Volute. In mostra sculture e installazioni recenti accanto ad alcune opere degli anni '70 e '80. Ogni paesaggio, soprattutto quando e' inventato, si colloca all'interno di un immaginario: nel caso delle opere di Mavi, l'ambito iconico di riferimento ha qualcosa di premoderno.
In mostra sculture e installazioni recenti accanto ad alcune opere degli anni ’70 e ’80
Roberto Borghi
L’oggetto come paesaggio
Ricordate il design ipercolorato, occhieggiante al pop, eclettico, bizzarro e visionario degli anni Ottanta?
Se ve lo ricordate, sappiate che ha poco o nulla a che fare con le opere di Mavi Ferrando. Sì, è vero: in alcuni casi si sarebbe tentati di definire le sculture presenti in mostra con l’aggettivo “postmoderno”. Invece nei lavori di Mavi – che almeno in parte sembrano possedere un legame sotterraneo con il mondo del design – non c’è nulla di post: c’è semmai un forte senso del moderno, concentrato in quell’oggetto emblematico della progettualità novecentesca che è la sedia.
Quale designer non si è misurato con questo elemento-base dell’universo domestico? E soprattutto quale progettista non ha fatto della sedia il segno rappresentativo del suo stile? Artista con una formazione architettonica, Mavi ha fornito in anni non sospetti – cioè precedenti agli Ottanta – una sua versione alquanto anomala della seggiola: una versione che sembra voler sabotare lo schema funzionalistico imposto dall’ortodossia del moderno, ma allo stesso tempo proporre un’alternativa più radicale dell’eclettismo postmoderno.
Mettiamola così: la sedia, anche nelle opere di Mavi, non smette di essere un “oggetto” – vero e proprio termine-feticcio della modernità; ma allo stesso tempo si configura come un paesaggio, come una dimensione con una sua geografia da esplorare, forse persino con una sua ipotetica orografia – fatta di creste, di vette a volte smussate, a volte particolarmente acute – e magari persino una sua architettura interna – composta da strutture primarie o da anomali ziqqurath. Ma se l’oggetto si fa paesaggio, è inevitabile che anche il paesaggio si faccia oggetto, si materializzi, si condensi, per esempio, nei magmatici e un po’ enigmatici collages che sono tra i pezzi più interessanti di questa mostra.
Ogni paesaggio, soprattutto quando è inventato, si colloca all’interno di un immaginario: nel caso delle opere di Mavi, l’ambito iconico di riferimento ha qualcosa di premoderno, sembra cioè assestarsi in una dimensione in senso lato arcaica, con inevitabili ricadute nel fantastico. E’ grazie a questo sprofondamento nel tempo, o forse solo alla sua sospensione, che le sedie possono trasformarsi in troni, che il paesaggio può gremirsi di simboli – non tutti di facile né indispensabile decifrazione – e che le figure possono fluttuare, quasi sprovviste di peso.
Già perché quello delineato dalle opere di Mavi è un paesaggio abitato, una dimensione popolata da sagome che, nei titoli di alcuni lavori, assumono il nome di “saltatori”. Verso dove balzino, questi strani funamboli, è difficile da stabilire. Probabilmente in direzione di un superamento delle categorie: quella di moderno, per esempio, ma anche quella di design, architettura o arte. Probabilmente verso una suggestione che ha l’orizzonte ampio di un paesaggio.
Chiara Gatti
Mavi Ferrando - Gli uomini sottili
Diceva Melotti che «l’amore della materia non ha niente a che fare con l’arte». Non ci sono, per la verità, molti punti di contatto fra la ricerca di Mavi Ferrando e quella Fausto Melotti. Ma questo è certamente uno dei più significativi. Lei, come lui, ha un’idea della scultura che è un inno al vuoto e alla leggerezza. Contro ogni possibile, gravoso concetto di massa. La scultura, per entrambi, ha qualcosa di mentale e nasce dalla proiezione di un’idea capace di concretizzarsi in un’immagine lieve, come il pensiero che l’ha generata.
