Silvia Anselmi
Leo Bellei
Antonella De Nisco
Lorenza Franzoni
Miryam Molinari
Laura Serri
Stella
Sunghe oh
Luiza Samanda Turrini
Le donne vengono da Venere. Collettiva di artiste a cura di Luiza Samanda Turrini. Espongono: Silvia Anselmi, Leo Bellei, Antonella De Nisco ed altre ancora.
a cura di Luiza Samanda Turrini
Silvia Anselmi
Leo Bellei
Antonella De Nisco
Lorenza Franzoni
Miryam Molinari
Laura Serri
Stella
Sunghe oh
Una delle cifre stilistiche di Laura Serri è l’economia dei suoi elementi espressivi. Per sottolineare il contrasto che si crea fra le componenti della sua opera. Da una parte tappezzerie pastellate, perimetri interni e protetti, nidi pieni di bambagia a fiorami color confetto. Di quest’universo comodo e stanziale fanno parte anche le sedie, di varie fogge e formati. Dall’aerodinamico sdraio di design al canapè da Paolina Bonaparte, dalla poltrona della nonna a quella Luigi XIV, dal divano sfondato allo sgabello a nido anni Sessanta. Ed infine, i cervi. Aggraziati come ballerine sulle punte, leggeri, veloci. Con colli lunghi, occhi con pupille a mandorla, spalle potenti e zampine sottili. I cervi si spostano in branchi, e sono agli antipodi di quella stanzialità rappresentata da sedie e carte da parati. Prede di carnivori e cacciatori, questi animali sono stati fra i primissimi soggetti rappresentati dall’uomo, sulle volte delle caverne nel periodo Magdaleniano. Nelle ere in cui l’uomo si spostava in continuazione, inseguendo i grandi branchi di mammiferi.
Cavalcatura degli dei, vittima sacrificale, psicopompo che conduce nell’aldilà le anime dei morti, il cervo compare nei miti di quasi tutte le culture: può avere le corna dorate come nelle fiabe dell’Est Europa, essere lo spirito del peyote e del granoturco per nutrire anima e corpo secondo i Huicholes del Messico, o anche figura di Cristo, nel simbolismo protocristiano. Laura Serri rappresenta i cervi cogliendoli in un’ampia molteplicità di atteggiamenti. Cerbiatti dal mantello mimetico, giovani cervi che cambiano le corna, maschi che barriscono nella stagione degli amori, femmine al galoppo, madri che allattano. Se gli animali riprodotti nell’arte sono quasi sempre figura degli esseri umani, Laura Serri descrive l’utopia di un’umanità pura, leggiadra, che si contrappone all’ethos della forza e dell’aggressione.
Antonella de Nisco utilizza un linguaggio primitivo, intrecciando fronde ramificate come corna di animale ad orditi di fibre grezze che sembrano canestri intrecciati. Pano-rami : che cosa sono questi oggetti misteriosi? Trappole per uccelli? Strumenti musicali azionati dal vento? Segnali per orientarsi nel bosco? Forse i Pano-rami sono degli strumenti rituali, e quindi non hanno alcuna utilità pratica. De Nisco si rifà a codici espressivi perduti nel corso dei millenni. All’epoca in cui l’uomo si emancipò dalla realizzazione di oggetti funzionali, per creare oggetti inutili, ma saturi di significato. Gli oggetti magici, da usare nei riti, da cui poi è nata l’arte. Nelle installazioni ambientali di Antonella de Nisco sembra che la mano dell’uomo venga aiutata da quella della natura, per creare selve incantate, case fatte d’erba e ragnatele intrecciate di colori. Land Art con la partecipazione straordinaria della Grande Madre.
Anche Silvia Anselmi si avvale della complicità degli elementi per completare le sue sculture di fil di ferro, esponendole in esterno finchè gli agenti atmosferici non le fanno ossidare. Alberi in filo metallico, dal crogiolo che fonde insieme scultura e grafica. Forti come il ferro, delicati e tremanti come un segno di matita. Gli alberi di Anselmi sono ridotti all’essenziale, e danno l’idea del movimento, della crescita costante.
