La mostra ospita il neotitanismo del pittore Silicati e l'ultrasimbolismo del fotografo Carotti. Due percorsi espressivi distinti, accomunati della dimensione antropologica di Jesi che vive all'ombra dei 'grandi circuiti' metropolitani, ma che si rivela terreno fertile per la formazione artistica.
Gli artisti jesini Andrea Silicati e Fabrizio Carotti tornano alla Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto da solisti comprimari, con una doppia personale, dopo la partecipazione di entrambi all’esposizione collettiva dello scorso luglio “Il Mito: da Andy Warhol a Mario Schifano alla digital art”, accanto a nomi, tra gli altri, del calibro di Andy Warhol, Mario Schifano, Mark Kostabi, Mimmo Rotella, Marco Lodola e Ugo Nespolo.
Dal 19 al 27 settembre gli affascinanti spazi del più prestigioso sito espositivo delle Marche ospiteranno “Occhio dorato scura pazienza”, titolo comune di due esposizioni dall’allestimento distinto tratto da un verso del grande poeta austriaco George Trakl.
Da una parte il neotitanismo di Andrea Silicati, pittore, dall’altra l’ultrasimbolismo di Fabrizio Carotti, fotografo - artista digitale, entrambi nati a Jesi, dove di fatto ha preso forma e si è sviluppata la loro ricerca. Due percorsi espressivi e stilistici distinti, accomunati da una dimensione “geografica” e “antropologica”, quella della provincia, che vive all’ombra dei “grandi circuiti” metropolitani, dei salotti importanti, e tuttavia si rivela spesso terreno non meno fertile e culla ideale per la formazione artistica, una sorta di alcova preziosa dove poter maturare al riparo da pressioni onnivore e ritmi concitati. Carotti e Silicati ne sono una fulgida dimostrazione.
L’evento espositivo, patrocinato dal Comune di San Benedetto del Tronto - Assessorato alla cultura - e dalla Provincia di Ascoli Piceno, è a cura di Valerio Dehò, curatore al Kunsthaus di Merano, critico d’arte, e insegnante di estetica nelle Accademie di Belle Arti di Ravenna e Rimini.
Andrea Silicati, classe 1970, è pittore di razza, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Macerata. Tra i suoi lavori spiccano le performance “Incontri osmotici”, alla Mole Vanvitelliana di Ancona all’interno della mostra “Derive e altre immagini”, e “Sillabe di Pietra”, realizzata con Maria Cristina Ponzetti nella manifestazione per artisti di strada a Colonnella (TE), entrambe nel 1996; le partecipazioni alla collettiva di pittura al “Palagio di Parte Guelfa” di Firenze, organizzata dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze nel 2005, e alla “quarta triennale d’arte sacra contemporanea” al Seminario Arcivescovile di Lecce nel 2006. Il salto di qualità arriva nel 2009, con “Aner Antrophos”, progetto concepito assieme al critico ed artista Gian Ruggero Manzoni, in cui la ricerca di Silicati si raffina ulteriormente, e il suo talento si palesa in confini stilistici ed espressivi ormai maturi. Attraverso un segno di figurazione nuda e cruda, sfrigolata sulla carta giapponese da restauro stesa sulla tela in un solo colpo, appena bagnata, Silicati restituisce a dei corpi "normali", come pure erano quelli degli eroi omerici, il destino mitico che spetta a tutti gli esseri umani. Il progetto frutta due allestimenti: “Aner Anthropos 0.1” (aprile 2009) alla galleria “L’Idioma” di Augusto Piccioni, a cura di Marta Massaioli, editrice del bimestrale d’arte Crudelia, e “Aner Anthropos 0.2" (giugno 2009), alla galleria “Exhibition Art” di Fano di Roberto e Lulla Giammattei, a cura dello stesso Gian Ruggero Manzoni. Andrea Silicati ha attualmente un’esclusiva con il giornalista e critico d’arte Gianluca Marziani, che curerà la sua prossima personale alla Galleria “Portfolio” di Senigallia, realtà molto ben radicata nel territorio, che annovera nel suo catalogo, oltre a quelle di Silicati, opere di artisti come Chia, Giacomelli e Manzoni.