Se nei lavori degli esordi, nei primi anni Sessanta, ispirati a una certa figurazione soda e tradizionale, Mavi Ferrando organizzava sulla tela organismi arcaici, ispirati a temi classici e geometrie corporee, in uno studio del corpo stesso, fatto di braccia, muscoli, spalle e polpacci solidi come le rocce, nelle opere della maturità la ricerca plastica si è arresa infatti alla forma impalpabile. I collage conquistati dalle sassaie su cui danzava la Primavera di Botticelli, talora sostituita sagacemente dalle silhouette scolpite dei palestrati, tradivano – tanto quanto i fotomontaggi a rilievo con i suoi troni slancianti fra le rovine greche, fra brandelli di colonne doriche e capitelli in briciole – un interesse ben radicato per lo studio del divario fra forma e funzione, levità e pesantezza. Antagonismo vecchio come il mondo, da cui forma e levità, nel caso di Mavi, sono uscite trionfanti.
Non per niente, la sua ricerca ha virato allora verso le forme proprie della scultura, declinate in numerosi temi e soggetti. Dalle immagini militanti e corrosive negli anni della contestazione, a quelle più poetiche e liriche di gestazione recente. Dai primi troni ai personaggi col vento nei capelli. Dalle sedute tempestate di spine, ai draghi ai nuotatori ai ballerini e ai podisti dinoccolati, coi vestiti invisibili, che lasciano una scia nell’aria mentre volteggiano al ritmo di un ballo da sala o procedono in punta di piedi, così vaporosi da sembrare sospesi a due metri da terra. Creature mobili, estratte dalla materia grazie al ritaglio sottile di una linea continua, che ha disegnato nello spazio un profilo… con la stessa armonia con cui Fontana tracciava nel vuoto i suoi primi concetti spaziali e orchestrava la matita sulla carta all’alba del ’46. Fontana trovò, si sa, il suo elemento nel vuoto. Mavi, nel legno.
Mavi Ferrando da bambina giocava col traforo. Aveva un innato senso del legno, del compensato, grezzo e sottile. Poi è passata alla sega elettrica. Sempre con il legno davanti, da buon architetto col pallino del design. Ma l’artista indisciplinata che c’è in lei s’è divertita a prendersi gioco sin da subito proprio dell’architettura e del design, minandone le regole alla base. E brandendo uno strumento poco canonico, manovrando la lama dentata con la grazia di un pennello, ne ha ricavato forme in grado di sfidare la logica delle strutture e le ricerche estetiche sui prodotti del vivere quotidiano, attaccandone ferocemente il funzionalismo estremo e inaugurando, dall’inizio degli anni Settanta, una sorta di “social design” ante litteram.
Ne sono scaturite allora le sue celebri sedute sadiche, con gli aculei al posto dei cuscini e i braccioli seghettati per la gioia dei polsi. Non contenta, s’è divertita ad indorare la pillola tingendo i suoi scranni con i colori delle caramelle, il viola o il fucsia, facendoti credere che l’esperienza poteva anche essere piacevole. Sculture al vetriolo, insomma, che contenevano un caustico invito a prendere posto alla mensa di ogni potere costituito. Piccoli, ingannevoli riccioli ne abbellivano gli schienali quasi fossero capigliature appena phonate. Terribile Mavi! Capace di un’ironia leggera e allo stesso tempo graffiante. Una sorta di Jane Austin del contemporaneo, che con intelligenza spregiudicata ha punzecchiato mode e costumi della nostra società. Con ardore ma senza perdere mai il suo aplomb.
Merito di quella che Alessandro Mendini, in un suo scritto del ’91 ai lei dedicato, ha definito la “stilematica del giocattolo”. È, di fatto, la dimensione giocattolosa dei suoi intagli a mantenere l’accusa su un registro d’eleganza. Che mette in campo l’espressività delle forme – pugni serrati e labbra carnose pronte a disgiungersi come quelle di un oracolo – a scapito sì della funzione, nell’idea di porsi agli antipodi del design funzionale; ma distinte anche da una riflessione estetica che chiama in causa tutti gli ingredienti della rappresentazione: dai simboli alla percezione, dalla decorazione ai contenuti. Elementi di un meccanismo ad incastri che non ha perso il suo mordente neppure nelle più recenti visioni poetiche, dove la grinta degli esordi si stempera in teorie di angioletti e personaggi paffuti, citazioni classiche di figure dalle stazze michelangiolesche ma lievi come palloncini che, a slegarli, volano in alto o che sfidano le leggi di gravità scalando in assetto obliquo grate lignee di bancali, in una processione a metà fra la danza rituale e la scampagnata.
