Benuzzi e' figura trasversale del panorama artistico italiano, pittore - innanzitutto, ma non solo - di quelli che non sanno domare l'insofferenza verso maniere e stili e cercano di alimentare il proprio lavoro in un continuo, vorace espandersi della ricerca all'interno di campi sempre diversi.
Si inaugura giovedì 28 febbraio 2002, alle ore 18, presso lo spazio Juliet (in
via Madonna del Mare n. 6) la prima personale a Trieste di Bruno Benuzzi.
Sardo di Argentiera (Sassari) ma cresciuto artisticamente a Bologna, Benuzzi è
figura trasversale del panorama artistico italiano, pittore - innanzitutto, ma
non solo - di quelli che non sanno domare l'insofferenza verso maniere e stili
e cercano di alimentare il proprio lavoro in un continuo, vorace espandersi
della ricerca all'interno di campi sempre diversi.
All'artista, cui non è dato l'agio di esprimersi solo col proprio lavoro,
perché siamo sempre lì a tartassarlo, a scucire come e perché, ragioni per un
fare eclettico e talvolta bizzarro, capita così di dover accompagnare
l'immagine alla parola, succede di dover creare concetti che si approssimino
alla lingua parlata dalle sue creazioni. È sempre un lavoro d'interpretariato,
una traduzione che rende quel che può; tuttavia, costrettovi, Benuzzi parla di
"strani attrattori", di meccanismi o reazioni - di chimica cerebrale,
aggiungeremmo - che consentono di creare un collegamento, di far dialogare
sulle forme scelte dei colori e delle immagini che sappiamo rendere uno
sguardo e un pensiero che impollina instancabilmente fiori sbocciati in
latitudini diverse. Soprattutto, come si voleva negli anni settanta e ottanta,
periodo di formazione del nostro, sapere alto e basso, haute couture e strada.
"La lingua di Menelik (da Cocullo a Las Vegas)", opera del 1997, ne è un
esempio paradigmatico, nel titolo e nelle forme: il nostro sapere cromosomico,
dove i giochi prospettici degli affreschi della Casa dei Grifi e le colonne
tortili convivono pacificamente con Milo Manara, si apre a suggestioni
coloniali, spingendosi in là ai colori accesi dell'oriente misterioso e ai
suoi miti, e rivive sommato e diffratto nei pixel dello schermo digitale.
Così il quadro non basta più, e il tuffo nella dimensione storica obbliga a
ricorrere alla prospettiva sfuggente del cilindro, sezione di colonna che
sboccia in alto in un'immagine suadente e levantina, un sole che sorride dal
volto di fanciulla o di efebo, verso cui convergono o dal quale si dispiegano
tracce dorate di una radiazione di giovane energia.
Tanto dispiego di suggestioni non può limitarsi alle forme, perciò ricorre
anche alla materia coniugando mestiere e natura, così che la natura dell'arte
diventa inedite mescolanze di pastelli e legno, smalti e farina. Benuzzi
sregola in tal modo l'identità della maniere, inventando un ponte semovente da
gettare sopra le rive del Po e dell'Eufrate, braccio che unisce nel pensiero
dell'artista stesso stimoli e influenze, lampi da fondere insieme
nell'indefinibile unicum dell'opera.
Per questo, guardare il suo lavoro è anche - o soprattutto - un esercizio di
percezione, che va aldilà della catalogazione di suoni e profumi, di storie e
di luoghi, per cogliere l'essenza dell'intero viaggio. È una lettura in due
parti: la prima, d'insieme, lascia esterrefatti e a volte disorientati.
Incapaci, quasi, di annettere all'occhio tanta ricchezza. La seconda pretende
invece la pazienza del fine cultore della storia delle immagini, una mente
aperta e il desiderio di avventurarsi in tanta sovrapposizione di gusti per
discernere e unire allo stesso tempo, con la discrezione e l'attenzione che
questo cesellare di lingue comanda, le innumerevoli parti del discorso.
È un fare che ha portato Benuzzi a provarsi in varie soluzioni formali,
attente sempre a rimanere pittura (figura) senza però cedere alla lusinga di
tanta quadreria che fa traspirare la meccanicità dell'esercizio. Per questo
nella produzione si sono alternati ovali, tondi e rettangoli, bordi ispessiti
e rilievi, colori piatti e materie dal lusinghevole aspetto della pasticceria:
una trappola sensuale, pronta a ghermire lo sguardo disattento, l'approccio
superficiale. Sono venute le tre dimensioni, con sculture "da paesaggio" come
"Asilo Altdorfer per Uccelli", lineare ritiro galleggiante per pennuti
migratori in viaggio dal Rinascimento al Postmoderno. L'intenzione, neppure
tanto coperta, pare essere quella di s-centrare l'associazione visiva,
anteponendo la memoria al dato oggettivo, creando un melange di dati tra i
quali costruirsi un ordine e un percorso. Benuzzi, solleticatore di fantasie
sopite, ci costringe a stare continuamente in bilico tra il divertimento e
l'attenzione.
In mostra l'autore porterà una panoramica ristretta della sua attività :
disegni e progetti che risalgono alla prima metà degli anni Settanta; un
campionario di opere pseudoastratte di poco successive; un video che documenta
la genesi dell'opera Rifugio Altdorfer per uccelli (ovvero riparo per oche,
anatre et similia realizzato in foggia di cattedrale in formato ridotto).
Infine sono della partita anche alcune cibachrome arricchite da interventi
manuali di tipo mimetico, interventi che riportano (sulla superficie patinata
della foto) la consueta tecnica dell'artista vellutatamente scabra al tatto.
La mostra, curata da Roberto Vidali, si concluderà il 9 aprile.
Inaugurazione:
giovedì 28 febbraio 2002, alle ore 18
La mostra sarà visitabile ogni martedì dalle 18 alle 21, oppure su
appuntamento, telefonando al n. 040-314606.
Juliet
in via Madonna del Mare n. 6 Trieste