Myriam Molinari rappresenta un campionario di creature morbide e gommose. Creature degli abissi. Il mare, nella sua vastità, può essere accostato alla mente. Gli esseri fantastici di Molinari scaturiscono dalle profondità dell’inconscio. Dalla mente colta nel sonno, nell’atto di montare, accostare, scomporre fra loro delle creature inesistenti: pesci fatti di gelatina, meduse semitrasparenti, piume di struzzo o sacche d’inchiostro di seppie e calamari. Molinari mette in scena fiabe strane ed inquietanti, sogni, resoconti di viaggio dell’Alto Medio Evo, diari di bordo di un sottomarino a ventimila leghe sotto i mari. Per raccontarci di un mondo fatto d’acqua, etereo e fluttuante.
CORPO
Sunghe-Oh rappresenta il corpo politico, trovatosi al centro di dinamiche di potere. Il corpo della vittima non è necessariamente femminile, infatti viene connotato dall’artista in maniera androgina, per dimostrare la sua universalità. La condizione di prigionia viene suggerita dalla rimozione degli arti: le gambe non possono essere usate per spostarsi, le braccia sono inutili ai fini di un libero operare. È un corpo ridotto a recipiente chiuso e diviso in due. Un vaso che diventa cella, coronata di filo spinato, chiusa da sbarre, cinta di catene. Questi tre busti dolorosi sono statici come mummie, perché il prigioniero è fermo, in uno stato di morte civile. L’installazione è circondata da cocci di ceramica grezza, color mattone, che rappresentano il corpo e la mente frantumati dalla violenza della segregazione.
Lorenza Franzoni invece cavalca l’onda dell’identità femminile, giocando con tutti i suoi elementi di instabilità e mutamento. Le sue tecniche per eccellenza sono due. L’assemblaggio di oggetti, soprattutto pezzi assolutamente folli di lingerie, e il collage, usato per viaggiare nel tempo. Franzoni si trasforma di volta in volta in musa surrealista, con mutande a testa di struzzo e reggiseno ad acquasantiera, turista di fine Ottocento con camera con vista, arredo vivente della propria wunderkammer. Il pezzo in mostra, Live Collage, unisce una performatività coinvolgente da teatro di strada con la tecnica menzionata, fotografando volti di persone incontrate per caso, e riassemblandoli in immagini polimorfe. Nel segno, ancora una volta, di un’identità mutante.
Stella (Stefania Gagliano) lavora sul rapporto fra corpo, cibo, e sesso. Una schiena scolpita dalle ossa che si affianca ad una tazzina di caffè priva di contenuto. Un corpo magrissimo, senza testa, piegato di fianco ad un frigo socchiuso come una vergine di Norimberga, vuoto o forse svuotato. Un autoritratto squisito: castamente vestito di tutto punto, la testa coperta (come quella di un condannato al patibolo, o di un cadavere), le mani giunte al petto, e coltello e forchetta ai lati dei fianchi, come dire ai lati del piatto da divorare. Un corpo nudo e acefalo viene accostato ad una mannaia. Infine arriva la logica conclusione, nell’Autoritratto in quarti di bue: Fra le zampe dell’animale, aperte con quell’oscenità che riesce solo alla morte, emergono i denti di un teschio. Per quanto stella abbia realizzato un ciclo pittorico sui santi, in questa collettiva rappresenta il corpo nel suo aspetto carnale e profano.
Il corpo divino è rappresentato da Leo Bellei, con una serie di icone.
Dive marginali, di nicchia, dimenticate dai più. Proprio in queste sante minori convivono nettamente i due aspetti del divino e dell’umano.
Da una parte l’incanto, la genialità, la bellezza che mozza il fiato, la forza. Dall’altra la rottura, la sofferenza, la caduta.
Il caschetto morboso di Louise Brooks ha dato inizio agli anni Venti, e sancito la nascita della nuova donna fatale, sporca di sesso e psicanalisi. Lo stesso caschetto ha poi ispirato Guido Crepax nella creazione di Valentina. Louise Brooks aveva un carattere chiuso e difficile. Tornata a Hollywood dopo la parentesi di fama europea, dovette lavorare nei night-club e nei grandi magazzini, fino a morire sola, e dimenticata da tutti.
