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Sergio Orlando
dal 4/2/2009 al 13/2/2009

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Sergio Orlando
Sergio Zavoli



 
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4/2/2009

Sergio Orlando

Galleria Bolzani, Milano

Un mondo visto da dentro. "Cio' che avvicina Orlando a Cezanne e' l'attenzione costante riservata a soggetti semplici, come frutta, fiori e stoviglie, coniugata con la passione per il silenzio." (Roberto Mottadelli).


comunicato stampa

Un mondo visto da dentro di Sergio Zavoli
“ Ed ecco che le predilezioni per la natura, gli ambienti e gli oggetti, i colori e la materia, frutto di un'immaginazione che trasforma il reale in simulacri, parvenze, percezioni; finché il fiore insecchito, il cardo mesto e peloso, le foglie croccanti della pannocchia, con le trasparenze di acque e vetri, laghi e cieli, uve e bicchieri, sembrano un mondo visto da dentro. ''

Come fresca ombra sui viali d’estate di Roberto Mottadelli
“Lei ritiene che la mia sia una pittura postimpressionista?” Questa la prima domanda che Sergio Orlando rivolge a chi si appresta a scrivere di lui. La risposta è tutt’altro che scontata, non solo perché è difficile racchiudere un’esperienza artistica quarantennale in una semplice definizione, ma anche perché il postimpressionismo non fu un movimento univoco. Anzi, a ben vedere non fu nemmeno un movimento, ma una sorta di etichetta sotto la quale furono raggruppati “a posteriori” i principali artisti attivi in Francia tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, da Gauguin e Van Gogh a Seurat e Cézanne.

Ciò che avvicina Orlando a Cézanne è l’attenzione costante riservata a soggetti semplici, come frutta, fiori e stoviglie, coniugata con la passione per il silenzio (e qui, più che di natura morta, forse si dovrebbe parlare di still life o stilleben, “natura silenziosa”, come usano inglesi e tedeschi). Ma, se il maestro francese interpretava la natura morta essenzialmente come studio di forme e volumi, se le sue mele diventavano sfere impegnate a misurare e definire prima lo spazio reale e poi quello pittorico, Orlando concepisce questo genere come occasione per riflettere su una realtà che non si risolve nel dato di fatto oggettivo. Il fulcro della sua riflessione non riguarda la sudditanza della mela alle leggi della fisica, né concerne il tema dell’adattamento della realtà alle due dimensioni della tela: una problematica già portata alle estreme conseguenze dai cubisti. Invece, i suoi quadri accarezzano con discrezione una dimensione altra, che può essere letta ora in senso lirico, ora in chiave quasi metafisica.

Appare dunque evidente che il debito di Orlando nei confronti di Cézanne, per quanto decisamente più consistente di quello effimero con Van Gogh, è contenuto entro argini limitati. Piuttosto, la sua predilezione per la composizione giocata su pochi toni cromatici rimanda al magistero di Giorgio Morandi, interpretato con una scioltezza che rivela la frequentazione di Virgilio Guidi e soprattutto lo studio dei lavori di Angelo Del Bon, Umberto Lilloni e degli altri chiaristi milanesi.

Per tornare alla domanda iniziale, definire postimpressionista la pittura di Orlando sarebbe operazione riduttiva e per alcuni aspetti fuorviante. Risulterebbe semplicistico, per quanto più pertinente, anche limitarsi a inquadrare il pittore nell’ambito dei continuatori della maniera chiarista, o più in generale, collocarlo tra gli epigoni della tradizione del Novecento padano: in un caso come nell’altro, si perderebbe di vista quella cifra stilistica che lo rende refrattario a ogni incasellamento all’interno di gruppi, correnti o movimenti.
Non si va lontano dal vero se si afferma che la specificità di questo autore risiede nella sua dimensione poetica. Orlando ama la poesia, la frequenta assiduamente da lettore e da autore, come dimostrano i versi che ha pubblicato in anni passati. Una passione che si riflette anche nella sua pittura: si ha l’impressione che egli segua le regole della composizione poetica anche mentre dipinge. Nelle nature morte, per esempio, Orlando tende a decontestualizzare gli elementi che raffigura; come già ha osservato Martina Corgnati, essi sembrano sospesi fra lo sfondo e un piano orizzontale solo intuìto, non presentano elementi di contorno. Spesso non c’è neppure un accenno di ambientazione, l’artista annulla la trama narrativa. Questa operazione di isolamento dell’oggetto appare affine a quella che compie il poeta quando decide di dedicare un verso a un’unica parola. Precedute e seguite dal bianco della pagina nuda, poche sillabe moltiplicano la loro forza espressiva, il significato si arricchisce di mille possibili sfumature. Allo stesso modo, estrapolati da un contesto, sospesi in una campitura di fondo quasi monocroma, un’ortensia, una teiera, perfino una semplicissima spazzola da bucato possono evocare atmosfere metafisiche. Rassicurato dal tepore dei toni morbidi che spesso dominano la tela, chi osserva questi oggetti è portato a creare nella sua mente uno spazio più articolato nel quale collocarli; apre la porta della memoria quasi senza rendersene conto, e così lascia fluire ricordi lontani e sensazioni dimenticate che completano ciò che vede sulla tela. Per citare una poesia di Orlando, questa pittura si adagia nell’anima di chi la guarda come fresca ombra sui viali d’estate: con assoluta naturalezza offre un momento di pace, ritaglia un angolo lirico nel quale ciascuno si sente accolto.

Forse non è superfluo sottolineare che questo processo di immedesimazione nel quadro (o meglio, di spontanea assimilazione del soggetto dell’opera nel vissuto dell’osservatore) non si potrebbe verificare se Orlando si dedicasse a raffigurare elementi meno umili di quelli che dipinge. Paradossalmente, i temi consacrati dalla tradizione simbolista e parnassiana – dagli animali esotici alle scene letterarie e mitologiche – risulterebbero meno poetici di un anonimo libro posato su una tavola di legno: non garantirebbero lo stesso grado di coinvolgimento dello spettatore, in quanto completamente estranei alla vita reale.

Non solo l’impaginazione delle nature morte, ma anche quella dei paesaggi è riconducibile a strutture prese in prestito dalla poesia. Nella tendenza di Orlando a non raffigurare luoghi fortemente connotati o facilmente identificabili si può leggere un’eco del leopardiano principio della “vaghezza”: un’eccessiva precisione indebolirebbe la forza dell’evocazione. Le vedute sono spesso giocate su poche tinte ripetute all’interno della tela, la cui funzione è assimilabile a quella delle allitterazioni utilizzate dai rimatori per scandire il ritmo del verso. Talvolta le scene sono realizzate con un unico colore – per esempio il verde degli alberi – declinato in più tonalità, così da creare un sistema di richiami tra le diverse parti della composizione: un intreccio paragonabile alla trama di rime e assonanze che lega tra loro i versi di un sonetto.

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