Valerio Dehò ha scritto: 'Andrea Silicati inventa una propria tecnica personalissima per evadere dalla prigione della tradizione. Usa il contagocce per distillare lacrime cromatiche sulla carta giapponese che abitualmente viene adoperata per il restauro. Ma non vi è nulla a che vedere con il tachisme, quanto invece una rivisitazione originale della figurazione che assume toni imprevisti. Infatti le carte montate a strati su tela restano tali con il loro trasudato colore, con la loro sottile percezione grafica, quasi una memoria che vaga tra pittura e disegno. Una pittura non pittura, un segno disfatto, irregolare e per questo interessante, proprio perché la classicità dei corpi ricamati d’intensità rosse, verdi, gialle e blu risulta da un lavoro in cui la variabile temporale riappare come contenuto concettuale, non come tradizione del dipingere e del ritirarsi (da mondo). Tra Schiele e il pattern painting le opere nascono da un profondo feedback tra la materia e la composizione. Silicati lavora con molta attenzione non solo sui rapporti interni tra le carte dipinte, ma soprattutto le suddivide in scansioni relazionali che richiamo la classicità del dittico o del trittico, ma continuano a mantenere la freschezza della tecnica, non sono mai monumentali pur esprimendo profonda spiritualità. In fondo, Silicati è un erede attuale del giapponismo che influenzò alla fine dell’Ottocento anche Van Gogh, naturalmente non dal punto di vista della semplice citazione storica, quanto piuttosto come riscoperta di punti di equilibrio nella storia dell’arte tra Espressionismo e Ukiyo-e. Molto bello è infatti il rapporto tra il pattern e le figure, il sapere giocare su diverse intensità perché sorretto da una capacità compositiva complessa fatta di variazioni, di sottigliezza e di clamorosi vuoti. Silicati non ha paura del bianco, la sua pittura propone una visione contemporanea dell’uomo che trova una collocazione non più nella storia, ma nel vuoto metafisico del tempo. I suoi corpi sono relitti che vagano sulla superficie pittorica alla ricerca di un’isola che non c’è. E’ un perfetto regista di una sorta di dramma tra vuoti e pieni, tra decorazione e corporeità: qualcosa che non si scioglie mai in una soluzione accondiscendente. La sua pittura diventa una metapittura, lo sgocciolamento del dripping, con la casualità connessa di espressività inconsce tra la mano e l’Hasard, viene ribaltata dalla tecnica del contagocce che distilla con sapienza tutto il voluto, ma resta aperto al suo contrario. La mente e la pittura si rispecchiano come un continuo feed back tra il vedere e il sentire, tra il conosciuto e il conoscibile.'
Fabrizio Carotti, classe 1980, laureato in Filosofia (indirizzo estetico) all’università di Bologna, utilizza da sempre la fotografia digitale come punto di partenza per sviluppare visioni che non raramente trascendono la dimensione del semplice “istante quotidiano”. Il quadro fotografico diventa una tela in cui passioni e tormenti deflagrano in un lucido equilibrio tra stilemi classici e ultramoderni guizzi visionari, approdando a soluzioni sorprendenti, ricche di simbolismo. Una ricerca raffinata nel tempo, “ruminando” in rapida evoluzione spunti liberamente tratti dal mondo della cultura popolare, della musica, del cinema e della letteratura. Tra le numerose esperienze spiccano la personale a Peschiera del Garda, “Peschiera rivisitata”, nell’agosto del 2008, la personale “La logica dell’immaginario”, nell’ottobre del 2008 alla Pinacoteca Civica di Fabriano, e la partecipazione alla mostra fotografica collettiva omaggio a Mario Rigoni Stern, “L’indice della Memoria”, dall’11ottobre al 16 novembre del 2008 nella chiesa dei SS. Ambrogio e Bellino di Vicenza, a cura della galleria veneta Artesgarro. Nel 2009 entra ufficialmente nel mercato artistico partecipando, sempre con la galleria Artesgarro, ad Arte fiera Bergamo (gennaio), Arte Cremona (febbraio), Arte Genova (febbraio-marzo) e Arte Firenze (marzo).