Anna May Wong fu la prima star cino-americana. Debuttò nel muto e riuscì a sopravvivere al sonoro, all’epoca in cui in America esistevano le Anti-miscenation Laws, delle leggi che proibivano i rapporti sessuali interraziali (fossero anche baci sullo schermo). Grazie al suo temperamento e alle recensioni entusiaste, a diciannove anni Anna May Wong era già famosa, e potè permettersi di ribellarsi ai ruoli stereotipati e marginali che le imponeva Hollywood. Partì per l’Europa, dove diventò una It Girl. Ha recitato con Lon Chaney, Douglas Fairbanks e Marlene Dietrich, di cui fu anche una supposta fiamma.
“Il corpo è un indumento sacro”, ha detto Martha Graham. Grandissima coreografa, ha danzato per l’ultima volta a settantasei anni, e negli anni Ottanta è stata maestra di Madonna. Nelle sue coreografie si è rifatta al patrimonio delle danze orientali e ai rituali primitivi, partorendo capolavori con titoli come Revolt, Heretic, e Primitive Mysteries. In questa galassia di stelle periferiche abbiamo anche Anaïs Nin, la scrittrice erotica che ha vissuto la bohème letteraria fra l’Europa e New York. Amante di Henry Miller, amica di Artaud, sperimentatrice di oppio e acido lisergico, ha dato il suo nome ad un profumo della Cacharel che si vende da più di trent’anni. Anaïs Nin, in virtù della raffinatezza della sua scrittura e della sua impermeabilità al concetto di scandalo, ha analizzato e descritto per tutta la vita la propria multiforme sessualità.
Niente sesso, è la ragazza della porta accanto. Sandra Dee, la star dei teen film degli anni Cinquanta, sembrava scoppiare di salute: bionda, con pelle dorata e guance di rosa che facevano venir voglia di pizzicarle. In realtà Sandra Dee soffriva di bulimia nervosa, crisi depressive e propensione all’alcolismo, probabilmente a causa degli abusi che aveva subito da bambina da parte del patrigno.
Stesso visino di panna e zucchero, ma ben altra tempra per Alida Valli. Nata baronessa, debuttante sullo schermo a quindici anni, fidanzatina d’Italia in epoca fascista, è riuscita a sopravvivere a tutto: Hitchcock, cinema francese, Bertolucci, Pasolini, Visconti, Antonioni. Perfino Benigni.
Altra magnitudo di bellezza per Silvana Mangano, la dea delle risaie, paragonata dai critici americani all’incantevole Rita Hayworth. In bilico fra l’eros della sua fisicità e il perbenismo cattolico della sua educazione, Silvana Mangano detestava il suo corpo e soffriva di insonnia. La sua bellezza era inversamente proporzionale al calore che riuscì a trasmettere ai propri figli.
Profilo aristocratico come la Mangano, figlia di una Von Sacher-Masoch, Marianne Faithfull è stata la regina indiscussa della Swinging London, nonchè la madre di Maria Antonietta nel film di Sofia Coppola. Ha scelto di accompagnarsi a Mick Jagger a ragion veduta, dopo aver collaudato tre degli Stones. Descritta con le mani macchiate di sangue in You cant’ always get what you want, ai tempi di Sister Morphine era eroinomane, anoressica, e senza fissa dimora. Nel ’75 viveva negli squat assieme alla punk-band dei Vibrators. Marianne Faithfull ha collaborato, fra gli altri, con i Beatles, i Metallica, Nick Cave, Pj Harvey, Angelo Badalamenti, Billy Corgan e David Bowie. Marianne Faithfull è senz’ombra di dubbio una sopravvissuta.
A differenza di Jean Seberg, il maschietto dalla maglietta a righe di Fino all’ultimo respiro. Icona della Nouvelle Vague, amica di Nico dei Velvet Underground, collezionista di mariti e crisi depressive, Jean Seberg venne trovata morta nella sua auto nelle periferie di Parigi, undici giorni dopo essersi suicidata con un’overdose di barbiturici.
