Lost Ways. Nel dipingere i suoi paesaggi l'artista sembra far correre i suoi occhi tra le cose sparpagliate nella memoria, senza cercare di dare loro una successione o di tracciare una linea tra i punti discontinui che la memoria conserva isolati.
a cura di Luigi Meneghelli
In un breve testo apparso postumo Italo Calvino affermava che ogni volta che aveva provato a descrivere un paesaggio, il metodo che aveva dovuto seguire nella descrizione era diventato altrettanto importante che il paesaggio descritto. “Si comincia credendo che l’operazione sia semplice – sosteneva Calvino -: (basta) delimitare un pezzo di spazio e dire tutto ciò che vi si vede; ma ecco che subito devo decidere se ciò che vedo lo vedo stando fermo oppure lo vedo spostandomi da un punto all’altro dello spazio in modo da poter dire quello che vedo da punti diversi, cioè moltiplicando i punti di vista”.
Ebbene, nel dipingere i suoi “Paesaggi” l’artista di origine spagnola Juan Carlos Ceci (1967) sembra proprio far correre i suoi occhi interiori avanti e indietro tra le cose sparpagliate nella memoria. Egli non cerca neppure di dare loro una successione di “tracciare una linea tra i punti discontinui che la memoria conserva isolati, strappati dalla vera esperienza dello spazio”. Il suo obiettivo non è quello di ricostruire una continuità che si è cancellata col tempo, quanto piuttosto quello di dare vita a una dinamica instabile di latenze e risvegli, a un groviglio guizzante e inestricabile di ipotesi visive.
Sia che si tratti di tavolette (simili a miniature) che di grandi tele Ceci procede tra una popolazione di ombre dove “nulla è inciso. Nel cavo del dato, del fatto” (come direbbe il poeta A. Zanzotto). Il suo è un vagare obliquo, trasversale, per indizi, per flussi e riflussi di memoria, per spinte e controspinte, quasi danza fra segno e sogno, fra traccia e fantasma. Solo che questo avanzare per “sentieri interrotti” può far pensare anche che il lavoro di Ceci non sia costituito solo da residui evocativi, da impronte rivisitate, ma da un incamminarsi verso il linguaggio, e quindi da un affrontare la pittura come inizio, germe, radice di un paesaggio a venire. Così l’incostituzione dell’immagine non è data unicamente dallo “sbadarsi” delle memorie, ma anche da un germinare e da un affiorare di presagi visivi, di sintomi spaziali, che si inseguono uno dietro l’altro, uno sopra l’altro, fino a far sparire ogni distanza tra realtà e sogno, ombra e corpo, nebbia e rupe, alto e basso.
E se, fino a qualche tempo fa, l’artista si accaniva a costruire e a definire una visionarietà cosmica prossima alle “foreste pietrificate” di M. Ernst, ora egli cerca di tradurre l’atto del “vedere” come fosse prossimo alla sua stessa origine, un po’ alla maniera di Monet (quello almeno dei Covoni o della Cattedrale di Rouen) e alla sua pittura sempre sospesa in una sorta di agitazione e di deriva. Per cui il titolo volutamente ripreso da un film di David Lynch, se non intende riferirsi direttamente al mondo notturno e decostruito delle Strade perdute, di sicuro ne richiama il senso profondo, dove tutto vaga nell’incerto, le scene tornano indietro o indifferentemente fuggono in avanti e ogni unità tende invariabilmente a sbriciolarsi e a disperdersi.
con preghiera di pubblicazione
Inaugurazione venerdì 17 aprile 2009 ore 19
Galleria Arte Boccanera Contemporanea, Trento
via Milano 128/130 Trento
Orario: dal martedì al sabato 11-13 / 16-19
ingresso libero