I fili del tempo. La sua ricerca segue percorsi individuali di esistenza attraverso sequenze di immagini fotografiche che si propongono come esili e intensi racconti. Nella mostra la scena iniziale e' la riva del fiume Danubio, di qui Martinetto inizia a seguire un cane che gironzola per le strade...
Autopresentazione
Sin da bambino ho sentito una grande empatia per lo strumento fotografico, così magico e misterioso.
Lo usavo soprattutto durante le gite di classe per poter far vedere ad altri quello che non potevano
vedere, perché non erano in gita con me o non erano al mio fianco nel momento in cui scattavo. Solo
crescendo ho capito il perché di questa empatia: la fotografia mi permetteva di indagare il mio
rapporto con il tempo e con la memoria.
Quella per il tempo e il suo scorrere è per me una curiosità nei confronti del mutare delle cose, è
tentare di capire come esse mutino e soprattutto come noi possiamo rapportarci a questo mutamento.
Il nostro rapporto con il tempo è il fondamento invisibile della nostra vita. I ricordi che richiamiamo alla
mente più spesso sono della stessa materia dei sogni, condizionano il nostro presente e il nostro
futuro.
A pensarci adesso era quasi ovvio che mi sarei imbattuto nella fotografia, straordinario strumento di
memoria quotidiana ed utilizzato ormai da quasi tutte le persone per serbare il ricordo di alcuni
momenti della propria vita.
Ci volle parecchio tempo per padroneggiare bene il mezzo tecnico e quello che all’inizio mi
interessava era l’anima filosofica che cercavo di infilare tra gli spazi delle mie prime serie fotografiche,
trattando le mie fotografie come fossero delle domande piuttosto che delle risposte. Dopo qualche
tempo però mi resi conto che sentivo la necessità di interagire maggiormente con le persone e di
giocare di più con l’imprevisto. Ripresi a fotografare durante i miei viaggi, come ai tempi delle gite di
classe, cercando di narrare dei luoghi o delle storie. Continuai in questo modo per un po’ di tempo,
fino a quando compresi che potevo tentare di unire i due tipi di lavoro che realizzavo, che l’anima
filosofica poteva essere fusa insieme all’anima narrativa o documentaristica.
Così realizzai “Senza la memoria” un viaggio dentro la casa di mia nonna e un’indagine sul suo
rapporto con il passato, con la sua memoria talmente breve da aver bisogno dell’aiuto di una miriade
di biglietti per ricordarsi cosa fare durante le sue giornate.
Il mondo è pieno di piccole storie come quelle di mia nonna, che non urlano per essere raccontate ma
richiedono attenzione per essere scovate tra le pieghe del quotidiano. Non credo in un’unica grande
Storia ma nell’insieme fluido delle singole storie, quelle storie talmente piccole che se narrate nel
modo giusto, utilizzando le potenzialità della fotografia, possono diventare emblematiche ed evocarci
qualcosa di grande e universale. Con ciò non credo che la Storia non debba essere tramandata ma
preferisco lasciare questo compito agli storici.
Il mio lavoro è questo: restringere il campo, diventare un microscopio per poter andare più in
profondità, per scoprire ogni volta come l’infinitamente piccolo richiami l’infinitamente grande, come
parlando dell’atomo non si possa non pensare all’universo.
In conclusione, nel fare arte anche l’aspetto formale è importante, bisogna ricercare una semplicità,
una purezza visiva, in un mondo che è colmo di stimoli visivi caotici ed invadenti. Fare arte oggi è una
grande responsabilità morale. Bisogna tentare di rimanere puri, bisogna cercare di ritornare bambini
mantenendo la saggezza degli adulti.
Autobiografia
Sono nato a Torino nel 1980. In occasione della mia nascita mio nonno, che tra i tanti mestieri aveva
fatto anche il fotografo, decise di comprare una nuova macchina fotografica. Otto anni fa, poco prima
di morire in seguito a una lunga malattia, decise di regalarmi proprio quella macchina facendo in
tempo a darmi soltanto pochi consigli essenziali.
Per una curiosa coincidenza, nello stesso periodo, scrivo insieme al mio migliore amico un soggetto
per un film: la storia che vorremmo sceneggiare racconta di un fotografo di moda che viene invitato in
uno sperduto paesino di montagna a realizzare un reportage dove rimetterà in discussione la sua vita
e il rapporto tra l’immagine fotografica e la realtà, abbandonando la prima in favore della seconda. Per
riuscire a scrivere la sceneggiatura mi trovo a voler capire cosa si prova ad essere un fotografo e così
prendo in mano la macchina che mio nonno mi aveva appena lasciato in dono. Il film non l’ho mai
realizzato ma sono diventato un fotografo.
Mi laureo in filosofia estetica presso l'Università di Bologna con una tesi di fotografia con lo storico e
critico Claudio Marra. Dal 2004 lavoro come fotografo di scena per il cinema, fotografo reportagista
indipendente e in qualità di artista visivo. Insegno fotografia collaborando con il Comune di Torino, con
associazioni culturali, piccole scuole di fotografia e tengo workshop intensivi a Torino e Bologna.