Tornando a Londra, troviamo Mary Quant, la stilista che fece cominciare gli anni Sessanta. Madrina della minigonna, talent scout di Twiggy, fu nominata Cavaliere della Corona Britannica l’anno dopo i Beatles. Quando le chiesero lo scopo della moda, Mary Quant rispose senza esitazione: “Sesso”. Stesso periodo, stessa città. Prima ancora di Twiggy, c’era Penelope Tree. Gambe lunghissime, faccia da elfo, Penelope Tree fu fotografata a tredici anni da Diane Arbus. Convivente del fotografo di culto David Bailey a diciassette, fu definita da John Lennon “Hot, Hot, Hot, Smart, Smart, Smart!”. La sua carriera di modella fu distrutta negli anni Settanta da un’acne tardiva.
Da Londra, a New York. Un fuoco fatuo in calzamaglia nera, abito di Paraphernalia e autentica pelliccia di leopardo. Edie Sedgwick cavalcava l’uragano guidando una Mercedes argentata, lungo il marciapiede e sotto l’effetto dell’LSD. Per scappare dalla casa dell’incesto. La ragazza in fiamme, che ingurgitava chili di salmone in crema di avocado e caviale beluga, e poi vomitava ogni cosa. Edie ballava divinamente, ed era l’unica cosa autentica in mezzo agli squali della Silver Factory. Labbra di ciliegia e fossette nelle guance, nessuno poteva resistere al suo sorriso. Edie è morta a ventotto anni, per overdose di barbiturici. Creatura incantevole. Youthquaker. Geisha della droga. Robert Rauschenberg disse che Edie Sedgwick era “come l’arte”. Un’altra famosa ereditiera rappresentata da Leo Bellei è Paloma Picasso : dopo aver posato da bambina per i quadri del padre, si è dedicata al design di gioielli, vestiti e profumi, e alla frequentazione dello Studio 54. Dalle sfere più chic alla cultura pop, da Paloma Picasso a Linda Carter. Rocker ventenne, finalista al concorso di Miss Universo, vestirà i panni di Wonder Woman, e dichiarerà di odiare la commercializzazione del suo corpo ad opera degli studios.
Di nuovo alle stelle, con ultima l’erede del mecenatismo rinascimentale, la snobbissima, aristocratica ed eccentrica Peggy Guggenheim. È partita facendo la commessa in una libreria avant-garde ed è diventata la patrona di Man Ray, Duchamp, Pollock, Brancusi, Calder, Moore, e di tutto il movimento surrealista. Moglie di Ernst, amante di Beckett, tirchia, ninfomane, party-girl fino a settant’anni suonati, Peggy Guggenheim adorava i vestiti a stampe, i cagnolini da grembo, gli occhiali enormi e la carta igienica a buon mercato. Suo padre potè concedersi il lusso di morire durante il naufragio del Titanic. Nina Simone invece nacque in una famiglia povera del North Carolina, sesta di otto fratelli. Iniziò a suonare il piano a tre anni e sviluppò la voce più androgina del mondo. Indimenticabile la sua My Baby Just Care For Me. Affetta da disturbo bipolare di personalità, attivista per i diritti civili dei neri, Nina Simone è stata definita l’Alta Sacerdotessa del Soul.
Nel mare magnum degli eredi della Pop Art e della loro attitudine alla riproduzione di volti famosi, Leo Bellei è una mosca bianca. Proprio perché, piuttosto che sulla celebrità schietta, Bellei preferisce lavorare sullo slash che divide fama ed oblio, connettendosi in questo modo alla riflessione su uno dei grandi moventi dell’arte, la preservazione della memoria. Ognuna delle donne rappresentate è fortemente emblematica. Ripercorrendo le loro vite, riusciamo ad intravedere un’immagine a mosaico, che va a comporre il fantasma della donna del Novecento. Bellezza, intelligenza, ambizione, edonismo, disturbi alimentari, autodistruzione, autodeterminazione, sessualità, maternità, cultura, talento. Bellei rappresenta la luce e il buio che si mischiano insieme, sullo schermo, a tutte le feste di domani, e nei giorni non festivi.
Fra le mani dell’artefice, sulla tela, e dentro chi la guarda.
Luiza Samanda Turrini
Opening Con la presenza delle artiste Sabato 27 febbraio alle ore 18
Piaggeria Arte
piazzale della Rosa – Sassuolo (MO)
Orari: sabato 16.00-19.00
domenica 10.00-13.00 /16.00-19.00