La mostra indaga, attraverso 40 olii, l'opera di Dallabrida attraverso alcuni luoghi caratteristici del Trentino, da Caldonazzo, ad Arco, a San Michele all'Adige. Opere nelle quali il paesaggio e' utilizzato come nota biografica di una vita itinerante, attraverso le tappe dei maestri trentini che maggiormente lo hanno ispirato, Eugenio Prati, Bartolomeo Bezzi e lo stesso Giovanni Segantini.
a cura di Giovanna Nicoletti
Nella prima mostra del 2009, la Galleria Civica di Arco indaga, attraverso 40 oli, l’opera di Giuseppe Angelico Dallabrida, che visse tra il 1874 e il 1959 attraverso alcuni luoghi caratteristici del Trentino, da Caldonazzo, ad Arco, a San Michele all’Adige. Opere nelle quali il paesaggio è utilizzato come appunti biografici di una vita itinerante, attraverso le tappe dei maestri trentini che maggiormente lo hanno ispirato, Eugenio Prati, Bartolomeo Bezzi, lo stesso Giovanni Segantini.
Se, come ci dice la direttrice della Galleria Civica Giovanna Nicoletti, il clima artistico nel quale si forma è quello tardo romantico delle Accademie di Venezia e di Milano, Dallabrida preferisce però rifugiarsi nella quiete della sua terra e immergersi nella totalità del paesaggio montano, unico luogo nel quale sa trovare la sua ispirazione.
Poche le date sicure per la sua estesa produzione, unica certezza è il periodo trascorso in Moravia durante la Grande Guerra, quando sfollato assieme agli altri trentini venne trasferito nel campo di Mittendorf. Le opere di questi anni sono realistiche e piene di tristezza, quasi delle cronache della miseria e della malinconia vissute dai Trentini profughi nell’Impero austro-ungarico.
Al termine della guerra Dallabrida rientra in Trentino e ai suoi paesaggi ripetuti più e più volte: le vedute del lago di Caldonazzo o quelle di San Michele e Grumo, le composizioni delle Bagnanti che spesso si trasformano in veri e propri paesaggi. “Dallabrida – spiega, a questo proposito, la curatrice Giovanna Nicoletti – ha dipinto su materiali tra i più vari, da supporti cartacei, a tele di sacco, o pezzi di legno. Gli impasti cromatici usati dal pittore sono inusuali e ancora sconosciuti dal punto di vista della composizione: si sa che Dallabrida cercava di creare un rapporto vero tra l’opera e la natura e per questo molti colori sono stati realizzati mescolando materiali organici o erbe. Usava poi osservare da lontano l’effetto delle sue opere e qualche volta vi lanciava contro il pennello in modo che il colore schizzasse disordinatamente sulla superficie della tela per dare un effetto di maggiore omogeneità”.
“Il suo approccio al mondo dell’arte rientra più nella categoria romantica di colui che si immedesima con l’oggetto ritratto non descrivendo la terra ma le sensazioni percettive che questa emana – ci dice a sua volta il critico, Fiorenzo Degasperi – In quest’ottica la pittura dell’artista rimanda alla propria geografia interiore. Egli si muoveva costantemente tra Caldonazzo e Mezzolombardo, transitando per Trento, utilizzando una vecchia bicicletta senza sella, atta a trasportare le tele e l’armamentario del proprio mondo pittorico. E ogni tanto si fermava, prendeva la tela, pennelli e tavolozza, dipingendo ciò che lo aveva, in quel preciso istante, colpito. Una luce, una nube, una particolare atmosfera, una situazione”.
Tra gli aneddoti ve n’è uno che rimane alla memoria, come ricordato da Degasperi: “Nel 1937 Dallabrida si recò a Roma, assieme a Bruno Colorio e Fortunato Depero, invitati a pranzo da Benito Mussolini, per una premiazione. Lui abituato a risparmiare fino all’ultimo soldo per poter acquistare il materiale che gli permettesse di continuare la sua attività di pittore e di sognatore, prese dal piatto la sostanziosa bistecca per riporla nel portafoglio vuoto. Poteva servire in seguito. Uomo essenziale, d’altri tempi, maestro dell’atmosfera del paesaggio”.
Inaugurazione: sabato 7 febbraio ore 18
Galleria Civica G. Segantini
Via Segantini, 9 (Palazzo dei Panni) Arco
orario: 10 - 18, chiuso il lunedì
ingresso libero