Lo spirito di leggerezza di Mavi Ferrando aleggia qui nell’atmosfera fantastica di un racconto popolato di visioni quasi celestiali, alternate ad altre presenze iconiche di creature più statuarie: guardiani così solenni da ricordare gli argonauti, gli “antichi eroi” della mitologia greca, e cavalieri dai corpi sinuosi come onde e le pose controvento. Emerse dal legno come dalle acque o, nel caso delle ultime sculture in ferro, ritagliate nella materia, plasmando il metallo quasi fosse di burro.
Già, di burro. Perché il metallo è cedevole fra le sue mani esattamente come il compensato. Per Mavi non c’è differenza. Armata del suo antidoto segreto contro la pesantezza della massa, sarebbe capace si trasformare in piuma anche un blocco di granito. Circumnavigando le sue forme alla ricerca di rotondità inedite, con effetti di morbidezza che potrebbero sembrare un omaggio a Moore e ai suoi giochi alternati di pieni e vuoti, concavi e convessi. Ma alla corposità delle forme dense del maestro inglese, alle dimensioni sferiche dei suoi corpi da percorrere col palmo, Mavi Ferrando continua ad anteporre l’amore per la linea pura, per tratteggiare le ombre riflesse dei suoi uomini sottili. O sconfinare nell’astrazione, quando trasfigura le serpi in volute, in lingue di fuoco, tirabaci o spifferi di vento. Nuovi totem e nuove sedute, agitate da motivi aerei e fitomorfi, ispirati ai moti dei flutti e dei marosi.
Evelina Schatz
Curvando le pieghe con ostinazione
C’era una volta… Natale al quinto cortile. Un posto unico in una Milano spenta, dimentica e dimenticata. Lì, lungo le vecchie strade interne degli artigiani, numerosi passavano gli artisti, emozionati da tanta bellezza delle case che avevono il volto della storia dell’uomo faber, capace di essere artefice del proprio destino.
Mavi Ferrando preparava in legno un bosco incantato condiviso con molti artisti. Sculture multiple, dipinti resi rilievi, piccoli teatrini, vetrine di vite inconsuete, speciali. Tutto era una danza collettiva di oggetti di attrazione reciproca. Oggetti recitavano, scherzavano, ballavano, si prendevano in giro. L’arte sorridente e festaiola, quella dei Natali di Mavi e Donatella al Quintocortile in via Col di Lana. Mavi era il pifferaio. Dietro allo spazio magico – un giardino incantato. Vi passavano i poeti. Fra i concerti dei vicini di casa: le oche, decine e decine di oche. Il coro irriducibile. Porca l’oca! La natura canta.
Così l’incantesimo era sempre di casa, sempre più intenso.
In questo clima da gioco, in questo spazio espositivo ospitale, maturava e diventava sempre più rigogliosa la scultura lignea di Mavi Ferrando.
Mentre la galleria Quintocortile abbandonava l’infilata delle corti, il giardino, le oche e si trasferiva da lì a poca distanza in un’altra corte, sempre più Far West metropolitano. Nel West, si sa, ci sono esploratori, artisti e figli di buona donna, i nuovi cercatori d'oro, i pellegrini e, naturalmente, gli indiani nostrani (gli storici tendono comunque a sottostimare questo fenomeno enfatizzato e ingigantito dal cinema. Noi siamo con il cinema.)
Anche qui nella nuova dimora crescerà un giardino. Gli amici impareranno la strada verso il luogo da scoprire. La città imparerà a conoscerlo. Questa volta lo spirito di contaminazione, quello collettivo, e quello dell’ospitalità di un opera da condividere, si trasforma in una personale di Mavi Ferrando.
Instancabile, ostinata, Mavi tagliava troncava mozzava amputava falciava segava e ancora segava. Concentrata. Un vero affollamento.
Figure bizzarre ti vengono incontro, numerose. Salgono le scale, escono dai tronchi grezzi, in volo per le piazze del mondo, prendono il treno: destinazione – stazione di Corsico, scendono, cadono, in extremis si salvano, ballano il valzer e,infine, serviti allo spiedo.
Forse il legno è la chiave ideale per l’arte assoluta, risultato di miscugli di linguaggi diversi: dalla pittura sulla tavola alla scultura,
dall’architettura alla scenografia, dal teatro alla musica, dal libro in carta alla recitazione e danza sul palcoscenico in legno.
