 alle 19.30
Ingresso libero