Valerio Dehò ha scritto: 'Fabrizio Carotti usa la fotografia con una ponderatezza che non diventa mai incapacità a non farsi coinvolgere dalle possibilità di un confronto con la temporalità rappresa. Parte dalla fotografia come genealogia impossibile per aprirsi ad una sperimentazione verso altre situazioni e verso la pittura stessa, che è consanguinea per la sua generazione. Il digitale fa sì che i tempi della ripresa e dell’elaborazione coincidano in un’ unità di tempo infinitamente variabile. Da un lato è la pittura che sorprendentemente riappare nelle opere di Carotti che recano tracce di trame e di antichi graffi, di colori scaldati e quasi ossidati, di un tempo che virtualmente ha abbracciato uomini e paesaggi in un abbraccio figurale. Dall’altro i volti così contemporanei e la stessa velocità delle pose, i movimenti spesso storditi d’immediatezza, ci riportano nell’alveo di una tecnica che sappiamo possa sempre cogliere gli attimi che perdiamo nel corso della nostra esistenza. Ma il gioco dei paradossi sta proprio nel fatto che Fabrizio Carotti ricorda la pittura non solo quando le deposita una patina che avvolge cose e persone, ma anche quando ne riprende gli stilemi, soprattutto in chiave caravaggesca. La luce nera diventa allora una sorta di negazione della fotografia, la camera chiara di Roland Barthes ridiventa scura, proprio perché la fotografia attuale, quasi interamente digitale, è aperta verso paradigmi in cui il mezzo sembra farsi da parte, sembra non voler diventare determinante per chiarire la pozione dell’artista rispetto al mondo e rispetto alla storia dell’arte. La cultura di Fabrizio Carotti lo conduce poi a misurarsi non solo con le zone impervie dell’arte ma anche non la letteratura e non a caso ritorna nei recentissimi lavori un gigante come Fëdor Michajlovič Dostoevskij che alle “memorie del sottosuolo “ ha dedicato un’ opera irrinunciabile . La sua fotografia nasce propria da questo radicamento della coscienza della fotografia rispetto all’universo d’ immagini generate non solo dalla pittura ma anche dalla letteratura, madre di tutte le arti. Questo è importante perché questa fotografia, o pittura digitale come si usa chiamare, mostra una progressione verso la sfera del noumeno che prima non poteva avere. Come a dire che proprio uno strumento legato alla tecnologia diventa il depositario di un sapere legato al profondo, alla memoria, agli archetipi a quell’ universo che anche in chiave antropologica, è sempre appartenuto alla cultura. Non a caso bisogna rammentare una parola che probabilmente il lavoro di Carotti riesce benissimo ad esprimere: “teatro”, inteso tanto come “teatrum mundi” che come “teatro della memoria”. L’artista riesce perfettamente con grande lucidità a sondare le immagini paradigmatiche di una civiltà: la compassione, il dolore, la morte, l’amore, la sospensione temporale. Si attende da perfetto utopista che sia la bellezza a salvare un mondo che al contrario s’ inabissa nell’indifferenza delle immagini sovracodificate dai media. Qui accade il contrario, e che Caravaggio si affianchi ai Demoni o all’Idiota di Dostoevskij è prova che la cultura occidentale possiede ancora dei punti di riferimento e delle icone anche per le generazioni attuali . La fotografia pittorica di Carotti riesce a sintetizzare quello che si affaccia sulla scena dell’arte figurativa contemporanea, sempre alla ricerca di una medietà tra le strutture del profonde e i miracoli della superficie digitale. Ma anche alla ricerca di un’originalità di una visione del mondo che sappia essere equidistante tra il passato e il futuro, in una consapevolezza delle origini che è soprattutto scelta di una posizione nel mondo'.
Comunicato stampa a cura di Paolo Termentini
3497503172
paolotermentini@gmail.com
Inaugurazione sabato 19 settembre 2009
Palazzina Azzurra
viale Bruno Buozzi, San Benedetto del Tronto (AP)
Orari: da martedì a venerdì: 10-13 e 17-20
Ingresso Libero