Ho esposto le mie opere in una quarantina di mostre tra collettive e personali in Italia e all’estero. Miei
lavori e singole fotografie sono stati pubblicati sui principali giornali e riviste italiani.
Ho vinto il premio nazionale giovane talento fotografico FNAC 2004, il premio Festival Foto Portfolio in
piazza 2004 a Savignano sul Rubicone e con “Senza la memoria” sono stato premiato per il miglior
lavoro dell’anno con il Portfolio 2004 - Gran premio Epson Italia. Per le foto fatte sui set
cinematografici ho vinto al concorso CliCiak 2007 il premio Palmas come incentivo per la
prosecuzione nella carriera di fotografo di scena. In qualità di insegnante, insieme ai miei allievi, ho
ricevuto il premio Arte Plurale 2007 per un laboratorio tenuto a Torino con persone mentalmente
disabili.
Presentazione di Francesco Poli
Il lavoro fotografico di Simone Martinetto è a prima vista di una semplicità disarmante, lontano da ogni
forma di enfatizzazione degli effetti e dal gusto per soggetti provocatori oggi fin troppo frequentati. Ma
questa semplicità ha in effetti valenze piuttosto originali ed è il risultato di una intelligente e sensibile
profondità di visione della realtà nei suoi aspetti essenziali e esistenziali. La tensione estetica della sua
ricerca nasce dal tentativo di indagare il senso della vita, seguendo il filo di percorsi individuali di
esistenza attraverso sequenze di immagini che si propongono come esili e intensi racconti, dove la
chiara e sintetica narrazione descrittiva immersa nella temporalità quotidiana quasi per incanto appare
agli occhi dell’osservatore come sospesa in una dimensione di meditata contemplazione.
In questa mostra vengono presentate tre opere, ciascuna delle quali ha richiesto parecchio tempo per
essere realizzata. Sono tutte tre, in termini molto diversi fra loro, dei “viaggi” nello spazio e nel tempo.
Il primo di questi lavori è una sorta di ricognizione intimistica e affettuosa del microuniverso di esistenza
della nonna che vive in un piccolo appartamento e che ha una memoria ormai ben poco efficiente. Per
cercare di ricordarle tutte le cose da fare la figlia della vecchia signora ha adottato il metodo di
attaccare un po’ dappertutto dei “memoranda”, piccoli foglietti con indicazioni scritte da entrambe.
L’artista ha fotografato tutti questi pezzi di carta incollati sui muri, sui mobili e sulle porte, e così
facendo ha realizzato non solo un “viaggio” nelle stanze ma anche nella mente di sua nonna. La
sequenza di piccole foto con queste tracce minimali ha una singolare forza evocativa.
Il secondo lavoro è un reportage di un vero viaggio, quello lunghissimo di un gruppo di piccioni
viaggiatori portati lontano e lasciati liberi. Martinetto ha seguito il loro percorso di rientro alla base
attraverso cieli e paesaggi, cercando di fissare in una serie molto selezionata di bellissime immagini il
senso segreto di questa affascinante odissea. Guidati (o costretti) dal loro inesorabile e infallibile istinto
questi volatili ritornano sempre a casa. Entrano qui in gioco temi fondamentali relativi al destino degli
esseri viventi, in generale, che potremmo sintetizzare con il titolo del famoso quadro di Gauguin: “Da
dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”.
E queste domande valgono anche per il lavoro più recente di Martinetto, “Il filo del tempo”, che dà il
titolo alla mostra.
Alcune frasi introducono la serie di immagini. Ecco le due che spiegano bene il significato del progetto
visivo: “Quale filo di coincidenze tiene insieme le piccole storie singole ?”; “A volte si toccano per caso
o per scelta, si incrociano in una strada per poi allontanarsi come i rami del delta del Danubio”.
Ed è proprio sulle rive del Danubio, in una piccola città rumena di nome Tulcea (un luogo senza
particolari attrazioni), che si dipana “il filo del tempo” attraverso una fragile ed enigmatica
concatenazione di incontri. La scena iniziale è la riva del fiume solitaria al mattino. Di qui Martinetto
inizia a seguire un cane che gironzola per le strade e poi un altro cane incontrato dal primo e poi una
bambina che incrocia quel cagnetto (e che sale in alto su un monumento abbracciando con lo sguardo
tutta la città) e poi una donna (forse la nonna della bambina) e poi dei battellieri sul fiume e poi un
guidatore di pullman. La scena finale è di nuovo la riva del fiume al tramonto. Con questa serie di
immagini che documentano piccole azioni incrociate di varie persone e animali, l’artista mette in scena
in modo poetico, con frammenti minimali, l’esistenza quotidiana in un luogo qualunque che diventa
fortemente emblematico, anche per la sua posizione sul fiume, grande e antica metafora del fluire del
tempo e della vita.
Immagine tratta da “il filo del tempo”, 2007
Inaugurazione: 5 giugno ‘08 h. 18,00
Claudio Bottello contemporary
via Bogino, 17h Torino 10123
Orario: lun-ven 16-20, mer 16-22