Gran teatro, quello di Mavi. Quando non è, addirittura, opera buffa...
Dove ci sono anche le sedie in qualità di protagoniste. Sedie impazzite, danzanti, barocche. Ironica mimesi.
Ha così destituito del suo valore classico l’aspetto aulico della scultura, investendo di una nuova e forte capacità di rappresentazione il materiale naturale e povero, confidando sempre in ironia. La stupefacente proliferazione di forme ci riporta ancora al concetto dell'artista faber di medievale ascendenza.
Ma è il barocco la sua cifra.
Abbiamo scritto recentemente della poesia e possiamo ripeterlo a proposito dell’arte, così poetica, della Ferrando: “È un’arte barocca, la sua. Ecco! La piega di Leibniz e Deleuze. È barocca in tutto e per tutto, in quanto in essa tutto si piega, si dispiega e si ripiega. Il barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all'infinito, piega su piega, piega nella piega.”
Mavi Ferrando
Note biografiche
Mavi Ferrando, genovese, nasce nel 1945. Nel 1963 si diploma al Liceo Artistico Nicolò Barabino di Genova e nel 1969 si laurea in architettura al Politecnico di Milano. Dopo una serie di esperienze figurative, pop e informali svolte negli anni sessanta, all’inizio degli anni ’70 comincia ad occuparsi delle forme e della percezione degli oggetti giungendo ad elaborare un linguaggio proprio e provocatorio rasentante intenzionalmente spesso l’assurdo. La sua prima mostra personale è del 1975. Sculture-oggetto in legno che sembrano oggetti d’uso ma che, svuotati totalmente dalla loro funzione, diventano emblematici del fare design e arte. Un linguaggio vagamente post-pop e neobarocco. Intorno agli anni ottanta nell’urgenza di cambiare la dimensione fisica delle sue opere ricorre alle tecniche del collage e del fotomontaggio introducendo contemporaneamente nuovi elementi quali il gesso ed elementi presi dal mondo commerciale.
Di carattere poliedrico si interessa di fotografia, musica, cinema, architettura.
Nella prima parte degli anni novanta introduce decisamente il colore nei suoi lavori che diventano sempre più simili a frammenti di quadri. Tavole di legno ritagliate in maniera irregolare e asimmetrica, accenni di cornici, l’opera che esce fuori dai confini di quanto realmente è presente e rappresentato.
Nelle sculture attuali l’origine dissacratoria e contestataria è ancora visibile, ma in maniera molto più sfumata, mentre è quasi scomparsa la simmetria che ha accompagnato tutti i lavori del suo primo periodo. Negli ultimi dieci anni ha realizzato numerose installazioni servendosi per le strutture, oltre che del legno, di materiali diversi quali elementi di ponteggi o bancali rielaborati. Ha partecipato a moltissime esposizioni personali e collettive sia in Italia che all’estero. Tra gli altri hanno scritto sul suo lavoro: Mirella Bentivoglio, Marisa Vescovo, Carmelo Strano, Alessandro Mendini, Vito Apuleo, Mimma Pasqua, Roberto Borghi, Donatella Airoldi. Tra le pubblicazioni è presente in ‘Storia dell’Arte italiana del ‘900 - Generazione anni quaranta’ di Giorgio Di Genova - Edizioni Bora. Dal 1997 si occupa attivamente del settore arte dello spazio Quintocortile a Milano. Lavora a Milano in Viale Bligny 42 e a Valle Lomellina (Pavia) in Via Montale 10.
Il nuovo Quintocortile
Dopo dodici anni di mostre e manifestazioni nei ‘cortili’ di Viale Col di Lana 8 Quintocortile si è spostato nella vicina, inquietante, affascinante casbah di Viale Bligny 42. Terra di tutti e di nessuno, per la criticità e variegazione della sua popolazione la nuova ubicazione di Quintocortile diventa il terreno ideale su cui continuare a costruire e diffondere contatti e contaminazioni artistiche su e tra le complessità sociali e esistenziali contemporanee.
Presentazioni in catalogo di Roberto Borghi, Chiara Gatti, Evelina Schatz
catalogo in Galleria
inaugurazione: martedì 15 dicembre alle ore 18,00
Galleria Quintocortile
Viale Col di Lana 8 - Milano
orario: martedì - giovedì dalle 17,00 alle 19
Ingresso libero